Sarkozy in visita in Giappone ha dichiarato che il livello standard della sicurezza delle centrali nucleari deve essere riformata verso parametri generali a livello mondiale. La dichiarazione, del primo capo di stato in visita in Giappone dopo il disastro nucleare seguito al terremoto, ha una duplice valenza: sia come capo di stato della nazione che dipende maggiormente dall'energia nucleare, sia come presidente in carica del G-20. Proprio in sede di G-20, il presidente francese intende riunire i responsabili della politica nucleare dei paesi membri per gettare le basi della regolamentazione futura delle centrali nucleari.
Il primo ministro giapponese Naoto Kan ha appoggiato l'idea, proprio per evitare disastri come quello in corso nel suo paese. Dare regole universali di elevati standard di sicurezza rappresenta l'unica via per uniformare la produzione di energia nucleare e ricercare la prevenzione di possibili incidenti, che hanno effetti difficilmente contenibili. La strada da percorrere è quella giusta, tuttavia se sarà problematico mettere d'accordo già tutti i paesi del G-20, ancora più difficile sarà imporre a paesi fuori dall'organizzazione, si pensi all'Iran, ma non solo. Tuttavia con un accordo a livello generale, che comprenda gli stati più importanti come USA, Cina e Russia e che preveda sanzioni, anche pesanti per chi non si adegua alle norme fissate, si potrebbe prefigurare una applicazione degli standard stabiliti, in un'ottica di sicurezza maggiore per l'intero pianeta.
Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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giovedì 31 marzo 2011
L'immigrazione fonte di disaccordo in Europa
La questione migratoria è al centro della discussione e del dibattito in Italia. La posizione geografica della penisola favorisce il flusso migratorio dalla costa sud del mediterraneo, questa particolarità ha costituito preoccupazione per il belpaese, tanto da stringere, spesso accordi con regimi non proprio cristallini. La politica migratoria di Roma si è quindi fondata su una serie di manovre per limitare all'origine i flussi dei migranti, chiudendo spesso gli occhi, sulle modalità con le quali questi flussi venivano bloccati. L'Europa ha guardato a questo tipo di risoluzione girando la testa dall'altra parte, ben contenta che altri risolvessero il problema nei confini merdionali del continente. L'Italia, peraltro, ha basato esclusivamente su questi accordi tutta la propria politica migratoria, senza pianificare un modello alternativo che contemplasse situazioni di emergenza. La questione delle rivolte nei paesi arabi ha colto di sorpresa le autorità italiane, che si sono trovate spiazzate senza più poter contare sui loro "guardiani" delle frontiere. La particolare vicinanza alle coste africane dell'isola di Lampedusa, territorio più a sud dell'Italia e vera e propria porta dell'Europa, ha provocato la congestione della piccola isola con continui arrivi dalle coste tunisine e libiche. L'Italia, impreparata a gestire un tale traffico ha praticato una gestione del problema giorno per giorno, riuscendo solo a programmare una serie di campi di accoglienza dove confinare i migranti. L'Europa, aldilà dei discorsi di principio e qualche visita di cortesia di europarlamentari che hanno interpretato la parte per propri fini di visibilità, ha lasciato Roma da sola a gestire la situazione, facendo venire i nodi al pettine della scarsa lungimiranza di Bruxelles. Ogni singolo paese si è rinserrato nel proprio orticello ed ha dichiarato che avrebbe rifiutato eventuali ingressi di immigrati provenienti dall'Italia. La questione riguarda particolarmente la Francia dove la maggior parte dei migranti è diretto e per i quali l'Italia rappresenta una sola tappa di passaggio. La questione è spinosa, perchè Parigi pretenderebbe, con Schengen in vigore, che l'Italia tenesse ferme sul suo territorio delle persone contro la loro volontà; di fatto la Francia abdica la propria responsabilità nei confronti degli abitanti delle ex colonie. Questo avviene in un momento di particolare tensione tra i due paesi transalpini, a causa della guerra libica ed i diversi atteggiamenti dei due paesi. In verità si è più volte sospettato che l'interventismo francese sia dovuto, più che a ragioni umanitarie, al petrolio libico ed al tentativo di accreditarsi presso i ribelli come partner principale, per togliere alle aziende italiane le ricche commesse con la Libia. In ogni caso la questione immigrazione è esplosa nel peggiore dei modi e l'Europa ancorauna volta non ha una linea comune di fronte ad un fenomeno che potrebbe diventare senza progetti adatti un problema enorme sia dal punto di vista umanitario che economico. Occorre mettere in campo subito azioni che facciano parte di un piano più ampio, per incanalare la problematica: senza interventi diretti nei paesi da cui provengono i migranti, la situazione sarà sempre più difficile.
mercoledì 30 marzo 2011
Il sudamerica sempre più indipendente ed importante sulla scena internazionale
Il sudamerica pare procedere compatto nella condanna alla guerra libica, se ciò era scontato da parte del Venezuela, è arrivata più inaspettata la condanna dell'Argentina, mentre il Brasile, che siede nel consiglio di sicurezza dell'ONU, riguardo alla risoluzione 1973 ha votato con un'astensione, che la dice tutta sulla convinzione dell'intervento libico. Questo è solo un esempio che sta a dimostrare che il sud america sembra acquisire una nuova coscenza della propria forza, sia politica che economica; in passato i giudizi sulla politica estera non erano slegati dall'indirizzo statunitense, con l'incremento della democrazia e l'affrancamento economico, le nazioni tendono ad avere posizioni non più speculari alla superpotenza americana. Quella che si sta sviluppando è una vera e propria unione d'intenti che si sta affermando nel continente sudamericano, gli scambi nella regione si sono incrementati con mutua convenienza ed il livello delle relazioni internazionali è intenso, nonostante le differenze di vedute dei governi. Non è azzardato pensare che se i rapporti tra gli stati procederanno in questa direzione, potrebbe formarsi un blocco, ancorchè eterogeneo, territoriale con potenzialità di crescita economica molto rilevante e di conseguenza con la possibilità di accrescere il proprio peso sulla scena diplomatica. Siamo in una zona chiave del pianeta, che si affaccia su entrambi gli oceani e può godere di risorse ingenti, la crescita democratica favorisce la crescita di nuovi ceti sociali e dall'allargamento dei ceti medi, che si presentano sul mercato economico affamati di novità e di consumi. Il peso politico di personaggi come Lula, ma anche, pur nelle sue contraddizioni, Chavez, fa salire la considerazione del continente sudamericano negli osservatori e negli analisti politici, che pronosticano un futuro da sicuro protagonista al subcontinente americano.
Birmania: democrazia disciplinata, democrazia falsata
In Birmania si afferma la "democrazia disciplinata", secondo la definizione di Than Shwe, uomo forte del regime militare. Neppure un governo soltanto in apparenza civile, come quello destituito lo scorso mercoledì, ha potuto resistere alla ferrea dittatura militare in vigore dal 1962. L'apparato militare ha ritenuto troppo libertaria anche la forma esteriore che si era riusciti a raggiungere dopo le elezione del 7 novembre scorso. Dal punto di vista legislativo, nonostante la norma preveda la possibilità di un dibattito parlamentare, il potere legislativo sarà limitato tramite una regolazione che prevede che ogni proposta sia presentata dieci giorni prima davanti ad una commissione che dovrà rilasciare un'autorizzazione per la discussione. Si tratta di un evidente ostacolo all'attività legislativa, una vera e propria tutela dell'organismo parlamentare. La norma esplica chiaramente quale metodo i militari, veri detentori del potere, attuino per frenare il processo di democratizzazione richiesto dal paese, imbrigliando e canalizzando le proposte legislative, plasmano a loro piacimento la costruzione materiale della legge, per esercitare, sotto forma legale, la continuazione della propria dittatura.
L'insufficienza della risoluzione 1973
La risoluzione 1973 si presta ad interpretazioni linguistiche che rischiano di incrinare sia la coalizione dei volenterosi, che il consiglio di sicurezza dell'ONU. Secondo una lettura restrittiva l'uso della forza, tramite l'istituzione della zona di non volo, serve ad impedire il massacro della popolazione civile, in teoria l'applicazione della risoluzione dovrebbe avere un carattere di imparzialità tra i contendenti. Ora, con l'ennesimo rovesciamento delle sorti del conflitto e con la ripresa delle posizioni delle truppe lealiste, che sta avvenendo in forza di un uso massiccio e preponderante dell'artiglieria pesante, l'azione della forza aerea non basta più a garantire, non solo la vittoria dei ribelli, ma neppure la salvaguardia dei civili. Il rebus sta nel fatto che se Gheddafi vince, per la popolazione della parte orientale del paese, partirebbe sicuramente la repressione, quindi, secondo l'interpretazione della coalizione dei volenterosi la lettura della risoluzione va intesa non in forma restrittiva, ma ampliata nella direzione di fornire un qualche aiuto ai ribelli affinchè rovescino il regime in carica. Questa interpretazione viene ritenuta forzata da quelli stati che hanno consentito la risoluzione, non con l'esplicita approvazione ma con l'astensione in sede di consiglio di sicurezza ONU, ed in special modo Cina e Russia, ma anche Germania, che pur essendo in costante contatto con Francia e Regno Unito, ha sempre rigettato l'opzione militare. Il problema maggiore è che con l'evoluzione del conflitto, le relazioni di alcuni stati con la Libia di Gheddafi, sono talmente peggiorate da non potere prefigurare un suo mantenimento del potere. La constatazione della previsione dell'insufficienza della forza aerea per vincere il conflitto, apre a sviluppi che nessuno stato si augura, che evidentemente prevedono l'impiego di forze di terra per assicurare la vittoria alle forze contrarie al rais. Se si volesse intraprendere questa via, la risoluzione 1973, strettamente interpretata, non sembrerebbe contemplare un uso terrestre della forza, nel cui merito peraltro, esistono perplessità anche dagli USA, giacchè, secondo fonti di intelligence, tra i ribelli si sarebbe registrata la presenza di elementi di Hezbollah. Quindi, data l'insufficienza della risoluzione a cui si appoggia l'impalcatura dell'intervento e senza speranza di ottenerne una ulteriore con prerogative militari allargate, per Francia e Regno Unito si tratterebbe di intraprendere la via della decisione bellica al di fuori del complesso quadro della diplomazia internazionale. E' una situazione ingarbugliata, da cui Parigi e Londra possono difficilmente tornare indietro, ma che, nel frattempo, crea un'impasse utile solo al colonnello.
martedì 29 marzo 2011
La dottrina Obama: flessibilita’ e nuovi metodi della politica estera USA
In questi giorni, che coincidono con la presa del comando della guerra libica da parte della NATO, si parla di dottrina Obama, nel campo delle relazioni internazionali. Fin dal suo insediamento una parte del mondo riponeva molte aspettative nel nuovo presidente americano, anche in funzione degli equilibri geopolitici del pianeta; l’attività in politica estera fino a questo punto si è caratterizzata per un mix di cautela e di interventismo, condizionato fortemente da cause contingenti. C’è da dire che l’eredità della precedente amministrazione è stata pesante: la gestione di Iraq ed Afghanistan pesano sulle spalle americane non poco, tuttavia la gestione Obama ha cercato di trovare metodi alternativi al solo intervento militare, prediligendo, quando possibile, la via del dialogo, perseguita con azioni di sostegno sociale. In questo quadro l’obiettivo dell’exit strategy si è potuto inquadrare, pur tra mille difficoltà, ed indirizzarsi verso una soluzione condivisa. La lotta al terrorismo è stata portata avanti, diminuendo i metodi repressivi ed incrementando l’azione di intelligence al fine di prevenire il fenomeno, si è scelto, insomma una linea di basso profilo che non mettesse gli USA al centro della scena e questo anche in funzione della ricostruzione dell’immagine statunitense fortemente deteriorata. La politica di Obama ha puntato su di un’azione capace di mettere gli interessi americani avanti a tutto, ma portata avanti con un certo understatement, per conciliare il fatto della tutela degli interessi nazionali con le svariate sfaccettature del panorama internazionale. L’applicazione di questi precetti allo svolgimento, sopratutto recente, del divenire del panorama internazionale ha disvelato una politica duttile e flessibile, che si caratterizza per una preferenza incondizionata dell’azione diplomatica su quella piu’ prettamente militare, tipica di altre amministrazioni. Anche per la crisi libica, gli USA hanno preferito un attendismo, ingiustamente scambiato per indecisione, che alla fine si e’ tradotto in un aspettare il giusto momento dell’intervento. Non che la politica estera USA, non interpreti ancora il ruolo, spesso fastidioso, di gendarme del mondo; quello che appare cambiato sembra l’intento finale, che pur essendo in funzione dell’interesse americano, guarda anche, piu’ positivamente ai principi ispiratori cui Obama dichiara di ispirarsi: quelli dell’interesse generale.
