Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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lunedì 28 febbraio 2011
Chavez avverte le opposizioni: in Venezuela non sarà come in Egitto
La paura che le proteste valichino l'0ceano e vadano a colpire i regimi, deve essere stata presa in grande considerazione da Chavez, che in discorso pubblico ha affermato che in Venezuela non succederà come in Egitto e negli altri paesi arabi. Il solito ritornello della responsabilità americana, buono per ogni occasione ha fatto capolino dal palco del comizio del presidente del Venezuela. Chavez ha affermato che è errato paragonare la situazione della sponda sud del Mediterraneo, come un possibile sviluppo anche in Venezuela, ma che il paragone corretto è con quello successo con la sua ascesa al potere, portatrice di libertà e democrazia nel paese. Riguardo alla Libia, non ci sono state parole di condanna, ma soltanto di augurio per una pacificazione nazionale perseguita senza la violenza. La posizione di Chavez all'interno del panorama della politica estera è spesso sbilanciato verso nazioni ritenute pericolose, come l'Iran, a cui fornisce prodotti derivanti da raffinazione. Sul fronte della politica interna Chavez ha dovuto spesso avere a che fare con scioperi e critiche per la sua politica definita populista; sicuramente l'affermazione che in Venezuela non succederà come in Egitto, suona come avvertimento al fronte interno delle opposizioni.
L'Arabia Saudita circondata dai paesi in protesta
Anche nel sultanato dell'Oman, paese affacciato sul Golfo Persico, si comincia a manifestare per i diritti civili. Il paese è una monarchia assoluta dove non sono ammessi i partiti politici ed il sultano detiene tutti i poteri. La particolarità di questa protesta, oltre al fatto di segnalare la presenza di un'opposizione, è che l'Oman era l'ultimo paese confinante con l'Arabia Saudita a non essere toccato da manifestazioni ostili al regime. Ora la monarchia petrolifera più importante del mondo si trova accerchiata dal malessere sociale presente negli stati confinanti. Il regnante va avanti con un piano timido di riforme politiche e sociali, in uno stato dove il bilancio statale non è diviso dal patrimonio della famiglia reale e dove il diritto di voto è solo per i cittadini maschi di almeno 21 anni. Il controllo pregnante della società assicura il regime contro gli oppositori, tuttavia la presenza di gruppi di manifestanti e di episodi di protesta in ogni paese confinante, con la facilità e la velocità della circolazione delle idee assicurata dalle nuove tecnologie mette apprensione a Riyadh. Da tenere presente la presenza di nutriti gruppi di Al Qaeda sul territorio saudita, che potrebbero soffiare sul fuoco e fomentare lo scontento. Pur essendo su posizioni integraliste, l'Arabia Saudita, è sempre stato un fedele alleato degli USA, nonostante contribuisca con ingenti donazioni allo sviluppo dell'Islam nel mondo, finanziando anche gruppi non proprio moderati. Per il momento non pare probabile l'uscita allo scoperto di una eventuale opposizione, ma non è da credere che la società civile saudita sia impermeabile al vento della protesta.
Gli USA protagonisti dell'azione diplomatica per la Libia
La situazione libica continua ad essere grave, mentre a Tripoli si continua a combattere ed il regime rimane asserragliato nelle sue roccaforti, Bengasi prova a darsi un autogoverno che permetta di smarcarsi, anche con una struttura politica, dal regime dittatoriale. A questo neonato governo della Cirenaica serve subito un riconoscimento internazionale per accreditarsi sul panorama diplomatico, in questo senso si è espressa positivamente la segretaria di stato USA, Hillary Clinton, che pensa ad un'azione congiunta con la Russia, la UE ed alcuni pesi arabi per inviare aiuti ai ribelli. Il primo passo potrebbe essere la tanto auspicata zona di non volo, che darebbe fondamento giuridico alle ritorsioni ad eventuali tentativi di bombardare i rivoltosi da parte dell'aviazione di Gheddafi. In questa fase gli Stati Uniti dimostrano di essere di gran lunga ancora il paese più importante nel panorama diplomatico, prendendo l'iniziativa sulle proprie spalle e coordinando una platea di stati timidi nell'azione contro il dittatore di Tripoli. La manovra statunitense ha l'evidente obiettivo di cercare di accreditarsi come partner affidabile alla nascente nuova nazione libica. Obama in questo frangente mira a non essere inquadrato come esportatore forzoso di democrazia, invertendo la tattica di Bush jr., ma di essere soltanto un sostenitore dei popoli in rivolta per rovesciare la dittatura. Sia dal punto di vista politico, che da quello economico, la nuova tattica americana pare quella vincente e più sostenibile, del resto uno degli obiettivi dichiarati del presidente degli USA, è quello di cercare di mettere sotto una nuova luce il paese a stelle e strisce, senza, peraltro, sconvolgere la politica estera americana, che continua nel solco dell'atlantismo. Certo dopo la caduta dell'impero sovietico, il basso profilo della Cina, anche per il fatto di non essere essa stessa una democrazia e l'incompiutezza della UE, gli USA restano l'unica grande potenza globale, con il compito di esercitare il ruolo di gendarme del mondo, colmando anche il vuoto delle organizzazioni sovranazionali. L'attivismo in campo diplomatico segnala che gli USA hanno deciso di giocare fino in fondo la propria partita.
domenica 27 febbraio 2011
A Marzo per l’Egitto referendum costituzionale
Rappresentanti delle forze armate egiziane hanno indicato la data di fine marzo per il referendum costituzionale che dovrebbe dotare l’Egitto della sua carta fondamentale. La commissioni di giuristi che sta redigendo la bozza costituzionale ha previsto per la carica di presidente della repubblica la regola di limitare i mandati a due per singolo eletto, con un periodo di valenza di quattro anni. Questo disposto ribalta la norma voluta da Mubarak che non prevedeva alcun limite alla rieleggibilità, con un periodo in carica di sei anni. Una condizione posta dai militari è stata il giudizio su di ogni elezione da sottoporre ad una commissione giudiziaria. Con questa norma si vuole, da un lato limitare e controllare la possibilità di brogli, ma dall’altro si tiene aperta una porta ad un qualsiasi esito non gradito alle forze armate. Intanto il presidente della Lega Araba Amr Moussa annuncia la sua intenzione di candidarsi alla presidenza della repubblica nelle prime elezioni libere in programma.
Libia: l'attendismo dell'ONU e le possibili soluzioni
Le sanzioni dell'ONU, approvate dai quindici del consiglio all'unanimità, hanno un sapore di compromesso per salvare le apparenze. Non appaiono misure dirette a fermare il massacro e sopratutto esprimono una volontà di colpire Gheddafi in quanto privato, non colpendo in maniera significativa il regime libico. Era invece necessario colpire lo stato di Gheddafi in quanto tale, con opzioni ben più pesanti che il blocco dei beni ed il deferimento alla corte per i diritti umani. Sembrano atti, per quanto gravi contro un privato cittadino e la sua famiglia, anzichè contro un capo di stato ed i suoi sodali corrotti. La scelta dell'ONU da la portata di quanto il mondo intero non si sappia coordinare nemmeno in casi così eclatanti, si è persa un'occasione per affermare il ruolo delle Nazioni Unite come organo supremo delle nazioni in grado di agire materialmente in situazioni che lo richiedono. L'attendismo delle organizzazioni internazionali rischia di peggiorare ulteriormente la già grave situazione umanitaria libica, rendendole praticamente complici, con la loro inazione, del regime sanguinario di Tripoli. Ancora peggio la UE, che di fatto, si è limitata a generiche frasi di rito e non ha ancora emesso una decisione materiale di condanna, a causa della commistione di interessi di molti paesi europei con Tripoli. Viene il sospetto che questo attendismo, da cui si è smarcato il Regno Unito, con la revoca dell'immunità diplomatica ed il blocco dei beni di Gheddafi, sia in attesa degli eventi, un barcamenarsi in vista del risultato finale senza troppo precludersi agli eventuali sviluppi della situazione. Eppure era possibile scegliere tra un ventaglio ampio di possibilità, anche combinate, che potessero fermare le uccisioni perpetrate dal regime. L'opzione della creazione di una zona di non volo avrebbe scongiurato i bombardamenti aerei con cui Gheddafi cerca di domare i ribelli, avrebbe previsto un rischio limitato perchè la contraerea libica, pur essendo presente nell'insieme delle forze armate, è dotata di un arsenale che dispone di mezzi vecchi; meno funzionale una zona di non navigazione perchè la marina libica si è praticamente sottratta agli ordini di Tripoli con diserzioni diffuse. E' invece più comprensibile la riluttanza alla creazione di una no drive zone, che vieterebbe il movimento ai carrarmati del regime, pena la dissuasione manu militari. Si tratta di una opzione che prevede l'impiego di uomini e mezzi sul campo, in questo momento di più difficile attuazione per le difficoltà logistiche ed orgaizzative che i tempi brevi comporterebbero. Ancora una volta l'augurio è che non venga delusa la speranza riposta nell'ONU e che questi si muova con coraggio, con le possibili soluzioni a disposizione, che abbiamo visto essere diverse, in tempi più brevi possibile.
venerdì 25 febbraio 2011
ONU: contrasti sulle sanzioni alla Libia
Francia ed Inghilterra premono sull'ONU per sanzi0nare il regime di Gheddafi, anche gli Stati Uniti sono favorevoli ed anzi intendono schierare una forza armata sotto l'egida delle Nazioni Unite. Mentre la UE dopo lo scatto iniziale, si rintana ancora una volta nella propria dimensione di potenza incompiuta. In seno al consiglio di sicurezza, però si registrano le opposizioni di Russia e Cina, che temono che l'appoggio a sanzioni per casi del genere si tramuti in un precedente pericoloso, che non consenta di gestire futuri casi secondo le proprie esigenze. I due membri permanenti sono i sostenitori del non intervento in senso assoluto ed anche in situazioni eclatanti come quella libica non intendono abbandonare le proprie posizioni. La questione rischia di trascinarsi pericolosamente mentre nelle strade di Tripoli i mercenari di Gheddafi sparano sulla popolazione. L'urgenza dell'intervento è resa necessaria, oltre che ragioni umanitarie, anche politiche, lasciare in piedi un regime come quello di Gheddafi significherebbe avere, in caso di mantenimento del potere, uno stato in mezzo al Mediterraneo che diventerebbe la testa di ponte di qualsiasi terrorismo e terrebbe sotto ricatto l'intero occidente, sarebbe, insomma un rinviare il problema. Da non sottovalutare neppure il lato economico, con la produzione di greggio libico scesa praticamente a zero, l'impennata del prezzo al barile ha subito un aumento repentino, andando a gravare sul livello dei prezzi generale di un'economia mondiale già stressata dalle passate crisi. Se non si dovesse raggiungere un accordo, per l'ONU sarebbe un grave smacco, non essere in grado di trovare la risoluzione di un problema così evidente porrebbe una serie di domande sulla reale utilità dell'ente. E' una soluzione che si deve evitare ad ogni costo, l'ONU non deve perdere credibilità essendo l'unica struttura sovranazionale universalmente riconosciuta, in grado di potere gestire in maniera sovranazionale le crisi tra gli stati.
Il fattore tribù nella società libica e la sua importanza nella rivolta
Dietro l'evoluzione della vicenda libica vi è una articolazione della società tribale che sta influenzando la rivolta. La società libica non ha una struttura sociale paragonabile alle società occidentali che si contraddistinguono per la loro articolazione. In Libia la struttura è più elementare e si fonda sull'appartenenza tribale; inoltre la scarsità di istituzioni statali crea un vuoto di riferimenti che obbliga le persone a rifugiarsi dentro al clan di appartenenza. La politica scaltra di Gheddafi si è fondata su di un abile gioco di alleanze e concessioni ai gruppi tribali che ne ha fatto elemento fondante del proprio potere. Quello che sta avvenendo ora è il venire meno di questo castello di carte. Soltanto la tribù di origine Gheddafi, la Gaddadfa, e la tribù Magarha al momento mantengono l'alleanza con il vecchio capo, mentre la tribù Warfallah, che è la più consistente del paese contando un milione di appartenenti sui sei milioni di popolazione libica, ha giudicato le repressioni di questi giorni come immorali ed anti islamiche. Appoggiano questa posizione altre tribù minori del paese, che contribuiscono al franare dell'appoggio al regime. L'insediamento della tribù Warfallah è nella tripolitania, che dovrebbe essere la roccaforte del regime, la condanna della maggiore tribù della zona pone in serio pericolo il mantenimento in vita del regime. Sulle altre zone Gheddafi non poteva contare già prima, Bengasi e la Cirenaica sono tradizionalmente ostili al regime e forniscono alla rivolta un nocciolo duro di contestatori su base religiosa. Ridurre l''analisi al solo fattore tribù pare comunque riduttivo per capire la protesta in cui contano anche fattori economico-politici, tuttavia può essere la chiave di volta per la caduta finale di Gheddafi.
L’autoassoluzione diplomatica e la necessita’ di un intervento in Libia
Una dichiarazione del ministro della difesa francese Alain Juppe’ e’ significativa nell’aria autoassolutoria che si respira nelle cancellerie europee ed occidentali. Juppe’ dopo essersi augurato, cosi da salvare la faccia e salire sul carro della convenienza, che Gheddafi viva gli ultimi momenti da capo di stato, d’altronde siamo nel paese di Monsieur La Palisse, ha poi dichiarato testualmente: “Quale e’ il paese europeo che ha preso sulla Tunisia, l’Egitto, la Libia delle posizioni anticipatrici particolarmente illuminate? Nessuno. E nemmeno gli Stati Uniti”. Tutti colpevoli, nessun colpevole. D’altra parte la dichiarazione di Juppe’ rappresenta una verita’ sacrosanta: in nome della realpolitik nessuno ha mai osato dire quella che appariva l’evidenza dei fatti. Ma se si puo’ comprendere il prima, proprio in onore della convenienza politica ed economica, non si comprende questo atteggiamento autoassolutorio che non contribuisce allo sviluppo di un nuovo atteggiamento necessario per impostare ed affrontare una fase politico internazionale nuova. Si e’ presa la frase del ministro francese perche’ e’ emblematica, ma anche dalle altre cancellerie il silenzio o le frasi di circostanza confermano questo sentimento comune. Quello che manca e’ uno scarto di direzione che permetta di smarcarsi da un attendismo dannoso, la politica ed i propositi politici iniziano sempre dalle dichiarazioni di intenti, ora e’ necessario un mea culpa della diplomazia in generale, ripartire per essere credibili dall’ammissione delle proprie visioni errate dalla cancellazione di quel cerchiobottismo, che, si ha dato risultati nell’immediato, ma che nel lungo periodo ha, di fatto, fallito. L’occidente ha grosse colpe per quel che sta succedendo in Libia, ed e’ vero anche che gli Stati Uniti nel momento che potevano annientare il regime di Gheddafi si sono fermati, considerandolo il male minore. Adesso la situazione ha preso una via che se non verra’ arrestata con un intervento materiale provochera’ conseguenze difficili da immaginare. Con quale popolo rabbioso dovranno avere a che fare i governanti occidentali, se non verra’ dato ai libici in rivolta un sostegno militare e medico come segno tangibile di parziale riparazione per il via libera alla dittatura di Gheddafi? Si studino in fretta tempi e metodi e si agisca mettendo fine al piu’ presto a questo orribile massacro.
giovedì 24 febbraio 2011
Per la UE svolta epocale
Nonostante i ritardi dell'analisi della situazione e la confusione iniziale non colmata dalle dichiarazioni di rito, finalmente l'Unione Europea pensa al dramma libico con due opzioni di intervento. I due scenari prospettati contemplano due diversi livelli di sviluppo della crisi: il primo prevede la sola necessità di invio di mezzi di soccorso e si prefigura sostanzialmente come intervento umanitario, con precedenza agli europei da portare in salvo con mezzi navali o aerei; si tratterebbe di creare un corridoio umanitario da garantire come zona franca dagli scontri, che consentirebbe presumibilmente la creazione di ospedali da campo e campi profughi così da assicurare almeno una prima assistenza anche di tipo alimentare. La seconda opzione prefigura uno scenario di guerra civile protratta, che non lascia presagire ne sul come, ne sul quando, la soluzione del conflitto. In questo, malaugurato, caso la UE pare decisa ad inviare, oltre ai mezzi di soccorso, anche una forza armata sotto la bandiera europea, che funzioni da dissuasione per gli scontri armati. Per la UE sarebbe un salto di qualità notevole, per la prima volta deciderebbe e programmerebbe un intervento di una propria forza armata di interposizione e sarebbe da sola a gestire il problema. Un atto da grande potenza che finora è mancato. Certo la crisi è sulla porta di casa ed è vitale scongiurare possibili derive o soluzioni che non contemplino altro che una transizione democratica. Ma è ancora necessario sottolineare la portata della decisione, la UE decide di darsi una autocoscenza di potenza mondiale, con un'autonomia decisionale finora mancata e maturata al di sopra delle decisioni nazionali, spesso contrastanti, si muove finalmente come un tutt'uno sia dal punto di vista politico che diplomatico che militare. E' una svolta, che seppur maturata in una situazione tragica e tremenda, potrebbe segnare la storia dell'Unione Europea.