lunedì 28 marzo 2011
UE: occasione persa nella vicenda libica
Mentre la zona di non volo sta passando sotto il comando NATO, Italia e Germania lavorano ad una soluzione diplomatica che permetta, con il cessate il fuoco, una uscita conveniente per Gheddafi. Il succedersi degli eventi sulla scena politica internazionale porta alla ribalta Roma e Berlino ed arretrano Parigi e Londra. Sopratutto per Parigi lo smacco diplomatico è evidente: l'eccessivo decisionismo, slegato dagli ambiti dei propri alleati e dalla dovuta collegialità ha determinato la messa all'angolo di Sarkozy. La mossa del presidente francese, se efficace dal punto di vista militare, sopratutto agli occhi delle forze avverse a Gheddafi, dal punto di vista politico si è rivelato un azzardo che ha messo in una luce non proprio favorevole la Francia. Al contrario, per Germania ed Italia, l'opzione diplomatica si sta rivelando un buon viatico per risolvere la questione e per recuperare posizioni sulla vicenda, dato l'immobilismo che ne aveva contraddistinto l'atteggiamento, durante l'inizio della vicenda. In realtà, modi a parte, senza l'opzione militare voluta da Parigi, le trattative diplomatiche, che ora sono molto apprezzate, non partirebbero dalle attuali posizioni di forza; quindi la sinergia tra le due visuali molto probabilmente permetterà di raggiungere l'obiettivo. Questa è la dimostrazione che si è persa una grande occasione di unità europea, di fare finalmente apparire la UE come una unica potenza con identità di intenti ed unicità di azione; dietro le schermaglie e la volontà di apparire della Francia, delle titubanze italiane, delle perplessità tedesche vi è una grande immaturità del sentimento europeo; ed anche l'incapacità di gestione di Bruxelles denuncia una grave lacuna di direzione di indirizzo degli organi centrali. L'occasione persa deve almeno insegnare qualcosa per il futuro: riorganizzare da subito la diplomazia della UE e dotarla di strumenti adatti deve essere il primo passo per non ricadere nell'errore.
Gli USA non si occuperanno della crisi siriana
Una partecipazione degli Stati Uniti, in una eventuale operazione militare in Siria, paese dove si stanno verificando rivolte e dove la repressione della polizia ha causato diversi morti, è da scartare totalmente. Così la segretaria di stato Hillary Clinton in una intervista alla CBS. La Clinton ha precisato che una evenineza del genere richiede troppe condizioni, difficilmente verificabili contemporaneamente: una coalizione della comunità internazionale, ina risoluzione del consiglio di sicurezza dell'ONU, una richiesta della Lega Araba ed una condanna universale del regime di Hassad.
La situazione siriana non è paragonabile con quella libica, per quanto siano gravi le proteste e la repressione non è in corso alcuna guerra, ed anzi il governo ha promesso aperture per superare lo stato delle cose. Dal punto di vista diplomatico, inoltre appare assai improbabile l'impiego di una forza occidentale, ed in special modo americana, in un paese che relazioni molto strette con l'Iran; ciò potrebbe sembrare una pericolosa provocazione nella regione, dove, tra l'altro la Siria si trova contigua allo stato di Israele: una miscela altamente esplosiva.
La situazione siriana non è paragonabile con quella libica, per quanto siano gravi le proteste e la repressione non è in corso alcuna guerra, ed anzi il governo ha promesso aperture per superare lo stato delle cose. Dal punto di vista diplomatico, inoltre appare assai improbabile l'impiego di una forza occidentale, ed in special modo americana, in un paese che relazioni molto strette con l'Iran; ciò potrebbe sembrare una pericolosa provocazione nella regione, dove, tra l'altro la Siria si trova contigua allo stato di Israele: una miscela altamente esplosiva.
USA e sudamerica
La politica estera di Obama nel centro sud america non ha fatto registrare grosse variazioni; per Cuba non ci sono sostanziali avanzamenti tra i due paesi, le misure messe in campo dal fratello di Castro sono ancora poca cosa, se viste da Washington, ed i problemi con la dissidenza anticastrista sono ancora di tale entità da bloccare ogni sviluppo di relazione bilaterale. Sullo sviluppo del trattato di libero scambio con Colombia e Panama esistono degli aspetti ancora da limare, la sensazione è che il presidente USA, voglia portare a termine l'accordo nel 2012, come dote elettorale da gettare nella campagna. Il problema più grosso è il Venezuela, sospettato di fornire uranio all'Iran, il rapporto con Chavez è difficoltoso, e la sensazione che fornisca Teheran non aiuta, tuttavia per il momento la presidenza USA non intende forzare la mano, anche in virtù dell'assenza di prove concrete. Il quadro che appare è che la diplomazia USA al riguardo dei paesi latinoamericani è in una fase di attendismo, probabilmete a causa di esigenze più pressanti, tuttavia l'obiettivo è di incrementare l'influenza americana nel continente per sottrarre partner commerciali all'avanzata cinese. E' probabile che questo piano si attuerà con aiuti destinati al problema educativo ed infrastrutturale per innalzare il livello degli interlocutori territoriali.
Guerra umanitaria e guerra preventiva
Qual'è la differenza tra intervento umanitario e guerra preventiva? Non è una domanda retorica, dato che ormai spesso le due cose coincidono. Con l'avvento della dottrina della guerra umanitaria, che deve cioè essere intesa come operazione di polizia internazionale tesa a difendere la popolazione civile da atti militari contro di essa, le organizzazioni sovranazionali hanno spesso esercitato questo diritto/dovere intervenendo, appunto come forza esterna, a sanzionare "manu militari" l'oppressore di turno. La questione è quale è stato e quale deve essere il motivo che fa scattare questa reazione? Nel passato i casi più eclatanti sono stati l'impiego della forza contro Serbia, Iraq ed Afghanistan (questi ultimi due peraltro operazioni ancora in corso), attualmente una coalizione occidentale sta agendo in Libia. Mentre in questi paesi si è agito più o meno speditamente in altri casi l'intervento è stato limitato al presidio territoriale di caschi blu, spesso inefficienti, o nel maggior numero delle evenienze non vi è stato alcun intervento diretto, ma solo blande sanzioni o dichiarazioni d'intenti a cui non è seguito nulla. Il sospetto che dietro la giustificazione della cosidetta guerra umanitaria si nascondano altri motivi è stato da subito strisciante. In effetti, pur essendo presente la possibilità o peggio la certezza di gravi azioni sulla popolazione inerme, l'intervento militare è spesso parso come operazione intrapresa a causa di quell'unico fine. Se in Serbia non vi era petrolio era pur vero che stava accadendo qualcosa di pericoloso dentro i confini europei, in una zona strategica dove non si potevano permettere zone d'ombra di instabilità; in Afghanistan l'intervento è stato dettato dal periodo seguente all'undici settembre e si può vedere come un investimento sulla sicurezza occidentale, per fermare la formazione e lo sviluppo delle formazioni terroristiche; più complesso il caso iraqeno, dove la presenza di un dittatore che angustiava il proprio popolo, è stato eliminato, in ritardo, con un falso motivo, la presenza di armi di distruzione di massa, su di un territorio ricco di greggio. E siamo alla Libia, dove l'intervento in corso è partito tra mille fraintendimenti e difficoltà contro un personaggio con cui gli stati che ora lo attaccano, hanno sempre avuto rapporti duraturi. Tutti questi casi, parlano chiaramente di interventi dove l'emergenza umanitaria esiste ma non è condizione sufficiente a determinare l'intervento, ne consegue che la regola è che deve essere presente anche una ragione accessoria, che però è spesso quella determinante per l'intervento militare. Siamo così alla guerra preventiva, lo schema è quello di intraprendere una azione militare per regolare una situazione potenzialmente pericolosa, per l'avvio è necessaria una causa che faccia presa sull'opinione pubblica e giustifichi l'intervento. Siamo nello stesso caso della guerra umanitaria? La risposta è si, in questo momento storico le due cose coincidono, è lo schema vigente per operare azioni militari su vasta scala, speriamo che il prossimo passo sia riuscire a scindere le due cose e si intervenga per tutti i casi di emergenza umanitaria, ma per fare questo è necessaria una forza armata dell'ONU.
domenica 27 marzo 2011
Per Israele pericolo Siria
La rivolta in Siria crea nuova apprensione per Israele, in un momento delicato dopo il recente attentato subito. La dinastia degli Assad vive un momento cruciale, per la sua permanenza al potere, in un paese a maggioranza sunnita, l'elite del potere segue una setta scita; ci troviamo in una situazione rovesciata rispetto al caso saudita. Questa particolarità ha permesso una strategia diplomatica molto duttile, venata di ambiguità e sottigliezza. Lo stato siriano, ha infatti intrattenuto relazioni con Iran, Hezbollah (finanziati in Libano) ma anche con Israele, il quale giudica la Siria un interlocutore con cui potere negoziare e che consente stabilità alla regione. Questo nonostante la Siria si sia professata più volte antisionista ma l'interesse a recuperare la zona del Golan, occupata dall'esercito della stella di David nel 1967, ha più volte portato a contatto i due paesi. Invero una speranza recondita di Tel Aviv è la caduta degli Assad, proprio per rompere il letale triangolo Teheran-Damasco-Beirut, giudicato pericoloso dal governo israeliano. Tuttavia in questo momento storico, con le nazioni arabe in rivolta e senza potere ipotizzare certezze su chi prenderà il comando nelle rispettive caselle della scacchiera delle rivolte arabe, gli Assad vengono giudicati un fattore di stabilizzazione nel paese circa i rapporti con Israele e i dubbi sui possibili sviluppi attanagliano la dirigenza di Tel Aviv. Sembra il ripetersi delle sensazioni che accompagnavano in Israele la fine del regime di Mubarak, quando si sosteneva che era più conveniente il suo mantenimento al potere per la stabiltà della regione. Quello che traspare è che la diplomazia israeliana si sia trovata impreparata ancora una volta dopo i fatti egiziani e navighi a fari spenti nel mare delle rivolte. Con la propria posizione geografica la Siria potrebbe diventare uno snodo strategico per un possibile attacco alla nazione israeliana, non tanto dall'esercito siriano, inferiore a quello di Tel Aviv, ma base di partenza di terroristi o anche attacchi missilistici. La bomba siriana è quindi da disinnescare subito, anche con concessioni (vedi Golan), che impediscano un possibile conflitto nell'area più calda del mondo.
venerdì 25 marzo 2011
Quale destino per Gheddafi?
«Le operazioni militari si concluderanno quando la popolazione civile sarà al sicuro dalla minaccia di attacchi e quando gli obiettivi della risoluzione 1973 saranno raggiunti» è scritto in un documento in più punti i capi di Stato e di governo riuniti a Bruxelles. La frase lascia aperta ogni possibilità ed evenienza sul prosieguo della operazione libica. Le riflessioni sulle implicazioni di un pronunciamento del genere, che ha tutti i crismi dell'ufficialità, lasciano credere che l'operazione prevede l'annientamento o almeno la condizione di non nuocere per Gheddafi. Sarebbe, infatti impossibile garantire la parte orientale della Libia dalla minaccia di attacchi per la popolazione civile con Gheddafi ancora in Libia. Se questo è vero si aprono tre possibilità per il rais: la soppressione fisica, in battaglia o successiva (come in Iraq), la cattura e il rinvio a giudizio al tribunale de L'Aja ed infine l'esilio. Non pare deciso verso quale decisione intende dirigersi l'alleanza, che comunque dovrà tenere conto anche della decisione dei ribelli, e senz'altro il tema è fonte di discussione nelle cancellerie. Il destino di Gheddafi è legato non solo al successo delle operazioni militari, anche la diplomazia dietro le quinte sta operando per andare in un senso o nell'altro. Si tratterà di vedere e valutare anche cosa Gheddafi potrà tirare fuori dai cassetti della sua scrivania. La presenza di dossier segreti, in mano al colonnello, è un'ipotesi non tanto peregrina: non si passano quaranta anni al potere senza accumulare documenti riservati su capi di stato con cui si intrattengono rapporti, talvolta anche stretti. Se la presenza di questi dossier fosse reale potrebbe essere l'arma finale che consentirebbe a Gheddafi di contrattare una uscita di scena onorevole e sopratutto conveniente per se stesso. La messa in salvo di Gheddafi potrebbe anche essere vista in chiave di pacificazione nazionale e sarebbe un elemento per evitare un dopoguerra da regolamento di conti, clima essenziale per fare ripartire il nuovo stato libico.