Israele bombarda la striscia di Gaza e commette un autogol diplomatico
Israele ha lanciato il più grosso bombardamento della striscia di Gaza dopo la guerra combattuta alla fine del 2008 ed all'inizio del 2009, ch eprovocò più di 1400 morti in appena tre settimane. L'azione militare è stata eseguita come rappresaglia al lancio di un missile contro la città di Beersheva, capitale del deserto del Negev. Il razzo non ha fatto feriti ed è stato lanciato dopo violenti incidenti tra palestinesi e soldati israeliani avvenuti nella striscia di Gaza. Tel Aviv ha dunque deciso di rispondere con una azione molto violenta in un momento storico alquanto inopportuno, con le rivolte arabe in corso, dove la componente integralista è generalmente minoritaria, ma resta comunque una presenza importante all'interno dei moti di piazza. Israele invece di mantenere un basso profilo sceglie la via della forza per intimidire gli avversari e forse anche per avvertire chi pensa di attaccarlo di avere intenzioni e mezzi adeguati per rispondere. E' una tattica propria di un politico come Netanyahu che predilige mostrare i muscoli anzichè passare per la via diplomatica. Il bombardamento segnala uno stato di inquietudine e di nervosismo presente nel paese della stella di Davis, che nemmeno le rassicurazioni statunitensi sono bastate a placare. La situazione incerta dell'Egitto, che garantiva l'applicazione degli accordi di Camp David in senso integrale e senza tentennamenti, lo stato di agitazione nei paesi arabi, la presenza delle navi da guerra iraniane hanno, di fatto innalzato il livello di attenzione ed il termometro della tensione israeliana, tuttavia effettuare un'operazione bellica così eclatante mette Israele in una luce del tutto negativa, anche cercando di isolare dal contesto generale il bombardamento, è impossibile non interpretarlo come avvertimento preventivo. La politica estera israeliana, specialmente alla luce dei nuovi accadimenti, andrebbe rivista, in questo momento sarebbe opportuno concedere qualcosa di tangibile ai palestinesi anzichè bombardarli, non sembra il momento giusto per esasperare gli animi, ma cogliere l'opportunità delle rivolte per cercare di accreditarsi sotto una diversa ottica alle nascenti democrazie.
L'Unione Europea ed il suo possibile ruolo futuro
Se le cose andranno come si spera, cioè fine della dittature e costa sud del Mediterraneo con nuove democrazie sul panorama internazionale, l'Europa dovrà pensare e mettere in atto una nuova strategia per coinvolgere, ed eventualmente fare da garante, i paesi arabi nella sfera occidentale. La questione non è prematura, anche se le rivoluzioni sono lungi dall'essere risolte, per sfilare al fondamentalismo islamico le nuove democrazie occorre inserirle, con un processo graduale che consenta loro di entrare a pieno titolo nel mondo occidentale. L'Europa deve prepararsi ad un ripensamento radicale delle proprie posizioni sull'Islam, continuare a tenere alzato il ponte levatoio dei valori cristiani come barriera sta diventando obsoleto dal corso della storia. Non solo le nuove democrazie arabe devono essere coinvolte nel processo, ma anche per la Turchia si deve ricominciare da capo il percorso di entrata nell'Unione Europea. Una Europa unita che ricomprenda praticamente tutto il bacino del Mediterraneo è una occasione unica per rendere l'Unione Europea più forte sia dal punto di vista politico che economico. I benefici per le nuove democrazie e per la pace del mondo sarebbero incommensurabili. La compentenza delle istituzioni europee potrebbe accompagnare popoli non abituati alle consuetudini ed ai sistemi democratici a meglio comprendere il valore di legislazioni che al centro hanno la tutela dei diritti civili ed ha sviluppare una propria coscenza in base al diritto. In un quadro simile la tolleranza religiosa ed il rispetto delle idee potrebbero dare una grossa mano contro il fondamentalismo ed il terrorismo, favorire un dialogo interreligioso ed interculturale sarebbe meno ostico in un ambiente con analoghi strumenti legislativi e sotto le istituzioni ed gli organismi comunitari della bandiera blu con le stelle. Anche dal punto di vista economico un scambio tra risorse e conoscenze consentirebbe una razionalizzazione degli sforzi ed una nuova e più equa redistribuzione della ricchezza. In questo modo si ridurrebbero le migrazioni dei popoli, perlomeno costieri, e si avrebbe una migliore gestione degli altri migranti. Non è fantascienza, ne fantapolitica, ma immaginare una soluzione tale porrebbe l'Unione Europea al centro di un processo senza precedenti con benefici sull'intero pianeta.
mercoledì 23 febbraio 2011
Il fattore della simultaneità nelle rivolte arabe
Si sono accostate le rivolte arabe alla caduta della cortina di ferro, ed in effetti, le analogie sono diverse; anche se i paesi del patto di Varsavia erano un blocco unito ed in forza di questa unione si capisce meglio la caduta all'unisono di quel mondo. Diversi i casi del nord africa e degli altri paesi arabi, uniti solo dal fattore religioso, in senso lato, ma poi diversissimi, sia dal punto di vista socio-culturale che economico. La riflessione viene spontaneacirca i fattori scatenanti che hanno provocato la quasi simultanea rivolta dei paesi arabi. E' innegabile che la mancanza di diritti civili e politici, in una situazione contingente di crisi mondiale, che ha determinato l'aumento della povertà, sono stati fattori scatenantiper le crisi in atto, quello che non è chiaro è la tempistica praticamente contemporanea dello scoppio delle stesse. Non può saltare agli occhi questo dettaglio: perchè ora? E se la simultaneità non è casuale esiste un soggetto che ha elaborato un progetto per quello che sta accadendo? Se le rivoluzioni andranno in una certa direzione il mondo avrà qualche dittatore in meno in zone chiave del pianeta, zone chiave dal punto di vista politico ed economico e questo è un dato di fatto. Resta da vedere come saranno riempiti questi vuoti di potere, il pericolo per la sicurezza del mondo è che non si inseriscano movimenti integralisti, un rischio non da poco, anche se, per ora, la parte religiosa delle rivolte pare predominante nella sola Cirenaica, negli altri stati la componente religiosa è solo una parte dei movimenti che partecipano alle rivolte. Quindi si può ipotizzare, con tutti i limiti del caso, che si sta andando verso forme di stato democratiche, anche se pare francamente precipitoso paragonarle alle forme mature dell'occidente; infatti spesso i garanti dell'ordine ristabilito sono i militari. Questo quadro, che potrebbe delinearsi, potrebbe convenire a chi teme che dittature ormai traballanti, vengano sostituite in toto da regimi integralisti e vede quindi con favore l'appoggio delle forze armate. Anche dal punto di vista economico è preferibile avere da trattare con governanti che garantiscano la stabilità con il consenso anzichè con il pugno di ferro. Sulla tempistica si dovrebbe pensare all'evoluzione delle situazioni mondiali, dove il pericolo nucleare iraniano e l'azione politica del regime teocratico pare avere schiacciato sull'acceleratore dell'accerchiamento di Israele e delle minacce all'occidente, inoltre in altre parti del mondo la minaccia integralista, Al Qaeda e Talebani in primis, restano un pericolo costante. La direzione dei paesi arabi in rivolta verso la democrazia toglie terreno sotto ai piedi ai movimenti islamici integralisti e va verso il possibile coinvolgimento di questi paesi nella sfera di influenza occidentale. Se la storia prenderà questa direzione i tempi non saranno comunque brevi, si stravolgeranno interi modi di vita e di pensiero e l'adattamento non sarà facile, ma si saranno sottratte intere nazioni alla dittatura ed al pericolo per l'occidente.