Le tre strategie del caso Libia e la mancanza della diplomazia UE
Francia, Germania ed Italia: tre paesi fondamentali della UE e componenti della NATO, con tre strategie diverse circa la Libia. Ruota intorno a questi tre paesi la possibilità con cui mettere fine alle ostilità militari e trovare una via di uscita. La Francia ha optato subito per un attacco militare, sfruttando le indecisioni americane e della UE, per cercare di allargare la propria influenza sulla sponda sud del Mediterraneo; probabilmente si aspettava una evoluzione rapida del conflitto da portare sulla bilancia del prestigio. Invece ha ottenuto di spaccare una alleanza nell'alleanza, quella con la Germania, e di risultare invisa in seno alla UE. Per quanto riguarda gli USA, Obama ha cercato da subito di riportare la NATO al centro delle operazioni, sconfessando, così, Sarkozy. La mossa di Parigi alla fine si è rivelata un azzardo, che alla fine costerà molto in termini di politica estera. La Germania, superata dagli eventi, ha dimostrato una scarsa propensione per l'intervento militare, arrivando a togliere dal Mediterraneo le poche forze armate presenti. Il problema del comando unico assente, è stato quello che maggiormente ha infastidito Berlino, il dirigismo francese non è stato digerito ed alla fine la Merkel ha elaborato una strategia che punta a fiaccare il regime con pesanti sanzioni economiche ed isolandolo dal consesso internazionale. A gioco lungo potrebbe questa decisone potrebbe sortire effetti letali sul regime di Tripoli, ma è una strategia che si basa sull'accettazione universale della stessa, appare difficile che non ci sia una qualche forma di contrabbando dell'oro nero tale da aggirare l'embargo. Tuttavia, in chiave diplomatica la decisione pare destinata a dare dei frutti nell'ambito della discussione e può porre la Germania a capo di una cordata di nazioni, che anzichè optare per l'uso della forza, punta a risolvere la situazione con mezzi pacifici. Il progetto, pur meno appariscente, pare destinato ad avere maggiore rilevanza sul piano internazionale perchè basato su un maggiore interscambio tra gli stati. L'Italia, infine, pur restando nell'ambito degli steccati della UE e della NATO, cui non ha negato l'appoggio, anche materiale, tramite l'uso delle basi militari, sta sviluppando una terza soluzione che prevede un maggiore uso della diplomazia sotterranea, anche in funzione degli accordi sviluppati con il regime libico durante tutta la sua storia. I frequenti contatti hanno sviluppato una rete di contatti che solo Roma può vantare, ciò determina la scelta di puntare in questo senso. L'Italia cerca di arrivare ad una exit strategy onorevole per Gheddafi, in modo di evitargli il coinvolgimento in un processo presso la Corte Internazionale dell'Aja ed un esilio onorevole. E' la via che assicurerebbe una veloce fine del conflitto senza troppi danni da ambo le parti, anche se le conseguenze successive sono tutte da valutare. Sul piano della politica internazionale, Roma si muove in sintonia sia con la UE che con la NATO, e ciò la mette al riparo da contrasti palesi; l'azione che porta avanti, pur essendo una azione di propria iniziativa, viene portata avanti senza ne interferire ne stravolgere la politica UE e NATO e senza, sopratutto avere intenti travalicatori. L'analisi delle tre strategie pone in primo piano la mancanza di una politica estera comunitaria e l'incapacità di frenare gli eventuali slanci in avanti di quegli stati, in questo caso la Francia, che sfuggono alla collegialità. Senza strumenti adeguati previsti dalla UE, non si inizia neppure a costruire una diplomazia europea, condizione essenziale, am non sufficiente, per pesare, come Europa, nell'agone internazionale.
giovedì 24 marzo 2011
Rivolte arabe ed infiltrazione terroristica
Esiste un concreto pericolo di infiltrazione terroristica nelle rivolte arabe? La domanda circola da tempo nelle cancellerie dei governi occidentali e l'apprensione è ancor più salita dopo l'escalation della guerra libica. Secondo informazioni di intelligence uomini di Al Qaeda potrebbero essere tra le fila dei ribelli di Gheddafi, infiltrati per cercare di guadagnare posizioni alla causa terroristica nella parte est del paese. La formazione dei ribelli appare un insieme eterogeneo, dove si mescola l'elemento tribale e l'opposizione politica; il momento di caos è ottimale per favorire l'infiltrazione di soggetti alieni alla protesta, che tentano di portare il verbo qaeddista in Libia. Occorre ricordare che Gheddafi ha tenuto lontano gli estremisti islamici dalla Libia, sopratutto per non pregiudicare il funzionamento della propria macchina statale, dove ogni forma di opposizione poteva nuocere alla macchina del rais. Tuttavia la vicinanza con l'Algeria, dove sono presenti base qaeddiste, potrebbe avere favorito l'infiltrazione di elementi di Al Qaeda, anche grazie al caos venutosi a creare nei primi momenti dell'inizio delle ostilità. Se questo fosse vero, sarebbe una ragione in più per seguire da vicino l'evoluzione di quello che potrebbe diventare il nuovo stato libico. Uno dei meriti di Gheddafi era stato, appunto, tenere lontano dalla Libia il movimento di Al Qaeda, se si aprisse questo nuovo fronte per l'Europa, sarebbe un pericolo in più da non sottovalutare.
Uno dei paesi più preoccupati è l'Italia, meta verso cui si muovono molti profughi provenienti dalla sponda sud del Mediterraneo. Esiste un concreto pericolo che tra i tanti sventurati che cercano una sorte migliore, vi siano dei terroristi che possano approfittare del momento di confusione per entrare nell'area UE, inoltre in caso di sconfitta di Gheddafi, molti pretoriani fedeli al regime potrebbero passare il mare diretti a Lampedusa. E' questo, del terrorismo, un aspetto di difficile gestione all'interno della complessa vicenda libica: con l'Europa che, verosimilmente, si troverà a gestire direttamente una problematica molto delicata, in un momento in cui l'argomento religioso nel vecchio continente è uno degli argomenti centrali del processo di integrazione. La questione non è secondaria perchè può fornire argomenti a tutti quelli che in questi anni hanno costruito la loro fortuna politica sulla lotta allo straniero ed al diverso. Agitare lo spettro terroristico potrebbe avere facile presa di un'opinione pubblica spaventata. Il problema non va comunque sottovalutato, sia per le sue implicazioni, che per il reale pericolo, a cui ci si augura badino anche strutture sovranazionali.
Uno dei paesi più preoccupati è l'Italia, meta verso cui si muovono molti profughi provenienti dalla sponda sud del Mediterraneo. Esiste un concreto pericolo che tra i tanti sventurati che cercano una sorte migliore, vi siano dei terroristi che possano approfittare del momento di confusione per entrare nell'area UE, inoltre in caso di sconfitta di Gheddafi, molti pretoriani fedeli al regime potrebbero passare il mare diretti a Lampedusa. E' questo, del terrorismo, un aspetto di difficile gestione all'interno della complessa vicenda libica: con l'Europa che, verosimilmente, si troverà a gestire direttamente una problematica molto delicata, in un momento in cui l'argomento religioso nel vecchio continente è uno degli argomenti centrali del processo di integrazione. La questione non è secondaria perchè può fornire argomenti a tutti quelli che in questi anni hanno costruito la loro fortuna politica sulla lotta allo straniero ed al diverso. Agitare lo spettro terroristico potrebbe avere facile presa di un'opinione pubblica spaventata. Il problema non va comunque sottovalutato, sia per le sue implicazioni, che per il reale pericolo, a cui ci si augura badino anche strutture sovranazionali.
La Germania fuori dall'operazione libica
La NATO sembra, alla fine, prendere il comando della missione libica, tuttavia l'estenuante trattativa lascia una vittima illustre: la Germania della Merkel si chiama fuori dall'operazione e richiama le sue forze armate presenti nel Mediterraneo. E' una spaccatura non da poco in seno all'alleanza atlantica, all'Unione Europea e che incrina, se non del tutto, in modo molto grave l'asse portante europeo che correva tra Parigi e Berlino. La virata da primadonna di Sarkozy ha sconvolto equilibri che sembravano ormai assestati e che avranno contraccolpi non da poco sull'assetto degli equilibri interni della UE. Con l'andare avanti degli eventi si capirà meglio se diventerà più delineata la tattica del presidente francese, che con un azzardo ha spazzato via un rapporto che pareva durevole e comunque faticosamente costruito. La fuga in avanti della Francia, rischia di lasciare Parigi isolata negli sviluppi futuri della politica estera. Intanto, grazie ad Obama, Sarkozy ha dovuto retrocedere sul comando militare ed operativo dell'operazione, con la NATO, anzichè la cabina di regia dei ministri degli esteri, che assume la direzione delle operazioni. Su questo fronte è da segnalare la partecipazione della Turchia al blocco navale con quattro imbarcazioni, mentre continuano gli incontri tra ONU, NATO, Lega Araba ed Unione Africana per dare il massimo risalto alla collegialità dell'intervento, per non urtare alcuna suscettibilità, specialmente quella dei popoli arabi.
mercoledì 23 marzo 2011
Elezioni comunali in Arabia Saudita
L'Arabia Saudita cerca di fermare le proteste con lo strumento della legalità. Sono state, infatti indette le elezioni municipali, unica consultazione elettorale prevista nel paese, peraltro rinviata fin dal 2009. Il 23 aprile è la data fissata ed il ministro dell'interno ha ordinato la creazione della commissione elettorale. Si tratta del ritorno dell'unica manifestazione democratica ammessa, ma di fatto abrogata con il prolungamento di due anni del mandato dei consigli fissato nel 2009. L'istituzione è recente nella storia del paese in quanto le prime elezioni sono state celebrate nel 2005. La consultazione elettorale non elegge il 100% dei componenti dei consigli municipali, ma soltanto la metà, in quanto la metà restante è di nomina reale. Con l'indizione delle elezioni ed il pacchetto di misure sociali varate dalla casa reale, che ammontano a 70.000 milioni di dollari, si cerca di ridare stabilità al paese e riportare l'ordine nel paese. L'Arabia Saudita è il più grande esportatore mondiale di greggio e la sua stabilità interna è considerata essenziale dai paesi industrializzati; un blocco o una riduzione della produzione di petrolio potrebbe bloccare più di una economia.
Il Consiglio nazionale libico ha nominato il suo leader
Il leader del Consiglio Nazionale Libico è stato nominato: si tratta di Mahmoud Jabril, nuovo capo del governo, che è stato incaricato di nominare i nuovi ministri. Il nuovo capo del governo provvisorio è un riformista, che non intende dividere lo stato libico, ma mantenere lo stato senza il dittatore. Mahmoud Jibril pare abbia già incontrato il presidente francese Sarkozy, che lo ha trattato da legittimo rappresentante del popolo libico. Jibril ha dichiarato che il Consiglio Nazionale provvisorio è un organo legislativo, ma la nuova Libia necessita anche di un esecutivo per controllare la situazione ed amministrare la parte liberata. Infatti il nuovo presidente ha come obiettivo di liberare la parte libica ancora occupata dalle truppe del rais. L'intendimento lascia così cadere le ipotesi a riguardo delle creazione di due stati, basati sulla divisione tribale, quello che si intende portare avanti è un progetto che mantenga integra la Libia con tutto il suo territorio e tutte le sue ricchezze. Sarà interessante vedere come sarà impostata la politica estera del nuovo esecutivo, anche se l'interlocutore privilegiato pare essere la Francia, che tanto si è spesa per la causa dei ribelli. Per quanto riguarda l'Italia, la tattica che si cerca di portare avanti è quella diplomatica, preferita a quella militare. Roma gioca su due campi diversi, ma gli agganci del governo italiano con il vecchio regime sono sicuramente superiori. Quello a cui punta l'Italia è una soluzione diplomatica che consenta un cessate il fuoco ed una exit strategy onorevole per Gheddafi, senza mandato di cattura internazionale ed un esilio soddisfacente. Se ci fosse un successo da questo lato la strategia francese potrebbe essere incrinata da una fine della guerra meno cruenta e l'influenza sul paese riverrebbe messa del tutto in discussione.
Energia atomica: un nuovo approccio per evitare i disastri
La recente catastrofe nucleare Giapponese impone una riflessione a livello mondiale non solo sull'impiego dell'energia atomica, ma sopratutto sull'impatto ambientale ed economico che genera. E' doveroso ridiscutere tutte le norme che regolano l'utilizzazione e gli standard di sicurezza a livello mondiale, ed è necessario che questi siano condiviso a livello universale. Non occorre essere antinuclearisti per chiedere maggiori tutele, le radiazioni viaggiano con gli elementi naturali ed anche stati senza centrali nucleari possono essere raggiunti da inquinamento atomico fuoriuscito. E' un problema che investe la diplomazia perchè va a toccare la sovranità stessa degli stati, ma questo concetto deve essere superato dal diritto internazionale stesso stravolgendo i principi fondativi della materia. E' una discussione che va affrontata prima possibile, anche essendo cinici, il solo costo economico, senza considerare quello umano, che un incidente come quello giapponese, o come quello di Chernobil, oltre ad essere enorme, si protrae nel tempo, generando costi aggiuntivi. Chi non mantiene standard di sicurezza adeguati deve essere sanzionato, fino alla chiusura della centrale. L'Agenzia per l'energia atomica deve essere dotata di strumenti ispettivi e sanzionatori che consentano una adeguata prevenzione dei guasti letali, non solo, deve intervenire anche in fase di progetto, per evitare scostamenti dagli standard di sicurezza. Si tratterebbe di un approccio rivoluzionario, tuttavia, il calcolo costi-benefici sarebbe a vantaggio di tutti: sia degli stati che optano per questa forma di energia, sia degli stati che non la vogliono. Una piccola rinuncia per il bene comune.
I nervi poco saldi di Israele
Il bombardamento israeliano sulla striscia di Gaza ha provocato almeno tre morti, di cui due giovani ragazzi palestinesi, la ritorsione è avvenuta dopo il lancio di alcuni razzi che non hanno fatto vittime, ne danni. Tel Aviv dimostra di avere nervi tutt'altro che saldi, in un momento molto delicato della storia araba. Israele non riesce ad uscire dalla propria visuale ristretta, al piccolo orticello di fronte la porta di casa. Certamente questo episodio verrà derubricato nell'ennesima rappresaglia e finirà nel dimenticatoio della cronaca attuale, affogato in vicende ora più importanti. Eppure è l'ennesimo segnale di una miopia preoccupante, che, con il cambio della situazione geopolitica in atto, potrebbe a portare sviluppi inquietanti. Il processo di pacificazione e di stabilizzazione dei paesi arabi sarà, presumibilmente, lungo e difficile, tuttavia dovrà giungere ad un punto in cui gli stati dovranno trovare un loro assetto, ancorchè normalizzato, in quel momento per Israele potrebbero cambiare molte cose: potrebbe non godere più dell'appoggio politico egiziano, potrebbe trovare paesi vicini come lo Yemen, dove la maggioranza scita potrebbe avere acquisito maggiore importanza. Insomma, un assetto politico della regione totalmente cambiato e non precisamente favorevole. Cambierebbe la vita stessa di tutto il popolo israeliano, destinato ad una vita di trincea permanente. L'unica via di uscita per una pace stabile per Tel Aviv è mantenere un profilo più basso possibile e ricercare ostinatamente ed il più velocemente possibile la pace con i palestinesi e sforzarsi al massimo affinchè lo stato palestinese veda la luce al più presto. Rispondere alle provocazioni con morti inutili non va certo in quella direzione.
martedì 22 marzo 2011
Dove va l'Occidente?
Cosa conviene e dove va l'Occidente in questo momento storico? Le domande non sono retoriche, occorre interrogarsi sulle reali esigenze e possibilità che il cosidetto mondo ricco ha verso il futuro. Le rivolte arabe sono un buon banco di prova, che danno il polso della situazione, e non forniscono esempi incoraggianti. I nuovi assetti del mondo non permettono i vecchi atteggiamenti di finta disponibilità, ma richiedono una assunzione di responsabilità costante e partecipata. Si tratta di vedere il mondo non più a due, tre o quattro velocità, ma con un movimento sincrono che contempli tutte le variabili. Non sono parole vuote, la necessità di una visione che si omogeneizzi al resto del mondo pone l'Occidente in ritardo rispetto al resto del mondo. Non sono gli altri che si devono portare al nostro livello, siamo noi a doverci adeguare. La nuova redistribuzione delle ricchezze, la nuova circolazione delle idee e delle informazioni, sempre più in tempo reale, impone un atteggiamento diverso prima di tutto verso noi stessi. Non è più ammissibile ragionare sulla base esclusiva della singola territorialità e del piccolo interesse, il mondo tende sempre di più verso una comunità universale. E' vero che ci sono ancora grossi privilegi, ma se si pensa a soli vent'anni addietro, l'asticella si è di molto abbassata. Il terremoto imposto dall'affermazione dell'economia cinese, ha ribaltato situazioni, rispetto alle nazioni, ferme da secoli, e nel mentre si sono verificati fatti nuovi e decisivi come l'affrancamento delle nazioni africane. La necessità di democrazia è cresciuta perchè è cresciuta la consapevolezza dei popoli; il compito dei paesi con democrazia matura deve dare l'impulso ai popoli in cammino, ma non deve essere un neocolonialismo mascherato, con altre finalità. E' anche interesse dell'occidente che il livello di ricchezza cresca di pari passo con il livello di democrazia, infatti, in questa ottica la Cina rappresenta un pericolo, perchè i diritti fondamentali non sono tutelati. Conviene di più avere a che fare con democrazie rispetto a dittature, anche perchè il mercato globale deve avere regole, almeno, minime uguali. In questo momento la bilancia è ancora a favore dell'occidente, ma devono essere pensate strategie che pareggino le braccia, in maniera sufficientemente armonizzata. Soltanto l'incontro tra le comunità e gli stati ed il confronto continuo per migliorare l'approccio globale del movimento comune possono dare risultati. Con un riequlibrio di risorse, non solo materiali ma anche di idee l'occidente si può riappacificare con il mondo, abbracciando anche nuove filosofie con cui rapportarsi all'economia, attuare strategie anche di decrescita che consentano un maggiore equilibrio di ripartizione delle risorse e permettano finalmente l'uscita dal tunnel della storia.
La Libia spacca le diplomazie
La guerra libica rischia di fare, oltre purtroppo ai civili, una vittima illustre: la diplomazia. Dopo la morte dell'asse Berlino-Parigi, l'epidemia pare allargarsi in maniera contagiosa, andando a colpire rapporti che parevano consolidati e mettendo in pericolo sviluppi futuri. La situazione è di totale confusione, tutti accusano tutti e molti vogliono, od hanno già fatto, fare un passo indietro. E' il caso della Norvegia, che ha già ritirato i suoi aerei proprio per la mancanza di chiarezza sulla catena di comando. Gli USA, condizionati da una opinione pubblica ostile e gravati da altri problemi, hanno già annunciato che faranno retromarcia in sostanza perchè la guerra non si risolverà in modo rapido. L'Italia senza ombrello della NATO, minaccia di rifutare l'uso delle sua basi, fondamentali per la logistica dell'operazione; ma nella NATO, Germania, Polonia e sopratutto Turchia sono contrarie all'operazione e senza la decisione unanime del consiglio l'Alleanza Atlantica non può entrare in azione, non essendo i ribelli di Gheddafi stato membro, condizione che farebbe scattare automaticamente il coinvolgimento nelle operazioni militari. La via più probabile pare un comando franco-inglese, ma se così sarà le defezioni saranno molte. In generale quello che non piace è stato l'eccessivo decisionismo francese, che ha scavalcato ogni forma di collegialità e di intesa andando a spaccare un già incrinato insieme diplomatico. Aldilà delle ragioni umanitarie condivisibili, la mossa di Sarkozy ha il sapore di vecchio colonialismo, è pur vero, che l'intervento militare si era ormai reso necessario per la piega presa dagli eventi, ma la Francia non ha insistito nella via diplomatica, prima, ed ha esagerato, dopo, nell'accentrare su se stessa, di fatto, il comando sia militare che politico delle operazioni. Inoltre sul piano mondiale la Russia e la Cina sono sempre più contrarie all'opzione militare ed i dubbi della Lega Araba non fanno che aumentare le perplessità. La Francia sta rischiando grosso ed alla fine potrebbe essere quella a pagare di più sulpiano diplomatico, se i tempi della guerra non saranno brevi.
La Libia spacca le diplomazie
La guerra libica rischia di fare, oltre purtroppo ai civili, una vittima illustre: la diplomazia. Dopo la morte dell'asse Berlino-Parigi, l'epidemia pare allargarsi in maniera contagiosa, andando a colpire rapporti che parevano consolidati e mettendo in pericolo sviluppi futuri. La situazione è di totale confusione, tutti accusano tutti e molti vogliono, od hanno già fatto, fare un passo indietro. E' il caso della Norvegia, che ha già ritirato i suoi aerei proprio per la mancanza di chiarezza sulla catena di comando. Gli USA, condizionati da una opinione pubblica ostile e gravati da altri problemi, hanno già annunciato che faranno retromarcia in sostanza perchè la guerra non si risolverà in modo rapido. L'Italia senza ombrello della NATO, minaccia di rifutare l'uso delle sua basi, fondamentali per la logistica dell'operazione; ma nella NATO, Germania, Polonia e sopratutto Turchia sono contrarie all'operazione e senza la decisione unanime del consiglio l'Alleanza Atlantica non può entrare in azione, non essendo i ribelli di Gheddafi stato membro, condizione che farebbe scattare automaticamente il coinvolgimento nelle operazioni militari. La via più probabile pare un comando franco-inglese, ma se così sarà le defezioni saranno molte. In generale quello che non piace è stato l'eccessivo decisionismo francese, che ha scavalcato ogni forma di collegialità e di intesa andando a spaccare un già incrinato insieme diplomatico. Aldilà delle ragioni umanitarie condivisibili, la mossa di Sarkozy ha il sapore di vecchio colonialismo, è pur vero, che l'intervento militare si era ormai reso necessario per la piega presa dagli eventi, ma la Francia non ha insistito nella via diplomatica, prima, ed ha esagerato, dopo, nell'accentrare su se stessa, di fatto, il comando sia militare che politico delle operazioni. Inoltre sul piano mondiale la Russia e la Cina sono sempre più contrarie all'opzione militare ed i dubbi della Lega Araba non fanno che aumentare le perplessità. La Francia sta rischiando grosso ed alla fine potrebbe essere quella a pagare di più sulpiano diplomatico, se i tempi della guerra non saranno brevi.
lunedì 21 marzo 2011
Il Bahrein denuncia un complotto estero
Il Bahrein annuncia di essere vittima di un complotto straniero. Secondo il Re Hamad ben Issa Al Khalifa, la popolazione scita, che è la maggioranza all'interno del piccolo regno, posto in posizione chiave, sarebbe stata fomentata da potenze straniere, con l'intento di rovesciare il governo legittimo. Il Bahrein è uno stato in posizione strategica per il controllo del traffico delle petroliere e delle navi mercantili dirette al canale di Suez ed inoltre è la sede della flotta USA nel Mar Rosso. Nessuna accusa esplicita è stata fatta, ma si può capire che il sospetto cada sull'Iran, che ha più volte condannato il trattamento degli sciti ed anche l'invio di mille militari sauditi, in rinforzo delle forze armate di Manama. L'Iran, scita, ha una visione religiosa differente, seppur nel solco musulmano, rispetto ai sunniti, ed una vecchia rivalità con l'Arabia Saudita, di cui ritiene il Bahrein un'emanazione, proprio per la supremazia religiosa nell'ambito della religione di Maometto. In più l'Arabia Saudita è un alleato USA. L'ipotesi Iran potrebbe essere plausibile, data la gran presenza di sciti, su cui esercitare l'ascendenza per fare pressione sul governo del Barhein, nel quadro di allargamento della sfera di influenza della teocrazia scita, il sospetto di organizzare manifestazioni dall'esterno può essere contemplato; Teheran, insegue una mira, dove intende compattare più alleati possibili contro l'occidente e destabilizzare i suoi alleati può rientrare nel progetto.
Amministrative francesi: astensionismo al 55%
Nonostante l'attivismo in Libia di Sarkozy, nel primo turno delle elezioni amministrative francesi il risultato più eclatante è l'astensionismo arrivato al 55%. Neanche la metà, quindi, dei francesi è andata a votare, una percentuale enorme, che segnala come la società civile francese sia tanto lontana dalla politica. La mera classifica vede in testa il Partito Socialista che prende circa il 25% dei voti, l'UMP (partito del presidente della Francia) il 17%, il Fronte nazionale di Marine Le Pen il 15%, il Fronte della Sinistra il 9% ed infine i Verdi l'8%. L'astensionismo si conferma sempre di più in Europa, dove i cittadini non riescono a riconoscersi nei partiti e neppure nella politica in generale, che non riesce a risolvere i problemi quotidiani. Una conseguenza della crisi economica (e della incapacità di risolverla) è proprio l'incremento dell'astensionismo, ultimo strumento in mano ai cittadini dopo il voto di protesta. Peraltro il voto di protesta va a prendere la piazza d'onore sul podio elettorale: così si spiega il trionfo dell'estrema destra lepeniana, che con questo risultato conferma la bontà dei sondaggi in mano a Marine Le Pen, che l'accreditano al primo posto per le consultazioni presidenziali. Anche in Francia la paura dell'emigrazione e la povertà dei ceti emarginati spinge a destra il paese, logica che si sta affermando in tutto il continente.