Cirenaica: uno stato islamico che può nascere dalla Libia
Dalla possibile dissoluzione della stato libico potrebbe nascere una nazione islamica: l'Emirato islamico di Libia orientale. Il territorio del nuovo stato andrebbe a coincidere con la zona della Cirenaica storica, con capitale Bengasi. Il problema della Cirenaica è sempre stata una costante nella storia libica, i suoi abitanti hanno sempre reclamato l'indipendenza, non solo da Gheddafi, ma anche, prima dal Re libico antecedente al dittatore, agli inglesi che l'amministravano come protettorato ed agli italiani che vi avevano imposto il regime coloniale. A Gheddafi hanno sempre rinfacciato la diseguale ripartizione della ricchezza petrolifera a favore delle altre regioni libiche ed hanno inseguito a lungo la soluzione federale come ripiego in grado di garantire almeno qualche forma di indipendenza. Da Bengasi, capitale della Cirenaica, è partita la rivolta che si è allargata a macchia d'olio nella Libia, ma che in Cirenaica ha il grosso del seguito, per le milizie di Gheddafi è stato da subito diffcile mantenere il controllo. Gli antichi rancori e la vicinanza con l'Egitto sono stati i propulsori delle manifestazioni di piazza, cui però ha contribuito in maniera rilevante la massiccia religiosità degli abitanti, tra cui molti integralisti. Nonostante le repressioni degli anni precedenti, autentici bagni di sangue, i fratelli musulmani non sono stati mai completamente sradicati, in questo probabilmente favoriti dal confine con l'Egitto che corre lungo il lato orientale cirenaico; ma ben più importante è il ruolo del Fronte Islamico combattente, già individuato in passato dal figlio del Rais, Seif Gheddafi, come nemico del regime, che nella primavera scorsa aveva tentato, invano, di coinvolgere in una sorta di accordo con lo stato libico. Il livello di penetrazione tra la popolazione cirenaica di questo movimento è elevato ed è quindi da ritenere come uno dei maggiori responsabili della rivolta. Per l'occidente la creazione di uno stato integralista praticamente ai suoi confini è motivo di allarme, il livello di tensione delle cancellerie aumenta, se è possibile, proprio in vista del concretizzarsi di questa eventualità. Eventualità cui l'occidente non attendeva e a cui non si è mai preparato, ma che rappresenterà, se dovesse verificarsi, una grossa novità nelle relazioni tra stati all'interno del bacino del Mediterraneo.
Le remore europee nella condanna di Gheddafi ed il mercato degli armamenti
Un rapporto dell'Istituto di Investigazione per la Pace di Stoccolma (SIPRI), spiega bene le remore e la lentezza dell'Europa nella condanna di Gheddafi. Esiste, o meglio è esistito, un fiorente rapporto commerciale di armi ed armamenti, dalle armi convenzionali ai dispositivi più avanzati, tra diversi paesi UE e la Libia. Quello delle armi con le dittature è un grosso punto nero della politica comunitaria che non è stata in grado di fare cessare le forniture verso quelle nazioni governate da regimi antidemocratici; l'attività lobbistica dei produttori di armamenti parte dalla pressione presso i governi nazionali ed arriva fino a Bruxelles con un'azione continua ed incessante. E' in gioco un vortice di denaro consistente, ed anche le relazioni diplomatiche risentono dei rapporti tra gli stati, anche sulla base di questi commerci. La questione non è nuova, ma l'attualità la riporta alla ribalta, denunciando una situazione che nell'Unione Europea, portatrice di valori democratici e civili, non dovrebbe esistere. L'occasione di riformare il commercio delle armi, che è un'industria patrimonio di diverse nazioni e che occupa diversi posti di lavoro, dal centro dell'Europa è fatto da non lasciarsi sfuggire. Non fornire più armi a regimi dittatoriali e che non garantiscono il rispetto dei diritti umani dovrebbe essere un obbligo, come un obbligo si impone la sua regolamentazione per evitare anche conseguenze più gravi, derivate dai rapporti che spesso si sviluppano tra dittature e terrorismo internazionale. E' chiaro che perdere il mercato delle dittature significa tagliare una parte consistente del fatturato degli armamenti, ma inserirlo in un quadro comunitario può ridurre questa perdita e generare insieme benefici indotti per la politica in generale.
martedì 22 febbraio 2011
L'Italia capro espiatorio di Gheddafi
La frase di Gheddafi contro l'Italia in altri tempi sarebbe suonata come dichiarazione di guerra; accusare un paese straniero di fornire le armi, razzi, ai ribelli dell'ordine costituito è più che una dichiarazione di colpevolezza. Solo che in questi anni che stiamo vivendo si può sparare a caso senza incorrere in alcuna sanzione nemmeno verbale. Perchè sparare ad alzo zero contro l'Italia, che ha usato un basso profilo nella questione libica? Perchè colpirla in un tantativo disperato di catalizzare un qualche consenso contro la rivolta montante? Gheddafi ha spesso usato la penisola come capro espiatorio di tutti i mali del suo paese, girando a suo piacimento versioni ed accadimenti di cui, alla fine, l'Italia non aveva alcuna colpa. In vari periodi della sua carriera di dittatore Gheddafi ha usato un qualche spauracchio contro il belpaese per trarne sempre un qualche vantaggio. La colpa dei vari governi italiani, probabilmente, è stato di compiacerlo in nome di una real politik interessata, che ha saputo furbescamente, trarre più di un tornaconto dalla Libia. E' chiaro che i vantaggi ottenuti non sono stati a costo zero, l'Italia, nei vari anni trascorsi ha pagato un tributo non indifferente in termini economici e politici alla Libia ed al mondo. Pare superfluo dire che l'Italia non ha fornito alcuna arma, ne alcun altro sostegno ai ribelli libici, ma anzi è stata sorpresa dalla rivolta; eppure il refrain di Gheddafi ritorna anche oggi in toni disperati, è solo un retaggio di un vecchio libico che ha sofferto, per trasmissione, la dominazione coloniale italiana o sono minacce velate ad un governo che alla fine non si è schierato ne con un lato ne con un altro? In effetti la dichiarazione delirante di Gheddafi appare come l'ultimo rigurgito di un potere nella fase finale, che spera in qualche modo di salvarsi con qualche coniglio dal cilindro, che purtroppo per lui esce dal cappello senza vita. L'Italia appare attonita dallo sviluppo della situazione, non è un fatto del solo governo, che qualche giustificazione pure ha, almeno per il solo amor di patria, ma che lascia tutta l'opinione pubblica tricolore pervasa da un senso di incertezza. Gheddafi probabilmente finirà la sua storia, ma per i libici l'Italia resterà sempre capro espiatorio, qualcuno da incolpare per quello che non funziona.
Libia ed Italia l'incognita delle future relazioni
Mentre l'ONU cerca di istituire un corridoio umanitario per permettere ai profughi della repressione libica di raggiungere zone più sicure, per la UE il problema è di preservare le coste italiane da un'ondata di profughi che potrebbe raggiungere le 750.000 unità. Se questa eventualità dovesse anche lontanamente verificarsi, sarebbe il collasso per Roma. L'Italia al momento misura le dichiarazioni bilanciando il proprio atteggiamente in attesa degli eventi, la sensazione è che la giusta preoccupazione la faccia da padrona negli ambienti governativi italiani. Per il momento una nave militare staziona in acque internazionali davanti alle coste libiche e le basi dell'aeronautica militare più vicine sono allertate. Aldilà delle normali procedure di sicurezza consuetemente attivate in questi casi, il momento viene vissuto con viva apprensione, tanto da allertare le istituzioni comunitarie. La UE ha deciso l'avvio della procedura di emergenza dell'agenzia Frontex che si occupa della gestione delle frontiere a livello comunitario. Per l'Italia si aggiunge la minaccia dei ribelli libici di tagliare le forniture di gas allo stivale a causa degli stretti contatti allacciati con Gheddafi e per la tardiva condanna delle stragi. Gli scambi economici Italia-Libia sono consistenti, l'Italia è il primo partner commerciale della Libia, e si è aggiudicata diversi appalti per la costruzione di infrastrutture e per l'estrazione del greggio libico; la Libia, tramite investimenti diretti e fondi a capitale libico, detiene diverse partecipazioni in importanti società italiane. Nel caso della caduta del regime di Tripoli, l'Italia dovrà reinventare le relazioni con la Libia, partendo verosimilmente da un punto svantaggioso per le strette relazioni con Gheddafi. Si tratterà di ricostruire da zero le relazioni tra i due paesi cercando di mantenere in vita gli accordi stretti con il regime precedente senza la certezza di essere più il partner principale.