Libia: flussi migratori e creazione di due stati
Secondo alcune indiscrezioni l'Egitto starebbe fornendo armi ai ribelli libici. La contiguità territoriale tra la Cirenaica ed il paese dei faraoni favorisce questa sorta di alleanza tacita. A parte il fatto della simpatia tra popoli in rivolta, il calcolo dell'Egitto si basa sul fatto che in caso di vittoria di Gheddafi, l'esodo verso Il Cairo di profughi sarebbe ingestibile. Infatti la promessa mattanza del rais di Tripoli scatenerebbe la corsa alla frontiera e l'Egitto si troverebbe a gestire un'emergenza umanitaria oltre ogni ragionevole possibilità. D'altro canto un'annientamento totale, magari con una eliminazione fisica di Gheddafi, del regime libico, provocherebbe una emigrazione in senso contrario, con le persone compromesse con il rais a cercare una via di fuga. Dalla Tripolitania via terra il paese più vicino è la Tunisia, già provata duramente dal traffico dei profughi delle prime ondate dell'inizio del conflitto. Se l'Egitto non ha le capacità di sostenere una tale massa di migranti, per la Tunisia verrebbe addirittura a mancare lo spazio fisico. In questo caso la possibilità di fuga si volgerebbe necessariamente alla via marina, con l'Italia come destinazione più vicina. E' questa la perplessità maggiore dei partiti italiani, anche al governo, che si sono mostrati contrari all'intervento militare. Questo argomento è anche fonte di divisione tra i paesi comunitari, che per ora non intendono farsi carico dei migranti che arrivano in Italia, perchè ne ricevono un quantitativo maggiore da altre strade. E' chiaro che in caso di innalzamento del numero degli arrivi l'Europa si troverebbe, per forza di cose a dovere ridiscutere la distribuzione dei profughi. Resta il caso di un Gheddafi che riesce a scamparla e perde però, la Cirenaica, mantenendo la Tripolitania. Dal punto di vista delle correnti migratorie questa sembrerebbe la soluzione migliore, ma ci sarebbe il problema del controllo del rais, seppure con uno stato dimezzato. A quel punto, pare ragionevole pensare alla creazione di due stati, peraltro ciascuno caratterizzato da maggiore omogeneità tribale (l'unica struttura sociale presente in Libia), con l'obiettivo di fiaccare, tramite sanzioni ed isolamento, quello di Gheddafi, per arrivare gradualmente ad una sua messa in fuori gioco.
Mediterraneo ed Africa: obiettivi USA
Dietro la cortina fumogena alzata dalle bombe su Tripoli, occorre fare alcune considerazioni sulla decisione USA. Quello a cui stiamo assistendo è anche parte di una lotta tra le due superpotenze esistenti, per spartirsi le zone di influenza, ed in particolare l'Africa: USA, appunto e Cina. Siamo in una fase di trasformazione degli assetti geopolitici mondiali, dove il fattore energetico costituisce un fattore determinante. La Cina ha proceduto in questi anni investendo in infrastrutture e dando lavoro, nei paesi africani, sopratutto nella fascia equatoriale, in cambio delle risorse energetiche, è stata una sorta di invasione pacifica, che ha provocato una vera e propria zona di influenza cinese. Gli USA, hanno visto nella sponda sud del Mediterraneo un doppio obiettivo: non solo cercare di fare ricadere sotto la propria influenza i paesi arabi, ma anche prendere la supremazia del Mare Nostrum, giudicato obiettivo strategico per la politica americana. Se gli USA riusciranno a portare sotto la loro ala i paesi arabi mediterranei, conseguiranno un doppio risultato: controllo politico ed energetico di paesi potenzialmente in fase di crescita esponenziale, grazie alle loro ricchezze interne e che con la caduta delle dittature ed i conseguenti processi democratici, potranno fornire mercati praticamente vergini. Ma è l'aspetto politico il più importante: la fascia araba della sponda sud è determinante per gli equlibri cari agli USA, in chiave di protezione di Israele e come contrapposizione all'espansionismo che l'Iran cerca di portare avanti con i paesi di religione musulmana. Forse non era intenzione di Obama spingere sull'acceleratore militare, come è accaduto; ma la rapidità della Francia, rischiava di retrocedere gli USA ad una posizione arretrata nell'importanza politica nella regione. Si è così dato luogo ad un derby tra alleati, dove la posta in palio è l'influenza nel Mediterraneo, difficile cha la Francia la spunti.
domenica 20 marzo 2011
Le implicazioni dell'intervento
Dopo tanto temporeggiare, ora la tendenza sembra invertita, si assiste ad una rincorsa per non lasciare alla Francia l'esclusiva iniziativa militare in Libia. Sarkozy ha forzato la mano, dopo il mancato rispetto di Gheddafi della risoluzione ONU, in concomitanza con le elezioni amministrative francesi, andando anche più in la, colpendo i blindati libici, non soggetti alla zona di non volo. Qui è scattata subito la perplessità di vari soggetti internazionali, che avevano dato il loro benestare alla sola imposizione della zona di non volo, l'iniziativa francese è andata sicuramente oltre: il bombardare mezzi terrestri non era contemplato, questo al di fuori di ogni giudizio di merito. Cina e Russia si sentono raggirate, la loro astensione sulla risoluzione ONU ha permesso, di fatto, l'intervento in Libia, cui erano contrarie, ma non potevano, per ragioni umanitarie, quindi di facciata, votare palesemente contro; ora hanno le carte in mano per ribaltare la risoluzione. Lega Araba e Unione Africana, da favorevoli passano a criticare l'intervento: è un passo pericoloso per l'occidente, senza il sostegno di questi due soggetti si rischia una escalation diplomatica contro la legittimità dell'azione. Quello a cui si rischia di andare incontro, se non si risolve la guerra in tempi brevi, e ciò pare molto difficile, è di trovarsi contro i paesi arabi, o meglio, anche se favorevoli all'intervento i loro governi, di metterli in difficoltà con le loro opinioni pubbliche interne, in un momento di difficile gestione della loro stabilità perchè oggetto di rivolte. Ma nemmeno queste riflessioni bloccano le nuove adesioni, paesi incerti, dal punto di vista diplomatico, diventano interventisti di fronte alla prospettiva di restare indietro. Alla Francia, rapidamente si sono aggiunte: gli USA, la Gran Bretagna, l'Italia, la Danimarca, la Norvegia, il Canada ed il Qatar, che permette all'armata Brancaleone di potere dire che anche gli arabi sono della partita. Il fatto singolare è che ogni paese agisce, per ora di suo conto, non vi è, cioè, formalmente un comando unico, nemmeno, al momento, della NATO. Dal punto di vista del diritto internazionale è come se gli stati succitati, avessero dichiarato guerra alla Libia leale a Gheddafi; questo perchè si è andati oltre i paletti della risoluzione ONU. Certamente si può obiettare, che la situazione stava precipitando, ed era necessaria una rapida azione. Ma il tempo perso prima? Perchè non coordinarsi prima, al limite anche senza risoluzione ONU, senza dare l'impressione di schierare una forza abborracciata e sopratutto interessata? I dubbi sulle reali intenzioni non possono non venire, si è stati fermi in attesa degli eventi e, visto che la situazione non si risolveva (in una direzione o nell'altra), si è intervenuti per le mire dell'energia, per ribadire una leadership regionale appannata, per riprendere delle posizioni perse sul panorama internzazionale. In in quadro così frammentato, non sarà facile portare avanti il conflitto ed addirittura, potrà essere impossibile gestire il dopo.
sabato 19 marzo 2011
La pericolosa evoluzione libica
Nonostante l'espediente del cessate il fuoco, annunciato per l'ennesimo tentativo di guadagnare tempo, le truppe di Gheddafi sono alle porte di Bengasi ed hanno iniziato ad attaccare i sobborghi più estremi. Con questo estremo tentativo Tripoli cerca di arrivare al più presto alla riconquista del paese, per presentare all'opinione pubblica il fatto compiuto e quindi trattare da posizioni di forza con il panorama internazionale. La tattica di Gheddafi è disperata e punta sui problemi organizzativi e burocratici conseguenti alla risoluzione dell'ONU. Ma se i sistemi di rilevamento accerteranno gli attacchi a Bengasi, la risposta dei firmatari della risoluzione, con la Francia in testa, non tarderà ad arrivare. Si entrerà così nel tunnel del conflitto. Pronosticare una fine è praticamente impossibile, giacchè l'utilizzo dell'arma aerea, come stabilito dalla risoluzione, pur essendo devastante, non permette il controllo completo del territorio. Se gli aerei ONU, con queste regole di ingaggio, possono scongiurare la vittoria completa di Gheddafi, non possono impedire lo status quo del momento, con una Libia divisa in due. Una cosa è pprevedere un utilizzo difensivo tramite la zona di non volo, un'altra è pensare il mezzo aereo, per ora unico strumento previsto dall'ONU, come mezzo di attacco alle forze del Rais. Se questa ipotesi dovesse concretizzarsi si andrebbe a configurare uno stato di guerra permanente, con i ribelli a presidiare Bengasi e la Libia orientale e Gheddafi attestato nella Tripolitania. In mezzo l'ONU a dovere fare rispettare perlomeno la non aggressione. Sarebbe uno stato di perenne tensione, senza soluzione di continuità, una situazione di stallo dovuta principalmente al cincischiare delle Nazioni Unite e delle grandi potenze in generale. Non è nemmeno credibile che le sanzioni fiaccheranno Gheddafi, parte consistente delle risorse energetiche sono ancora a sua disposizione e ci sarà senz'altro la fila per acquistarle. Meno credibile l'opzione terroristica, che darebbe all'occidente il pretesto di attaccare Tripoli, come già successo. Tuttavia le minacce del rais, ancorchè, portate a termine, potrebbero paralizzare il traffico aereo e navale del mediterraneo meridionale, creando una situazione molto calda nella zona. Una situazione talmente compromessa difficilmente risolvibile con la sola diplomazia.
Le ragioni elettorali di Sarkozy
L'attivismo francese nei paesi della rivolta araba, nella sponda del Mediterraneo del Sud si spiega anche con esigenze di politica interna. La luce dell'inquilino dell'eliseo ultimamente si è un poco appannata e non basta Carla Bruni per risollevarne l'appeal. Sarkozy intende diventare la stella polare dei paesi nordafricani fiutando il vento di libertà ed anticipando gli eventi. La mossa di riconoscere i ribelli libici come governo legittimo in chiave anti Gheddafi, ne fa diventare, di fatto, un paladino dei popoli arabi, che sono diventati parte considerevole dell'elettorato francese. Un'altro obiettivo è quello di stringere accordi economici con i vicini della sponda sud, è stato pronosticato più volte che un successo in Libia consentirà di sostituire l'ENI con la Total, questa previsione è ragionevole, in caso di vittoria dei ribelli e non è una meta da poco in tempi di crisi energetica. Gettando sul banco elettorale la determinazione a percorrere la via della risoluzione ONU ed anche un probabile impegno militare, Sarkozy potrebbe deviare, nelle presidenziali del 2012, l'attenzione dai problemi interni, se non del tutto, almeno in parte.
venerdì 18 marzo 2011
Il nuovo corso della politica estera USA
Esiste una notevole differenza nell'esportazione della democrazia tra le ultime due amministrazioni americane. Dall'intervento diretto armato ad una politica più sottotraccia e maggiormente affidata alla diplomazia. Anche nelle situazioni ereditate, come l'Afghanistan, Obama, ha introdotto nuove metodologie da affiancare allo strumento militare. Nelle rivolte del sud del Mediterraneo, agli USA è stato rinfacciato di avere avuto una visione miope, perchè non ha saputo prevedere l'evoluzione della situazione. In realtà il fattore temporale delle rivolte, con i loro scoppi simultanei è risultato da subito sospetto. Difficile non vedere una o più mani dietro il sipario, d'altronde paiono rivolte, che nelle loro implicazioni sembrano annoverare anche l'obiettivo di evitare una deriva integralista. Rispetto ad altro tempi storici, ad esempio il bombardamento di Tripoli, gli USA restano in retroguardia, non appaiono mai in prima fila, per non colpire la suscettibilità araba e per perdere quella aura negativa, da paese imperialista, secondo una vecchia definizione, con la quale gli USA sono stati identificati. Uno degli obiettivi di Obama, nella politica internazionale, pare proprio quello di cambiare l'immagine statunitense cristallizzata in una connotazione negativa. Anche nei rapporti con gli alleati vi è minore dirigismo, si ricerca un maggiore coinvolgimento ed una maggiore collaborazione. Tutto questo non vuole dire la rinuncia ad esercitare i diritti di una superpotenza, si tratta soltanto di un diverso modo di esercitarli, il comportamento sottotraccia non è meno efficace, avere scelto di utilizzare quantitativamente meno l'uso della forza, privilegiando la diplomazia e lo studio degli altri paesi porterà presto risultati evidenti.
Possibili sviluppi dal contrasto sciti-sunniti
Le rivolte arabe degli stati del golfo nascondo un'insida che potrebbe esplodere a breve. Il dualismo tra sunniti, di solito al potere anche se, in certi casi minoranza, e sciti, caratterizza le rivolte nel golfo arabo per l'elemento religioso e di gruppo di appartenenza, più che per una reale richiesta di democrazia, come nella sponda sud del Mediterraneo. Certo anche l'elemento della richiesta dei diritti non è secondario, ma anzichè essere una richiesta generale è una richiesta tesa a pareggiare le opportunità ed i diritti dei gruppi sociali che ne hanno meno con quelli al potere. Quello che si teme è che dietro le proteste scite, peraltro legittime, si muova in maniera velata l'Iran. Teheran potrebbe optare per una politica di tutela delle minoranze scite per contrastare all'Arabia Saudita la leadership regionale ed assumere un ruolo di protagonista, addirittura capofila, dei paesi contro l'occidente. L'Arabia Saudita è il principale interlocutore degli USA nell'area, e risulta compromesso quindi con l'occidente agli occhi di tutti gli sciti. Riyad è consapevole di questo, infatti ha cercato di usare una doppia tattica: concessioni e repressione nei confronti degli sciti per impedire il dilagare della rivolta. Non solo, l'Arabia ha fornito 1.000 soldati al Bahrein per contenere la protesta scita. Tutti questi elementi ci dicono come l'Arabia tema l'esplosione del contrasto sciti-sunniti, che minerebbe le fondamenta stesse degli stati. La politica di Teheran ultimamente si è contraddistinta per atti clamorosi ed al limite della provocazione, come il viaggio di Ahmadinejad fino alla frontiera israeliana ed il viaggio nel canale di Suez di due navi militari dirette in Siria. Puntare nel mirino l'Arabia Saudita consentirebbe al governo iraniano di compattare, almeno i settori più moderati della società contro un nemico tradizionale. Di questo contrasto potrebbe avvalersi Israele, che se compiesse i passi giusti per il riconoscimento e la costituzione dello stato palestinese, potrebbe guadagnare nell'Arabia Saudita un alleato importante nella regione. Con uno stato Palestinese diventato nazione a tutti gli effetti, i paesi arabi moderati potrebbero trovare un equlibrio verso Tel Aviv ed addirittura coalizzarsi contro l'Iran, sempre presente come minaccia nella regione. Gli sviluppi diplomatici sono aperti ad ogni evenienza mentre la storia, in questo momento, corre più veloce.
La risoluzione ONU dovrebbe ribaltare le sorti della Libia
Con l’approvazione della risoluzione ONU, la partita libica si riapre: ora Gheddafi non sfugge dal centro della scena, rubatogli dal sisma nipponico. L’attenzione ai disastri nucleari aveva dato al rais libico il tempo di riorganizzarsi e fare girare a suo favore le sorti della guerra. L’ONU ribalta gli esiti di un conflitto che parevaormai scontato. Mentre la macchina organizzativa occidentale si prepara, ancora troppo lentamente, adesso l’isolamento di Tripoli è cosa fatta. Il voto delle Nazioni Unite è stato approvato con 10 si e 5 astenuti, tra i quali spiccano le astensioni di Cina e Russia: è un fatto epocale che i due paesi non abbiano votato contro, significa che si è raggiunto un accordo diplomatico totale sull’intervento contro Gheddafi; inoltre Pechino e Mosca hanno sostanzialmente contravvenuto alla loro regola principe in politica estera, che è quella della non ingerenza nei fatti interni degli altri paesi. Strana invece l’astensione del Brasile, che nonostante il colore del governo in carica non ha mai condannato espressamente Tripoli. Ora si tratterà di vedere quando e come inizieranno le azioni militari, che hanno, fatto non secondario, il benestare della Lega Araba e la partecipazione materiale probabilmente di Qatar ed EAU. Gli USA, optano per avere una posizione defilata, per non restare coinvolti nel terzo conflitto con paesi islamici, tuttavia, data la loro potenza militare è impossibile non prevedere un loro coinvolgimento. L’Italia, seppure controvoglia, si è detta disponibile a dare l’uso delle proprie basi militari. La risposta di Gheddafi è stata la prevedibile minaccia all’uso del terrorismo mediante l’abbattimento degli aerei civili ed il bombardamento delle navi mercantili. Frasi che gli scavano la fossa politica, diplomatica e forse di qualcos’altro.
giovedì 17 marzo 2011
Forse l'ONU si muove
L'ONU cerca di salvare la faccia ed evitare il bagno di sangue, che porrebbe domande concrete sulla utilità stessa della istituzione. La risoluzione proposta da Francia, Gran Bretagna e Libano prevede la realizzazione della zona di non volo in modo da pareggiare almeno le forze in campo in vista della battaglia di Bengasi, che dovrebbe essere quella decisiva. Le informazioni sono contrastanti, le dichiarazioni roboanti di Gheddafi danno per imminente la vittoria, mentre i ribelli, in parte smentiscono l'avanzata delle truppe del rais. Il precipitare degli eventi potrebbe portare all'azione militare già stasera, che potrebbe essere compiuta dalle forze armate francesi, americane e di qualche non meglio precisato paese arabo. In caso di azione imminente non sarà certo la NATO ad essere impiegata, perchè le procedure previste in caso di azione non sono state espletate; quindi l'azione, se ci sarà, dovrà essere compiuta sotto le insegne dei paesi di appartenenza. E' l'ennesimo pasticcio diplomatico, che potrebbe causare almeno qualche incomprensione con qualche paese arabo. L'impiego di forze di terra per il momento pare escluso, anche se su richiesta degli insorti, riconosciuti da Parigi, come governo legittimo della Libia, la Francia, che pare il paese più determinato, potrebbe affiancare gli insorti anche con truppe terrestri. In ogni caso la Francia spinge sull'acceleratore essendosi ormai compromessa agli occhi del rais per averlo disconosciuto come autorità della Libia. In caso di permanenza al potere di Gheddafi, Parigi potrebbe essere un obiettivo di ritorsione da parte di un uomo pronto a ricalarsi nei vecchi panni di quando faceva abbattere aerei civili.
mercoledì 16 marzo 2011
Gheddafi avanza e minaccia Sarkozy
Sarkozy, secondo il figlio di Gheddafi, avrebbe avuto la campagna elettorale finanziata dal rais libico; è questa la rivelazione promessa nei giorni scorsi dall'entourage del colonnello, imbestialito per il tradimento francese. Il proiettile mediatico pare indirizzato al paese capofila degli interventisti e comunque l'unico ad avere riconosciuto come rappresentanti della Libia gli insorti di Bengasi. Se si confronta il trattamento riservato all'Italia, rincrescimento e stupore condito da generiche minacce per il futuro, il livello riservato ai francesi è senz'altro di maggiore intensità e rivela un certo timore di Parigi. La Francia non ha emesso alcun commento, probabilmente preferendo non scendere al livello di Gheddafi junior, ma ha, invece, spostato il discorso su di un possibile intervento in aiuto dei ribelli, anche appoggiato da alcuni, non precisati paesi arabi. Quello che difetta è il fattore tempo, Gheddafi sta cercando di operare con una tattica a tenaglia, mentre l'aviazione bombarda Bengasi, le truppe di Tripoli, che davanti hanno 200 chilometri di desrto denza ostacoli, potrebbero dividersi per puntare una parte su Bengasi, mentre un'altra parte potrebbe puntare su Tobruk per poi prendere alle spalle gli insorti. La possibilità più concreta è un bagno di sangue, come peraltro, più volte minacciato dal colonnello. Gli insorti hanno accusato apertamente di codardia l'occidente ed in particolare gli USA, per il mancato intervento e per la pavidità della politica e della inazione militare, che ben si riassume nelle parole del ministro italiano Frattini, che ritiene che saranno l'isolamento e le sanzioni a danneggiare Tripoli. Ciò pare francamente difficile, dato che diversi paesi si sono già fatti avanti per stipulare l'acquisto delle fonti energetiche libiche e quindi di mantenere le normali relazioni dplomatiche.
Nel mondo manca un soggetto capace di gestire le crisi internazionali
In Egitto l'incontro tra le diplomazie mondiali per cercare una soluzione alle crisi arabe. Il continuo rimpallo tra UE, USA, Lega Araba, Unione Africana ed ONU per l'istituzione della zona di non volo in Libia, determina un continuo rinvio, che non rende effettiva alcuna soluzione. Sia la UE che gli USA, tramite Hillary Clinton, continuano a parlare di generici aiuti per i paesi che stanno per affrontare il percorso democratico, soluzioni certamente aprrezzabili e che gettano le basi per le future collaborazioni. Ma agiscono su terreni non certo accidentati, nelle questioni più spinose le diplomazie che dovrebbero farsi carico dei problemi del mondo restano pericolosamente passive e, di fatto, creano un vuoto di potere molto pericoloso. Se sta tramontando la figura di unico gendarme del mondo, gli USA, sia per problemi economici che, sopratutto, per i nuovi assetti geopolitici, non sembra nascere quella stella polare, che doveva fare della diplomazia il punto forte su dirimere le questioni del mondo. Per lungo tempo si è creduto che questo nuovo faro fosse la UE, forte del capitale storico e culturale, che potesse essere il soggetto protagonista di una nuova fase dei rapporti diplomatici. Ma, oltre al fatto di non disporre, di un arsenale militare adeguato, le forze armate europee non sono mai state create, quello che è mancato è stata una visone d'insieme condivisa ed unitaria; con il risultato di praticare una tattica pressapochista ed abborracciata, caratterizzata da sbandamenti di direzione, che ne ha intaccato il prestigio. Con l'ONU lacerato tra i suoi componenti fissi, la mancanza di un soggetto forte che possa prendere sulle sue spalle le problematiche mondiali, le crisi che si stanno sempre più sviluppando rischiano di prendere direzioni pericolose per il mondo intero. Non si può sperare neanche su Russia e Cina, ancorate alla politica del non intervento, più per ragioni di propria convenienza che di convincimento strategico. Senza poter contare su di un soggetto regolatore, rischiano di prendere più potenza paesi che hanno la loro influenza su scala regionale o che sgomitano per imporre la propria visione e che spesso rientrano nel novero delle nazioni non sempre affidabili (un esempio può essere l'Iran). Con il regolamento vigente la situazione dell'ONU è difficilmente sbloccabile, una strada può essere una sorta di consorzio tra organismi sovranazionali ( ad esempio UE e Lega Araba), con tutti i problemi che ne conseguono; infatti si tratterebbe di capire se creare organismi permanenti o via via in caso di intervento di crisi specifiche. Queste ipotetiche associazioni presentano però limiti pratici, perchè senza protocolli di azione e ed evidenti limiti decisionali perchè caratterizzati dalla mancanza di velocità di decisone. La questione è di difficile soluzione, ma se pensata per tempo, cioè fin da subito, può diventare una soluzione praticabile per effettuare almeno degli interventi tampone.
Il problema energetico
Aldilà degli oscillamenti della pubblica opinione, che passa dal favore del nucleare, per la crisi petrolifera, alla contrarietà dell'energia atomica, per i disastri giapponesi, il problema energetico è quello su cui verte il futuro del mondo. La necessità di smarcarsi dalla dipendenza dell'oro nero è ormai acclarata, sia per motivi economici che ambientali, tuttavia pare impossibile in tempi brevi smarcarsi completamente dall'utilizzo del greggio; la vera soluzione è ridurlo. Il dibattito sull'efficacia delle energie alternative tiene banco spesso senza trovare sbocchi per svariate ragioni, tra cui quella principale, pare essere la mancanza di volontà per tutelare altri interessi, che influenza anche i mancati investimenti per la ricerca. In Cina è stato costruito un parco eolico capace di fornire elettricità a cento milioni di persone, quindi ben oltre il fabbisogno civile italiano, in Germania l'energia solare è più sviluppata che nel Belpaese ed altri esempi si possono facilmente trovare. E' chiaro che non si può coprire l'intera percentuale di energia necessaria con le energie alternative ma se si riesce a coprirne una parte tale da ridurre una quota rilevante la strada è senz'altro da battere. Un'altra anomalia è la mancanza di sistema, presente nella UE. Ogni stato procede per suo conto ed in ordine sparso nella politica energetica, anche in questo caso la UE non è abbastanza presente, più che altro per volontà dei singoli stati, che anzichè allearsi, sono di fatto avversari nella corsa all'accaparramento delle fonti energetiche. Non si è mai pensato alla UE come unico acquirente delle risorse, per razionalizzare gli acquisti ed i flussi di consumo, con un controllo più pregnate degli sprechi. L'Unione Europea è uno strumento esistente che non viene usato. Infine i dubbi sul nucleare, la questione è spinosa, sia dal punto di vista economico, che da quello della sicurezza, se in uno stato come il Giappone, dove l'efficienza tecnologica ed i parametri di sicurezza sono elevati, si sono verificate fughe radioattive, la perplessità è giustificata. Per quanto riguarda l'Italia, nonostante la convinzione del governo, sarà difficile vedere delle centrali nucleari per l'opposizione delle regioni; in Europa altri stati stanno ritornando sulle loro decisioni rivedendo gli standard, tutto così ritorna in discussione.