Obama: crisi arabe e lotta all'antiamericanismo
Gli USA stanno valutando diverse opzioni per la crisi libica; mentre Gheddafi usa mercenari come cecchini per sparare sulla folla ed aerei dell'aviazione militare per bombardare i manifestanti, l'amministrazione Clinton pensa ad un intervento internazionale per evitare il protrarsi delle stragi libiche. Gli Stati Uniti hanno la concreta possibilità di scrollarsi di dosso l'antiamericanismo viscerale degli arabi inserendosi come protagonisti nella ricerca di una soluzione pacifica. Se questa strategia otterrà i frutti sperati, gli USA possono pensare di ribaltare il loro rapporto con la Libia fino a guadagnare un nuovo alleato. E' questo il programma che l'apparato di Obama sta studiando per accrescere il proprio peso specifico all'interno della parte sud del Mediterraneo cercando di fare mutare parere all'opinione pubblica araba. Quello dell'antiamericanismo è un problema molto sentito da Obama, che fin dall'inizio della sua elezione ha mutato l'indirizzo della politica estera statunitense, cercando di presentare lo stato a stelle e strisce sotto un'altra luce. Anche in Afghanistan, pur mantenendo un apparato militare consistente, sono state elaborate strategie di affiancamento all'azione bellica che hanno previsto un forte investimento per spese mediche e sociali, che hanno cercato di coinvolgere attivamente la popolazione locale. Le rivolte attuali, che pure hanno tra le altre anche una matrice integralista, si contraddistinguono per la richiesta di diritti civili a lungo negati; è questo il terreno comune che gli USA cercano di percorrere per affiancare e collaborare con le popolazioni arabe in rivolta. Gli USA hanno al loro arco una freccia molto importante essendo i creatori ed i distributori della nuova tecnologia che ha permesso, di fatto, le rivolte ed il loro successo. Facebook e Twitter sono già ambasciatori positivi degli Stati Uniti presso i giovani arabi che usano questi strumenti come i loro coetanei occidentali, quindi il mezzo della cultura, peraltro tanto temuto dagli integralisti islamici, può sfondare barriere fino ad ora rimaste serrate.
Cina e rivolte nei paesi arabi
Nel momento si sommovimento generale, con rivolte in corso e cambiamenti epocali, brilla il silenzio della nuova potenza mondiale. Non che si aspettasse che la Cina condannasse le dittature ed i loro metodi, dal momento che essa stessa fa uso di analoghi strumenti per soffocare il dissenso interno, tuttavia appare francamente strano che il colosso di Pechino non abbia speso neppure una parola per le crisi in atto. La scelta costante della politica estera di Pechino è sempre stata contraddistinta dalla non ingerenza degli affari interni degli altri paesi, ed anche in questo momento storico la direzione è mantenuta con un comportamento netto che non si discosta dalla consuetudine. Se la linea mantenuta è coerente con l'azione diplomatica consueta della Repubblica Popolare Cinese vi è però, un contrasto marchiano con la volontà di affermazione come potenza di livello politico, non solo economico, più volte ricercata da Pechino. Sicuramente vi è un contrasto in seno alla diplomazia cinese, mantenersi fuori dalla contesa significa non essere coinvolti in paragoni e giudizi, consentendo di non focalizzare anche sulla Cina il problema, già sentito sulla scena internazionale, del rispetto dei diritti umani; dall'altro lato l'assenza dall'azione diplomatica, in cui per il momento l'occidente gioca un ruolo centrale, ancorchè sottotraccia e non rilevante, priva la Cina della visibilità necessaria per accreditarsi come interlocutore alternativo. Viene insomma, per il momento, scelto un low profile che la dice lunga sulle reali intenzioni cinesi a guardare verso una democratizzazione del suo sistema. Ciò non può fare a meno di preoccupare l'intero panorama internazionale: continueremo ad avere a che fare con una nazione, che è la seconda potenza mondiale, che non intende intraprendere la via della democrazia.
lunedì 21 febbraio 2011
Diplomazia occidentale: opportunismi ed errori
La diplomazia occidentale deve interrogarsi sulle sue azioni e sui suoi rapporti con le dittature. In vario modo, per ragioni di opportunità politica o economica, le relazioni intrattenute con le dittature che stanno cadendo sono state intense e durature. Le condizioni con cui i cittadini dei paesi in rivolta venivano governati erano note, ma raramente e se non per motivi legati al proprio tornaconto, i governi occidentali muovevano critiche ufficiali ed atti di pressione a favore dei diritti civili negati. L'occidente ha fatto finta di non vedere, ben conoscendo invece la situazione e trincerandosi dietro l'omertosa ragion di stato della non ingerenza. Mentre con Iraq ed Afghanistan, ma anche con Serbia e Kossovo, ci si lanciava in un interventismo, talvolta giustificato, con le dittature petrolifere si sceglieva la tattica dei trattati, se non quella dell'alleanza. Dire due pesi e due misure rende bene l'idea. Eppure il livello di malversazione della popolazione non era differente, ma invece che l'intervento militare o la sola pressione economica, si pensi ad esempio a Cuba, si sceglieva di foraggiare sotto forme diverse le casse dei dittatori. Ancora oggi, in piena rivolta democratica, non si arrischiano pronunciamenti dalle cancellerie, se non mezze frasi che consentono comunque una sorta di via d'uscita buona per tutte le soluzioni. Anche istituzioni che dovevano essere super partes come l'ONU, sono state preda di tatticismi e veti incrociati tali da non consentire un'azione efficace in favore delle persone in quanto tali. Alla fine, sicure dei propri accordi e delle tattiche fin qui sviluppate, le diplomazie occidentali si sono risvegliate in un incubo, che le ha colte impreparate. Dopo avere coltivato il proprio orticello per spuntare un prezzo migliore sul rifornimento del gas o per fermare gli immigrati irregolari, senza una tattica comune, i paesi occidentali si trovano a dovere ripensare dall'inizio tutto il rapporto con i paesi ora in rivolta. Si tratterà di un ripensamento radicale come idea di fondo, come filosofia d'approccio con questi paesi che si daranno nuove forme di stato e di governo, ed anche nella azione diplomatica pura, quella fatta di contatti e di relazioni, anche di basso profilo, si dovrà ripartire da zero per reimpostare totalmente accordi e trattati, si dovrà rinegoziare tutto non sapendo chi si avrà davanti. E' necessario prepararsi da subito: essere di nuovo impreparati non è più ammissibile.
2011anno delle rivoluzioni
Il 2011 è ormai l'anno delle rivoluzioni, la portata storica dei fatti che stanno accadendo sotto i nostri occhi e di cui siamo testimoni diretti e talvolta protagonisti, grazie alle nuove tecnologie, avrà la stessa valenza nei manuali e nei testi istituzionali di storia contemporanea dei fatti del 1989, culminati con la caduta del muro di Berlino e la fine della cortina di ferro. Come allora una massa di popoli si muove, quasi all'unisono, per placare la propria fame di diritti, cercando un riscatto che garantisca un futuro migliore, in un quadro di legalità all'interno delle proprie nazioni, fino adesso dittature. Qui finiscono le similitudini, ora ci troviamo di fronte ad una massa di persone che preme alle nostre porte in maniera più pressante di quanto successo con i paesi dell'est, che ricordiamocelo, avevano comunque un livello di vita più elevato. Inoltre non esiste in Africa un paese come esisteva allora in Europa, la Germania Ovest, capace di assorbire dentro se stesso un'altra intera nazione, anche se poi il costo economico dell'operazione è in parte ricaduto sugli altri paesi dell'Unione Europea. Proprio un'istituzione come la UE è riuscita a fare da ammortizzatore alla trasformazione in democrazie dei paesi oltrecortina, inglobandoli nel processo unificatore del vecchio continente, coinvolgendo ed in qualche modo guidando la transizione democratica, sopratutto con consistenti aiuti economici. Insomma la UE ha di fatto preso sulle sue spalle, con tutti gli errori del caso, intere nazioni mantenendo al suo interno la trasformazione di istituzioni, popoli e culture. Pur essendo un ambiente certamente protettto, non è stata una operazione facile e senza costi sociali. In Africa non c'è una UE che possa almeno coordinare un processo al buio di fuoriuscita dalle dittature. Ci sono paesi seduti su ricchezze immense, fino adesso appannaggio di oligarchie ben poco illuminate, la rabbia accumulata per le diseguaglianze sociali molto profonde cresciute in sistemi che garantivano solo l'incremento della povertà generalizzata, ha generato lo scoppio delle rivolte, sostenute dalla conoscenza dei nuovi sistemi informativi, che solo governanti ottusi non hanno compreso. La legittima autodeterminazione dei popoli ha scalzato, o sta scalzando dittature che alla fine si sono dimostrate mostri di cartone. Bene, se diamo per assodate le legittime aspirazioni dei popoli e la loro giusta lotta di liberazione, dobbiamo anche fare delle considerazioni sul futuro di questi paesi, che giocoforza è legato al nostro. Il timore maggiore resta legato al vuoto di potere che si sta venendo a creare, fortunatamente il ruolo delle forze armate in generale, di questi paesi è stato quello di schierarsi dalla parte del popolo, anche se in taluni casi la repressione è stata violenta; il pericolo che si instaurino teocrazie islamiste, grazie alla facile presa sui popoli è concreto. Il secondo aspetto è quello energetico, l'industria e la vita civile occidentale si basa, per una parte consistente, sulle materie prime acquistate da questi paesi; se da un lato essi non possono rinunciare al flusso di denaro derivante dalla vendita di gas e petrolio, dall'altro potrebbero esercitare pressioni di tipo politico attraverso queste armi. Un ulteriore aspetto è il controllo del movimento delle masse umane, regolato con accordi pilateschi tra democrazie e dittature, l'Europa si trova spiazzata dalla caduta dei regimi perchè impreparata a gestire emergenze umanitarie di così grande portata come quelle che verosimilmente si abbatteranno sulle sua coste. Fino adesso l'occidente è stato impreparato, viceversa che nel 1989, è ora di studiare una strategia comune ed affinare glio studi diplomatici, la situazione è già troppo avanti.