martedì 15 marzo 2011
Per la Palestina il momento è d'oro
La Palestina da segni di cercare una nuova strategia per trovare una intesa comune tra le anime dei territori, per arrivare all'obiettivo tanto cercato. Per Israele la divisione tra Hamas e l'Autorità Paletinese era un metodo di sicuro controllo; ma ora da Hamas arriva la richiesta di un incontro immediato nella striscia di Gaza per concordare una strategia comune e superare le divisioni, che hanno separato le due anime della Palestina. Israele guarda con apprensione a questa unione, perchè occorrerà vedere in che lato della barricata andrà a svilupparsi: se verso le posizioni più moderate dell'Autorità Palestinese o se verso l'estremismo di Hamas. La decisione di richiedere l'unità del movimento deve essere maturata in funzione dell'impulso decisivo che hanno avuto le rivolte di piazza, che spesso hanno riunito sotto di un unico ombrello tendenze diverse. Fino ad ora in Palestina e Cisgiordania, non si era arrivati a superare storiche divisioni e su questo contava anche Israele, impegnata a monitorare l'evoluzione della situazione politica dei paesi confinanti, ma abbastanza tranquilla sulla situazione dei territori. Se, invece, questa tendenza vedrà una realizzazione per Israele si concretizzerà il dover fronteggiare un blocco unico. Difficile prevedere ora la strategia che adotterà questo blocco, se riuscirà ad arrivare ad una unione, la strategia della violenza non pare pagare, più facile cercare un appoggio esterno alla propria battaglia per forzare i tempi della trattativa per lo stato palestinese, anche in ragione della necessità israeliana di ingraziarsi i nuovi governi derivanti dalle rivolte, ed anche per alleggerire la posizione USA, che necessità di concentrare i suoi sforzi in altre zone calde. Dal punto di vista diplomatico, mai altro momento, storicamente, pare più propizio per la nascita dello stato palestinese. Se Israele buca questo appuntamento potrebbe avere ritorni talmente negativi, da pentirsene.
Ancora sulle conseguenze possibili di una vittoria di Gheddafi
Dopo il figlio anche il padre minaccia l'occidente. Gheddafi intervistato dal quotidiano italiano "Il Giornale" minaccia espressamente l'alleanza con Al Qaeda ed in ogni caso la rottura delle relazioni commerciali con tutto l'Ovest ed in primis con l'Italia. Anche il terremoto giapponese contribuisce a distogliere l'attenzione dalla guerra libica, e tutto il tempo che passa senza un aiuto ai ribelli gioca a favore del regime di Tripoli. Sul campo le forze militari leali al rais, guadagnano terreno, aiutati anche dall'azione dell'aviazione, che bombardando dall'alto i ribelli, risulta decisiva nell'avanzata delle forze di terra. Ill dittatore ammette che potrebbero esserci dei contatti con il ministero degli esteri italiano, ma il livore per essere stato abbandonato da governi che riteneva amici, fa temere il peggio per il futuro. Gli attentati libici del passato potrebbero ripetersi, con una situazione peggiore se Gheddafi decidesse di offrire il territorio libico, come base di Al Qaeda. Frattanto non si sente più Obama e Sarkozy pare essersi defilato, ciò lascia l'Italia in posizione pericolosa di fronte alla Libia, intanto l'invasione degli immigrati continua, ed è solo un piccolo assaggio di quello che potrà succedere se Gheddafi avrà ripreso il pieno controllo dello stato. Una rottura con il regime di Tripoli, pare inevitabile se Gheddafi risulterà vincitore, l'Italia rischia di essere solo la prima vittima della vendetta del rais, che a seguire si abbatterà sui paesi del Mediterraneo, fino a coinvolgere l'intera UE. Di fronte a questa concreta minaccia, colpisce ancora una volta l'immobilismo internazionale, che non si decide ad intraprendere un'azione per la salvaguardia del suo futuro; anche alla luce di un'altro aspetto preoccupante, quale è la possibile alleanza Libia-Iran, si rischia di trovare le navi militari di Teheran sulla costa sud del Mediterraneo. Gli equilibri mondiali rischiano di saltare.
lunedì 14 marzo 2011
Mille soldati sauditi nel Bahrein
Il Bahrein ha richiesto aiuto al Consiglio di Cooperazione del Golfo, per contrastare l'ondata di protesta che si è sviluppata nel paese. Circa 1.000 soldati provenienti dall'Arabia Saudita hanno varcato le frontiere del paese per sostenere il governo nel controllo del paese. Il partito di opposizione scita, Wefan, una delle anime della protesta, ha avvertito, che qualunque ingerenza esterna o un intervento militare proveniente dai paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, sarà interpretato come una invasione straniera e considerato come una dichiarazione di guerra. La richiesta di aiuto proveniente dalle autorità di Manama, è giunta per proteggere gli edifici governative e le installazioni strategiche del paese, bersaglio più volte della rivolta. Nonostante le dichiarazioni del principe ereditario, disposto alla trattativa per allargare i poteri del parlamento e rformare i distretti elettorali, la mossa del contingente saudita entrato nel Bahrein rischia di innescare una escalation della tensione con esiti incerti. Apprensione anche per gli USA, che hanno nel paese la loro base operativa nel golfo.
Giappone: il sisma è anche economico
La terza economia del mondo è in ginocchio; gli effetti del sisma e del conseguente tsunami mettono in grave pericolo la produttività e la stabilità non solo dell'economica nipponica, ma dell'intero sistema mondiale. Diverse fabbriche, tra cui i marchi più noti dell'automobile e dell'elettronica, pur cercando faticosamente di ripartire, sono di fatto fermi. Oltre alle devastazioni materiali esiste il concreto problema dell'approvigionamento energetico, dato che ben undici reattori nucleari, dei cinquanta installati, sono stati spenti. In queste prime ore la razionalizzazione energetica programmata dai veritici di Tokyo, dovrebbe riuscire a contenere la domanda di energia, il problema è l'immediato futuro, dato che, ragionevolmente tutta la rete nucleare giapponese dovrà essere sottoposta ad attenta revisione, la mancanza energetica nipponica si riverberà sulla domanda complessiva del globo, andandosi a sommare alla crisi petrolifera. Il quadro che potrebbe andare a comporsi vedrebbe schizzare i prezzi sia del combustibile che della stessa energia elettrica mettendo a dura prova l'economia mondiale, già provata da due anni di crisi, vanificando la piccola ripresa che si era concretizzata. Sul fronte interno giapponese la banca centrale ha da subito immesso nel sistema finanziario 131,6 miliardi di euro, versati nelle banche locali per permettere la ripartenza della vita economica il più rapidamente possibile. Dal punto di vista della finanza la borsa di Tokyo, perde un 6%, un passivo totale tutto sommato contenuto, anche se i valori negativi più alti sono dei produttori automobilistici, tutti colpiti, sia dalla chiusura di diversi stabilimenti, sia dalla incombente minaccia dell'aumento energetico. Più difficile immaginare il destino dello stato giapponese, che annovera il più alto debito pubblico del mondo, finora la rete produttiva ha fatto da protezione al deficit dello stato, ma una possibile flessione della produttività per cause di forza maggiore potrebbe rendere difficoltoso il problema del debito pubblico, costringendo il governo a tagli non sostenibili in un momento del genere.
sabato 12 marzo 2011
Libia le minacce ed un futuro possibile, ma non augurabile
Le minacce del figlio del leader libico all'Italia, segnalano lo stato di difficoltà per Roma, ma in generale per quasi tutto l'occidente, di smarcarsi in modo netto e deciso da Gheddafi. La dipendenza energetica è solo uno dei fattori che determinano uesto stato di cose; anche se la prospettiva di perdere la partnership con la Libia creerebbe più di un problema alla penisola. La questione energetica è certamente un tasto sul quale la sensibilità italiana mostra più di un nervo scoperto e la minaccia di girare la vendita di tutto il petrolio ed il gas alla Cina porrebbe all'economia italiana, la necessità di riorganizzare tutto il sistema degli approvigionamenti. Del resto una delle mire della Francia, che ha dato il più completo appoggio ai ribelli, è proprio quello di sostituire l'Italia come partner economico privilegiato. L'attendismo italiano e della UE, ha tutto sommato qualche giustificazione, anche se non si fa una bella figura, tuttavia la compromissione dei rapporti, anche con una politica ben poco decisonista, è ormai cosa fatta. Conviene ora prepararsi ad ogni possibile evenienza e cercare una alternativa all'inazione, a questo modo si hanno come nemici entrambi gli schieramenti. Anche perchè il problema energetico è solo un aspetto del problema; la gestione dei profughi, che saranno sempre più usati come arma di ricatto e la questione del terrorismo sono solo gli le emergenze più rilevanti con cui avere a che fare. Il problema più grosso si avrebbe con una vittoria di Gheddafi, anche parziale. Con il dittatore ancora al comando, anche di una Libia dimezzata, cosa diventerebbero i rapporti con la UE, ma in primis con l'Italia? Roma avrebbe una nazione, ancora forte, come nemica davanti alla porta di casa, una nazione comandata da un dittatore sicuramente pronto a fare pagare lo sgarbo, anche con azioni eclatanti. Si potrebbe aprire un fronte militare nel Mediterraneo del sud tale da tenere in allarme le forze armate italiane senza soluzione di continuità. Gheddafi ancora in piedi, in prospettiva futura, rappresenta un pericolo ormai per tutti gli stati, perchè non avrebbe più alcun controllo ne remora ad usare metodi che ha già usato in passato, ricordiamoci dell'attentato di Lockerbie e del sostegno dato ai gruppi terroristici europei con fondi, armi ed addestramento. Ci sono nazioni, e l'Italia è tra queste, che potrebbero essere colpite da attentati degni della strategia della tensione. Dal punto di vista diplomatico Gheddafi potrebbe allearsi con regimi come quello iraniano, creando un asse folle con Teheran. Il mondo non può permettersi una vittoria di Gheddafi, in questo la Francia ha ragione.
venerdì 11 marzo 2011
Il disastro giapponese si abbatte su di un paese già in difficoltà
Il terremoto che si è abbattuto sul Giappone avrà effetti nefasti anche sull'economia del paese del sol levante. Il paese si trova alle prese con difficoltà congiunturali, dovute alla fine del periodo d'oro degli anni '80 e '90 del secolo scorso, dove le esportazioni di materiale tecnologico trainavano tutta l'economia della nazione. Il Giappone è gravato da un enorme debito pubblico e da fenomeni di deflazione che ne minano la ripresa. La strategia dell'apprezzamento della moneta nazionale ha avuto il solito doppio effetto, proprio di manovre del genere: ad una maggiore capacità di acquisto di materie prime ed energetiche, è corrisposto una difficoltà delle esportazioni,a causa dell'innalzamento dei prezzi delle merci e dei beni giapponesi; tuttavia un blocco della borsa nipponica, per la capacità finanziaria di liquido trattato sarebbe una iattura per la finanza mondiale. Se la situazione economica anche quella politica non versa in buone condizioni, una serie di scandali legati a contributi ricevuti da esponenti di governo da parte di imprese sudecoreane, ha determinato una serie di crisi politiche. Gli scandali hanno destato particolare attenzione, perchè i contributi di aziende straniere sono vietati ai politici giapponesi, ed hanno provocato la richiesta delle opposizioni di effettuare elezioni anticipate. Anche sul versante della politica estera il Giappone vive un senso di minaccia per la presenza della bomba atomica nordcoreana a pochi chilometri dalle sue coste e patisce la sempre più crescente potenza della Cina. In questo quadro, non proprio facile, il Giappone dovrà districarsi dal disastro in cui è occorso. Il pericolo di una nazione di tale importanza in ginocchio dal punto di vista umano ed economico è un problema anche per gli USA, che ne fanno l'alleato principe in una delle regioni più calde della terra, appunto per la presenza della Corea del Nord e della Cina. Il disastro giapponese colpisce anche Washington, sempre più trascinata nelle crisi mondiali; quello di Tokio sarà un fronte, sopratutto economico, dal quale non sarà possibile sfilarsi.