domenica 20 febbraio 2011
Libia: le incognite di una rivoluzione inattesa
La crisi libica ha delle peculiarità per l’europa e per tutto l’occidente, che la diversificano dalle altre crisi nord africane ed a quelle del Bahrein o dello Yemen. Le coincidenze sono con la ricerca disperata del riconoscimento dei diritti civili, in un quadro di dittatura, probabilmente ancora più invasiva che negli altri regimi. Ma l’europa si trova spiazzata di fronte a questa rivolta che mette in crisi una dittatura con la quale aveva raggiunto una sorta di equilibrio. Gli aiuti per bloccare le migrazioni che partivano dai porti libici sono storia recente, come storia recente sono gli accordi economici per costruire le infrastrutture di un paese pronto a lanciarsi nell’economia globale, seppure con le limitazioni del caso. Non sono storia recente i rapporti economici tra Libia ed Europa per la fornitura di gas e petrolio, con un traffico verso il vecchio continente stimato nell’85% della produzione di Tripoli. Anche gli USA, dopo gli accordi del 2003, pur non gradendo Gheddafi, su quel fronte dormivano sonni tranquilli. La Libia era un sostenitore del terrorismo internazionale, con contributi economici ed anche pratici, che facevano del capo della Libia un obiettivo da bombardare; ma dopo quell’accordo la situazione era stata regolamentata. I paesi occidentali sono in mezzo al guado, appoggiare le legittime richieste del popolo libico sarebbe scontato, come avvenuto per gli altri popoli in rivolta, tuttavia i legami e gli aspetti che potrebbero conseguire da questo appoggio, dovuto ma non dato, preoccupano le cancellerie. Gheddafi da parte sua ha già, di fatto, allentato i controlli dai suoi porti, nonostante i denari già incassati, per permettere ad un nutrito numero di migranti di salpare alla volta della UE; la minaccia è concreta, l’Italia, in prima battuta, e la UE in seconda, non sono in grado di sostenere una ondata migratoria che oltrepassi i numeri previsti. Esiste anche l’arma del ricatto energetico, bloccare le importazioni di gas è un deterrente pesante per la fame di materia prima essenziale per la produzione industriale e per le esigenze civili. Infine esiste la minaccia terroristica, per ora neppure paventata; Gheddafi potrebbe venire meno agli accordi presi nel 2003 e fomentare una massa popolare che lo vede come il leader politico dei paesi, come si diceva una volta, non allineati. Non mancherebbe il materiale umano ed anche politicamente la Libia potrebbe trovare un buona numero di paesi alleati, sempre che esca indenne dalla rivolta. In questo quadro una alleanza con regimi del calibro dell’Iran non sarebbe un’idea peregrina, con il risultato di avere le navi iraqene davanti alle coste italiane. Un’altra considerazione è doverosa, nell’ipotesi di una sconfitta di Gheddafi, il futuro sarebbe ugualmente un punto interrogativo per l’occidente per l’incertezza che risulterebbe da chi potrà prendere il potere.
USA: trattare o no con i talebani?
Di fronte ai nuovi scenari internazionali innescati dalle rivolte di popolo gli USA accelerano la ricerca del dialogo con i Talebani, per aumentare la possibilità di una exit strategy più veloce. La questione, tuttavia non è semplice: esistono paletti di non poco conto da limare per superare le reciproche diffidenze. Entrambi gli schieramenti, a parole, pretendono in un qualche modo, l’abbandono delle armi, anche se con opzioni diverse. Ma il fatto che da ambo le parti si riconosca, anche se per ora in forma ufficiosa, la necessità di trattare significa che l’impasse della guerra afghana vale per tutti. Senza un’uscita diplomatica il pantano bellico non si ferma e gli Stati Uniti rischiano di non tenere il passo in tutto il teatro mondiale. La preferenza dello stato Afghano, cioè di Karzai, è però quella di non scendere a patti con i talebani, per non correre il pericolo di inquinare il traballante stato di Kabul con l’entrata nell’agone politico ufficiale di rappresentanti integralisti, la questione diventa così spinosa per gli USA, costretti a giocare su due tavoli. Ma la soluzione non appare procrastinabile, l’esigenza principale degli USA e’ quella di alleggerire il proprio impegno nella regione per stornare verso altri scenari sforzi, soldi e truppe. La trattativa con i talebani rischia cosi’ di diventare pericolosamente precipitosa e di innescare soluzioni non convenienti per eccesso di fretta, tuttavia gli americani stanno valutando sempre di mantenere delle basi nel paese per appoggiare lo stato afghano, anche dopo il ritiro programmato delle truppe. La soluzione resta comunque vincolata a diverse variabili e quelle afghane sono solo alcune di esse; lo sviluppo della scena internazionale con l’incognita Israele ed il suo stato di allerta senz’altro giocheranno un ruolo predominate nelle strategie USA future.
sabato 19 febbraio 2011
Gli USA vicino ad Israele
Segnale forte dell'amministrazione Obama in favore di Israle: bocciata all'ONU una risoluzione, promossa da ANP che doveva condannare Tel Aviv per le costruzioni sui territori in territori palestinesi. Nell'attuale momento di incertezza con le rivolte in corso nei paesi vicini allo stato ebraico, dove tanto stanno contando i movimenti islamici e con due navi militari iraniane in attesa di solcare il canale di Suez, vietare la condanna di Israele assume un fatto che va aldilà delle stanze del palazzo di vetro e delle fredde norme burocratiche proprie delle risoluzioni ONU. Per Israele significa incassare la vicinanza dello stato statunitense su una questione che l'amministrazione Obama non ha mai dimostrato di condividere molto. Sicuramente in futuro ci sarà tempo per ridiscutere la questione ma ora l'importante è dire ad Israele, per primo, ed a tutto il mondo, specialmente quelo arabo, per secondo, che l'alleanza con il paese della stella di David è centrale nei pensieri del governo di Washington. Obama è cosciente che un pronunciamento del genere rischia di fomentare l'antiamericanismo del popolo arabo, specie quella parte che considera Israele neppure come stato, ma solo come identità sionista, tuttavia il pronunciamento costituisce proprio un monito verso gli integralisti, che sperano di approffittare della situazione di generale caos per colpire Israele. Quello che dispiace, probabilmente anche allo stesso Obama, è che a rimetterci siano ancora una volta i Palestinesi, specialmente nel momento in cui i negoziati devono spiccare il volo verso l'inizio, il respingimento della risoluzione potrebbe bloccare ancora una volta le trattative, schiacciate esigenze uguali e contrarie; del resto Obama si trova nella situazione di chi è tra l'incudine ed il martello, non gradendo certamente di fare tale regalo a Netanyahu, inviso al capo di stato americano per il suo radicalismo. Siamo nel bel mezzo di un difficile esercizio di equilibrismo politico pr superare il quale Obama deve fare ricorso a tutte le capacità della diplomazia americana.
venerdì 18 febbraio 2011
Obama riunisce le più importanti aziende tecnologiche USA
Barack Obama ha ieri incontrato dodici rappresentanti delle più importanti compagnie produttrici di Informatica e tecnologia, fra i presenti anche Steve Jobs di Apple, per pensare un coordinamento del lavoro di questo settore strategico. La nota ufficiale parla di una promozione congiunta del settore dal lato economico, che comprenda investimenti verso obiettivi mirati da parte del settore privato in grado di consentire una crescita economica ed aumentare il numero dei posti di lavoro. L'obiettivo finale è cercare di raddoppiare le esportazioni nell'arco dei prossimi cinque anni. Al di fuori delle dichiarazioni ufficiali appare difficile che, oltre ai temi economici, non siano state trattate le implicazioni politiche delle nuove tecnologie, anche, ma non solo, alla luce dei recenti sviluppi. Obama potrebbe avere anche richiesto una collaborazione più fattiva con l'amministrazione americana, con implicazioni sia militari che di politica estera. La crescente importanza dei social network e sopratutto dei router che li gestiscono ne determina un obiettivo primario non solo da difendere, ma anche da gestire, le applicazioni sono infinite dal controllo all'indirizzo concreto dei movimenti. Inoltre il potere tecnologico, che malgrado l'avanzata delle nuove potenze, è ancora saldamente in mano statunitense, è sempre più vitale nel campo militare e della cyberguerra, settore ormai fondamentale nel campo bellico. Il controllo a distanza e l'intrusione nei sistemi informatici di altri stati è diventato un fattore determinante per il contrasto di operazioni nemiche, come il recente blocco della ricerca nucleare iraniana a causa di un virus, ha dimostrato. La necessità di un coordinamento a livello federale è resa necessaria anche per razionalizzare gli sforzi di imprese spesso in competizione, ma a cui la necessità del momento richiede un'azione comune sotto l'ombrello dello stato.
Ben Alì in coma e Tunisia verso la democrazia
Dopo Mubarak anche Ben Alì sembrerebbe in coma, anche se non esistono dichiarazioni ufficiali, lo stato neurovegetativo sembra diventato la malattia dei dittatori. Ben Alì dovrebbe trovarsi in Arabia Saudita, sotto falso nome e le sue condizioni paiono critiche. Intanto la Tunisia si avvia sulla strada della democratizzazione, anche grazie al ruolo delle forze armate che hanno rifiutato di effettuare la repressione sulla folla. Il governo di transizione ha ricompreso al suo interno i partiti dell'opposizione al regime ed ha promesso nuove elezioni nel giro di sei mesi, insieme all'aministia per i reati politici. Con queste misure la Tunisia si affianca all'Egitto nella transizone democratica ed il processo presenta numerosi parallelismi. L'insurrezione via internet ed il ruolo delle forze armate, garanti della pacificazione nazionale ed il rientro delle forze di opposizione nell'agone politico. La Tunisia ha mostrato più volte orgoglio per avere dato il via alle rivolte nel nord africa ed avere favorito con le sue stesse modalità la rivolta egiziana, paese molto più grande ed anche più importante sullo scacchiere mondiale.
Bahrein e Libia: rivolte nel sangue
Le rivolte nel Bahrein ed in Libia sono accomunate dalla reazione violenta dei regimi, incattiviti dal gran numero di persone scese in piazza. La durezza della repressione si è concretizzata con metodi degni di regimi dittatoriali, quali peraltro sono: uso indiscriminato di armi da fuoco, in Libia pare anche elicotteri da guerra, divieto di accesso ai mezzi di soccorso nei teatri della repressione, in Bahrein ciò ha generato scioperi da parte del personale medico e paramedico. Spesso la forza è stata usata contro persone inermi che manifestavano pacificamente, addirittura in Bahrein alcuni dimostranti sono passati dal sonno alla morte nella piazza delle Perle che occupavano da giorni; in Libia si è fatto uso di cecchini sui tetti dei palazzi che facevano il tiro a segno sui manifestanti. Le notizie frammentarie e rigorosamente non ufficiali, in gran parte provenienti da Twitter attraverso router egiziani, parlano di diversi morti causati da una repressione perticolarmente feroce. E' il segno evidente di particolare debolezza dei regimi, che incapaci di utilizzare una qualsiasi forma di dialogo con oppositori che non dovrebbero nemmeno esistere, scelgono l'unica via che conoscono usando la forza indiscriminatamente. Difficile immaginare lo scenario futuro, come si svilupperanno le due differenti rivolte: in Bahrein è di stanza la marina militare USA, la segretaria di stato Clinton ha dichiarato che il regime non dovrebbe fare uso della forza, la dichiarazione appare di facciata, ma la presenza militare in loco e quindi l'alleanza con il paese del golfo Persico indica che gli USA possono fare pesare il loro peso diplomatico in una possibile attenuazione della repressione, da escludere un intervento militare diretto non certo contemplato dalla politica di Obama. Per la Libia la situazione è ancora più difficile, il regime ha notevoli capacità di chiudersi a riccio e risolvere al suo interno le controversie, non ci sono nazioni che possano esercitare su di essa una qualche pressione da inddurre a più miti consigli Gheddafi. Pur essendo una notizia rilevante che ci siano dei disordini contro il regime, la struttura costruita da Gheddafi è notevolmente costrittiva, non appare possibile che in tempi brevi ci sia una soluzione avversa alla dittatura e le reali possibilità dell'opposizione non paiono avere molte chance.
giovedì 17 febbraio 2011
Gli USA dietro le rivolte?
Secondo il New York Times, quotidiano dell'area liberal, quindi non sospetto di avversione ad Obama, le rivolte dell'area nord africana e delle altre zone, non sono poi giunte così inaspettate. L'amministrazione di Obama, molto attenta alle relazioni internazionali, pareva in effetti essere stata colta in contropiede dal repentino sviluppo delle rivolte e qualche accusa era anche stata mossa per questa impreparazione; in realtà, secondo il quotidiano newyorkese, fin da agosto scorso venivano studiate le possibilità di ribellione in diversi paesi, tra cui quelli dove ora la situazione politica è in subbuglio. La sensazione è che Obama abbia voluto prevenire possibili cambi di potere, grazie a situazioni comunque pericolanti su cui l'influenza USA non era rilevante, avversi agli Stati Uniti ed alla pace. Questo studio pare un investimento politico di Obama, che nel momento economico attuale, non può imbarcarsi in nuovi conflitti regionali, la cui durata non certamente prevedibile. Il caso egiziano è emblematico di questo indirizzo: un dittatore ormai inviso alla popolazione, a capo di uno stato dove regna la corruzione e con la povertà che avanza, ma anche a capo dello stato al confine con Israele e nel cui territorio passa una fondamentale via di comunicazione per l'Europa. Se una nazione con caratteristiche del genere diventa preda del fondamentalismo, l'apertura di un fronte militare è quasi scontata. Ma gli interessi americani riguardano anche lo Yemen, riserva di miliziani integralisti, la Giordania, anch'essa con una posizione chiave con Israele ed il Bharein dove, invece l'interesse appare di natura energetica. La ricostruzione fatta dal New York Times sembra, almeno verosimile ed in sintonia con la politica intrapresa da Obama che predilige praticare una tattica preventiva anzichè successiva come preferiva Bush. Può avere provocato le rivolte l'amministazione USA? In effetti le capacità dell'apparato statunitense consentono, grazie a conoscenze approfondite e vaste risorse di provocare i moti di piazza che si sono verificati, ma occorre dire che le situazioni dei singoli paesi, seppure nelle loro differenze, erano mature per recepire eventuali sollecitazioni anche provenienti dall'esterno. Tuttavia, pur rientrando nelle normali pratiche di strategia politica, anche se non dette, se questa indiscrezione fosse vera o comunque degna, com è, di essere possibilmente vera, quello che è destinato ad aprirsi, sarà un periodo difficile per la diplomazia americana, destinata a smentire, come in altri periodi storici, l'ingerenza negli affari interni di altre nazioni.