Aumenta la richiesta dei diritti in Arabia Saudita
Continuano le proteste in Arabia Saudita, nella giornata odierna è andata in scena "la giornata della collera", organizzata da attivisti per i diritti umani e moderati sciti e sunniti. Inizialmente le proteste si caratterizzavano per l'egemonia scita, minoranza nel paese, la presenza, invece di sunniti, rappresenta una novità nel panorama delle proteste. E' un segnale che le manifestazioni stanno perdendo la connotazione religiosa per virare verso l'aspetto dei diritti civili. La richiesta di maggiori garanzie per i diritti si allarga ad ogni ceto sociale, negli ultimi giorni diversi accademici hanno messo la loro firma su petizioni che richiedono riforme. I primi effetti sono state le dichiarazioni del Ministro degli esteri saudita che ha affermato che ogni cittadino ha diritto di esprimere la propria opinione a patto di non minacciare la sicurezza dello stato; inoltre il governo ha incaricato un centro studi per aprire un canale di dialogo con tutti i sudditi della nazione. Per l'Arabia Saudita la situazione rappresenta una novità assoluta, nel regime monolitico si stanno aprendo crepe che richiedono un nuovo modo di affrontare il rapporto stato-cittadini, il governo cerca di arginare la protesta con nuovi stanziamenti di fondi pubblici e ricerca del colloquio con le anime più moderate della protesta, cercando di evitare una deriva violenta o che metta in pericolo il potere costituito. Quello che sembra è che sia partito un processo irreversibile verso la concessione di diritti civili, che dovrà, giocoforza, riconsiderare l'impianto stesso dello stato arabo.
I dubbi sulla UE
Si sono verificati una serie di episodi che mettono in grande dubbio l'efficacia dell'Unione Europea, almeno dal punto di vista politico e più strettamente della politica internazionale, e che devono porre questioni cruciali perfino sulla sua ragione di essere. Fatta salva l'importanza culturale e ancor più economica dalla UE, che ha raggiunto risultati consistenti, come la moneta unica, la libera circolazione delle persone e delle merci, la redistribuzione del reddito europeo agli stati, mediante aiuti e finanziamenti atti a portare sviluppo, la situazione politica è di forte immobilismo. Si è preferito, forse in maniera troppo affrettata, adottare la tattica di includere più stati possibli, ed il processo continua, senza verificare le effettive intenzioni dei governi su temi politici comuni e sul reale senso di appartenenza all'Europa. I nuovi stati sono stati attratti dalla possibilità di entrare in un mercato comune praticabile e dalla possibilità di ricevere aiuti, senza condividere i sentimenti europeisti degli stati fondatori. Si è arrivati al paradosso di consentire l'entrata di stati governati da partiti realmente antieuropeisti. Spesso l'attività dei nuovi stati è stata sollevare eccezioni così da rallentare ilprocesso decisionale di Bruxelles. Non che le vecchie nazioni siano state da meno, ci sono casi nei quali i vecchi componenti della UE pare si siano adeguati all'ostruzionismo dei nuovi, senza coinvolgerli nell'effetivo processo europeista convinto. Anche il caso Inglese e di quei paesi che non sono entrati nell'area euro è simbolico, la moneta unica dovrebbe essere un requisito essenziale per essere dentro l'Unione. Ci si trova così in una condizione dove il reale processo di unificazione che deve portare agli Stati Uniti d'Europa è praticamente fermo per i mille granelli immessi negli ingranaggi; non si trova una linea comune su cui muoversi velocemente per dare finalmente il giusto impulso decisionale agliorganismi centrali. Il caso francese, nella politica internazionale, è emblematico. Di fronte ad un immobilismo ed alla indecisione di Bruxelles, su di un tema così importante, il governo francese ha deciso di muoversi per suo conto. E' un gesto senza precedenti, che in un momento molto grave, crea un precedente pericoloso. Le conseguenze di questo atto rischiano di minare per il futuro la politica estera comunitaria. Senza contromisure, di carattere legale, ma sopratutto condiviso dalla maggioranza, che diano maggiori capacità di azione agli organi centrali, si rischia di avere 27 politiche estere diverse, talora contrastanti se non opposte. A ben vedere questa anarchia comunitaria fa il paio con chi non vuole la moneta unica, è tutta una teoria che contrasta il fine della UE. Occorre ridiscutere tutto il processo unificatorio ponendo alla base requisiti minimi di entrata, che vertano sulla comune condivisione di strumenti ed obiettivi. Pur non essendo possibile riazzerare tutto il processo e ripartire da zero, una attenta revisione dovrebbe essere contemplata, altrimenti gli Stati Uniti d'Europa saranno soltanto una chimera.
La Francia punta sui ribelli ed agisce da sola
Lo stallo della situazione libica pare ormai un fatto acclarato, se non interverranno attori esterni, la guerra civile sarà ancora lunga e potrà trasformarsi in guerra di posizione. Pur avendo perso la parte orientale del paese, Gheddafi può contare su due divisione di terra molto fedeli al regime, inoltre dispone di una contraerea molto efficiente, in grado di contrastare un'eventuale decisione di instaurare la zona di non volo. L'impressione è che la truppa aerea fedele al rais sia stata usata per ora marginalmente, nonostante i bombardamenti sui ribelli ci siano stati, proprio con un intento strategico di non accelerare tra i paesi che seguono la situazione la decisione di dichiarare la zona di non volo. Piano piano, Gheddafi, riguadagnando terreno ha, sopratutto, guadagnato tempo prezioso, necessario ad organizzare anche una controffensiva diplomatica. In questo momento la fine del regime appare più lontana. Il risultato più favorevole al rais è stato quello di fare nascere contrasti in seno all'Unione Europea, mentre gli USA, continuano a stare alla finestra, messi all'angolo più che altro dalla loro stessa necessità di non entrare in un ulteriore conflitto. La situazione più grave si è creata all'interno della UE, con l'evidente strappo consumato dalla Francia e dal Regno Unito con la statica politica estera di Bruxelles. Sopratutto la Francia, con la decisione unilaterale e non discussa con gli organismi centrali UE, di riconoscere Bengasi come stato legittimo libico, decisione appoggiata in un secondo momento anche da Cameron, ha determinato una significativa, sul piano della politica estera, rottura. La strategia francese pare tesa a guadagnare una evidente autonomia per guadagnare quel prestigio internazionale, ultimamente appannato, può essere anche inquadrata come diretta a colmare il vuoto lasciato, intenzionalmente dagli USA nel Mediterraneo. La Francia andrebbe così ad assumere un ruolo di preminenza politica nel Mare Nostrum, diventando la nazione più accreditata per gli sviluppi futuri nell'intera area. Impossibile non vedere la mano americana dietro il tutto, gli USA hanno probabilmente scelto il loro cavallo di Troia, ritenendo la Francia il più affidabile e preparato degli alleati disponibili. Un altro indizio in questa direzione è la possibilità palesata da Sarkozy di andare da solo, se necessario, a bombardare le truppe del rais per creare la zona di non volo. Un segnale chiaro e forte delle intenzioni francesi, che guarda caso, collimano con quelle americane. Sullo sfondo una incredula UE, che ancora non sa in quale direzione andare.
giovedì 10 marzo 2011
Ancora attendismo di USA e UE sulla crisi libica
La Francia riconosce il Consoglio Nazionale di Transizione, l'organismo dei ribelli di Bengasi come legittimo governo libico, l'accelerata francese avviene dopo che la UE aveva rifiutato il riconoscimento con la motivazione che l'Europa riconosce gli stati e non i governi. Ancora attendismo, quindi in seno all'organizzazione sovranazionale europea, che intende proseguire con i piedi di piombo nella vertenza libica. Intanto la Germania blocca 200 conti riferiti alla Libia contenenti circa 70.000 milioni di euro, il blocco sarà attivo fino alla definizione della effettiva proprietà dei conti. Ancora una volta la grande assente è la politica estera comunitaria che non riesce a trovare un medesimo indirizzo, ancora troppo particolaristici gli interessi degli stati, che preferiscono procedere in solitaria, senza trovare una intesa sotto la bandiera della UE. L'inadeguatezza dell'Unione Europea si manifesta in tutta la sua inconsistenza sulla scena internazionale, una politica pavida che tentenna e non prende una posizione netta se non in situazioni di certezza estrema. Con questa premesse la mossa degli USA, che si appellano ad una richiesta del popolo libico, di non volere prendere il comando di un'eventuale spedizione militare, per lasciarla alla UE, assume la prospettiva di una tattica attendista. La valutazione americana verte sui dubbi del mondo musulmano, anche quello moderato, che considera un eventuale comando USA non bene accolta dal popolo arabo. Molto conta anche la paura americana di ritrovarsi invischiati in un terzo scenario di guerra, eventualità che l'opinione pubblica americana considererebbe in maniera molto negativa. Frattanto Gheddafi cerca di uscire dall'isolamento diplomatico inviando un emissario in Portogallo, uno a Malta ed uno a Bruxelles cercando presumibilmente di preparare una exit strategy per se e la sua famiglia.
Negli USA monta la paura dell'integralismo americano
Negli Stati Uniti cresce la paura degli estremisti musulmani americani. Nei giovani statunitensi credenti in Maometto paiono manifestarsi sempre più segnali di integralismo; la distanza tra la comunità musulmana ed il movimento del tea party, l'anima dell'america profonda, pare generare distorsioni pericolose. La visione estremista dei giovani musulmani fa sempre più presa in un ambiente che oltre a tendere ad isolarsi, viene isolato dagli altri settori della società, oltre che dallo stato. Il meltin pot culturale americano pare incrinarsi di fronte alla radicalizzazione delle posizioni culturali. In ogni ghetto le visioni estreme sono quelle che hanno più presa facilmente. La preoccupazione maggiore è che il terrorismo interno vada a pescare in quegli ambienti integralisti che stanno registrando una notevole crescita. Per gli Stati Uniti sarebbe uno shock essere colpiti da un americano non divenuto tale dopo la sua nascita ma nato proprio sul suolo USA. Questa paura comprende la consapevolezza della forza del messaggio integralista, avere, potenzialmente a che fare con un terrorisomo di matrice religiosa musulmana, interno sarebbe una cosa totalmente nuova e che troverebbe impreparati gli Stati Uniti. Tale timore ha generato una discussione parlamentare sollecitata dal Partito Repubblicano per cercare di comprendere e fermare tale tendenza. Anche la Casa Bianca, pur riconoscendo che la tolleranza religiosa debba essere salvaguardata, ha sottolineato che la proliferazione dell'integralismo religioso debba essere tenuta sotto controllo. Dal canto loro le organizzazioni religiose musulmane denunciano che il clima che si sta creando è minato da xenofobia latente. Per Obama la questione è assai spinosa perchè deve mantenere un atteggiamento equilibrato, per non permettere la degenerazione razzista dell'opinione pubblica, ma allo stesso tempo deve mantenere il controllo su di una situazione che rischia di esplodere, aprendo un pericoloso fronte interno.
Riflessioni sulle energie alternative
Lo shock petrolifero per le rivolte arabe pone le economie in affanno, proprio mentre si manifestavano i primi timidi segnali di ripresa. L'ennesimo intoppo ad una economia mondiale in difficoltà è dovuto al problema energetico come causa scatenante ma in realtà la colpa è da ascrivere alla mancata pianificazione e programmazione dell'impiego delle energie alternative. Il mondo procede in ordine sparso sul tema e tattiche improvvisate non suppliscono al problema. Basta un blocco della Libia, che produce il 2 % del petrolio mondiale, per innescare un rialzo dei prezzi generalizzato che mette in seria difficoltà tutto il processo produttivo. L'indipendenza energetica, per molti paesi, non è materialmente possibile, tuttavia, abbassare la quota dell'uso del petrolio è dovuto, oltre che all'ambiente anche allo sviluppo economico. Per prima cosa manca una strategia comune che crei un network progettuale per ottimizzare e potenziare le risorse almeno entro quegli organismi sovranazionali, ove esistenti, come ad esempio l'Unione Europea. Esiste già una cultura ambientalista sviluppata, ed il problema ambientale rientra sempre di più nella sensibilità e nei programmi di governo, tuttavia lo sforzo economico per la promozione delle energie alternative e rinnovabili non consente quel passo avanti necessario per incidere sulla economia globale, cioè per avere un tornaconto monetizzabile nei bilanci dello stato. Le leggi sono spesso contrastanti e gli interessi in gioco non favoriscono appieno l'indirizzo energetico alternativo, ed anche le politiche aziendali puntano a rendimenti immediati e non di medio o lungo periodo, il dividendo azionario è preminente sul bene comune. Questo è dovuto all'assenza di politiche fiscali che permettano il raggiungimento di obiettivi a lunga distanza, perchè anche il bilancio statale è sempre più soggetto a ristrettezze economiche dovute a vincoli sempre più ferrei. Tutte queste ragioni non sono proprie solo di alcuni paesi ma si possono applicare alla quasi totalità delle nazioni, escludendo i soli grandi produttori petroliferi, tanto è vero che anche produttori petroliferi come l'Iran (1,9% di produzione del mondo) vogliono puntare sull'energia nucleare (affermando che è per usi pacifici). La presa d'atto della necessità dell'energia alternativa è ormai un dato di fatto resta la necessità di un coordinamento a livello sovranazionale che sia efficace e dia l'impulso necessario alla partenza di quello che sarà il business del futuro.
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