Sud Sudan: situazione in attesa della proclamazione ufficiale
Nonostante il referendum, svoltosi in maniera pacifica, si sia risolto praticamente all'unanimità, il Sud del Sudan continua ad essere travagliato dalla violenza. Nella zona petrolifera di Fangak, teatro di scontri tra milizie avversarie sono stati circa 200 i morti nell'ultima settimana. Pagan Amun, segretario generale del Movimento di liberazione del popolo sudanese, partito politico nato dalle ceneri dell'esercito di liberazione del Sud Sudan, ha dichiarato che la responsabilità dei caduti, in gran parte civili inermi, è da ascrivere alle milizie di George Athor, che ha lanciato una serie di attacchi militari per portare instabilità dopo ess ere stato sconfitto alle elezioni dello scorso anno per la carica di governatore di Jongley. L'atto terroristico è solo l'ultimo di una serie di attentati ed attacchi reciproci tra le milizie di Athor ed Amun avvenute dopo la firma della tregua recente ma subito violata con accuse reciproche di violazione da ambo le parti. La situazione Sud Sudanese continua così ad essere difficile ed oltre alle questioni interne, continua a tenere banco il problema del confine con il Sudan, con la frontiera che per un quinto risulta essere ancora oggetto di contestazione e trattativa. Ma il nodo centrale resta il petrolio, l'attuale accordo con Khartoum prevede la ripartizione degli utili al 50% tra i due paesi, ma con la proclamazione ufficiale del Sud Sudan, che sarà il 54° stato del continente africano, il nuovo paese intende avere la totalità dei guadagni come proprio appannaggio, pagando le quote relative ai diritti di utilizzo degli oleodotti di Khartoum, indispensabili per raggiungere il mercato internazionale. Tuttavia i dirigenti Sud Sudanesi sono ottimisti per la risoluzione delle problematiche sul tappeto e si preparano, con tutto ilpaese, a festeggiare il 9 luglio, la proclamazione ufficiale dell'indipendenza, confermando il nome previsto: Sud Sudan, preferito a Repubblica del Nilo o a Kush, nome di un antico e leggendario stato africano.
Internet luogo di lotta politica
La protesta libica corre sul filo di internet ed il colonnello Gheddafi denuncia i social network come minaccia imperialista. Sarebbe singolare se la dittatura del leader libico cadesse per le comunicazioni che avvengono attraverso i router di fb, dopo tutti gli sforzi fatti in quarant'anni per bloccare tutte le voci contrarie al regime. L'aspetto informatico sta assumendo l'importanza di un'arma strategica di grande portata in tutte le proteste che si stanno espandendo a macchia d'olio dal nord africa. Non è stato infrequente che il regime di turno oggetto di protesta bloccasse le comunicazioni informatiche e degli sms. La diffusione dell'alfabetizzazione informatica rappresenta una rivoluzione nell'arena della lotta per la libertà, consentendo lo scambio di notizie e la velocità degli appelli per cortei ed adunate. Quello che sorprende è che i regimi non abbiano intuito la portata e la pericolositàdei nuovi mezzi di comunicazione. E' come se, arroccati nella difesa del loro status quo, i dittatori abbiano considerato i loro sudditi incapaci di evolversi perchè tenuti nella completa ignoranza; ma se questo ha funzionato per le generazioni precedenti, cui peraltro bastava bloccare la libertà di stampa, vietare i libri scomodi e passare in tv solo programmi consenzienti, non è stato sufficiente per le ultime generazioni, alle quali l'accesso ai mezzi informatici, grazie al basso costo ed al facile utilizzo, ha consentito di elaborare proprie valutazioni al di fuori dei paletti messi dai regimi. L'accesso a dati ed idee ha permesso la costruzione di una nuova coscienza civile e di una autocoscienza di popolo, una identità condivisa al di fuori dei valori imposti dall'alto. Fino adesso questo aspetto della rete non è stato indagato, ma ora esistono casi pratici destinati a divenire casi di scuola, alla frontiera del guadagno economico si affianca il guadagno politico come beneficio indotto per la democrazia e costo secco per i regimi dittatoriali.
mercoledì 16 febbraio 2011
La situazione belga monito per l'Europa
La situazione belga, il paese è senza governo da otto mesi, rischia di portare alla dissoluzione del paese. Il mancato accordo è dovuto alla divisione regionale tra la parte fiamminga con quella vallone, la soluzione della crisi anzichè essere per divergenze tra tradizionali parti politiche, destra-sinistra o conservatori-progressisti, è impedita da basi territoriali e di identità culturale e linguistica. L'ostacolo appare ancora più insormontabile proprio per la radicalizzazione delle differenze, che vertono su queste basi. Il paese è bloccato da una impasse paralizzante e vive sulla amministrazione corrente senza l'ombra di una programmazione che permetta di intraprendere una qualche azione per individuare degli obiettivi. Nel continente europeo le spinte autonomiste sono state il fenomeno, che a partire dallo scorso decennio ed in alcuni casi anche prima, hanno contraddistinto la scena politica con la nascita di nuovi partiti e movimenti che hanno eroso consensi ai partiti tradizionali. La disgregazione degli stati, a parte il caso della separazione consensuale della Cecoslovacchia tra Repubblica Ceca e Slovacchia, unico caso di repubblica federale del blocco sovietico, è stata una costante dell'area balcanica, dove la separazione è stata determinata da atti violenti mirati contro interi gruppi etnici; ma si trattava di popolazioni tenute insieme in modo artificiale e forzoso da una guida carismatica, Tito, venuta a mancare la quale è mancato il collante che ne consentiva l'assemblaggio. Per le altre parti d'Europa la spinta dei movimenti autonomistici si è concretizzata nella lotta per la maggiore autonomia per i territori rappresentati, ma non vi sono state scissioni di parti di nazioni. Il caso Belga va invece controcorrente, la separazione rischia di avvenire per consunzione politica, in assenza di accordo per governare il paese, la scissione può diventare la strada obbligata per assicurare il proseguimento di una vita politico amministrativa normale. E' chiaro che un caso del genere nel cuore dell'Europa e sopratutto delle istituzioni europee risulta clamoroso. La situazione disorienta molto la popolazione, tanto che molti cittadini, sopratutto della provincia a sud richiede la cittadinanza lussemburghese in forza di una legge del Granducato esistente dal gennaio 2009. La preferenza dei cittadini belgi è giustificata da uno stato che presenta più sicurezze e stipendi più alti e garantisce un livello più alto dei servizi. Il costante aumento delle domande non preoccupa per ora il Lussemburgo che non vede pericoli di belgizzazione della sua nazione, tuttavia il segnale è forte e chiaro e vale per tutta l'europa: la mancata risoluzione dei problemi porta a soluzioni talvolta estreme da parte degli stessi cittadini.
Rivolte ed emergenze profughi: le carenze operative della UE
Lo sviluppo del fronte delle crisi si allarga: dopo la chiusura senza soluzione, per adesso, di quella egiziana, anche Bahrein e Libia entrano nel club; inoltre nello Yemen, in Iran, Algeria, Tunisia ed anche Marocco le manifestazioni si succedono. I fattori scatenanti sono stati individuati nell'eccessivo aumento dei generi alimentari, nell'aumento della povertà, nell'eccessiva corruzione e nella presa di coscenza della mancanza dei diritti civili. I regimi in carica, quando non sono caduti, hanno avviato severe repressioni sui dimostranti e sulla popolazione in generale, già fiaccata da situazioni enedemiche di povertà, aggravate dalla congiuntura economica internazionale. Ciò sta creando un nuovo esodo verso le coste italiane ed europee, non a caso il ministro degli interni della repubblica italiana ha parlato di situazione analoga a quella conseguente alla caduta del muro di Berlino. Siamo di fronte ad un effetto a catena determinato dalla sorpresa con cui le rivolte stanno accadendo; l'impreparazione generale dell'occidente ed in particolare dell'Unione Europea, ma anche dell'Italia, in quanto stato più prossimo al nord africa, di fronte allo sviluppo della situazione rischia di generare condizioni talmente gravi da essere difficilmente risolte. Aveva già sorpreso come le rivolte erano accadute in modo così inaspettato per la diplomazia, si era assistito a governi sbigottiti per il succedersi di eventi totalmente inattesi, che cercavano di comporre la situazione con dichiarazioni di facciata a metà tra il regime in carica ed i manifestanti nell'attesa della direzione che prendevano le rivolte. Ancora peggio trovarsi impreparati di fronte ad un'emergenza che di fatto risultava annunciata. Nel momento delle manifestazioni di piazza è possibile che i controlli siano stati allentati o che la determinazione dei migranti sia cresciuta, nel mezzo le organizzazioni criminali hanno individuato occasioni di guadagno ulteriore ed hanno potenziato i loro mezzi, tutte cause conclamate ma che non era difficile immaginare. Da aggiungere le difficoltà di comunicazione e di coordinamento tra organismi centrali della UE e singoli stati, nella fattispecie l'Italia, hanno causato la situazione attuale. Impossibile tornare indietro, tuttavia il caso deve servire da lezione: la UE deve essere più presente, anche con presidi fisici nelle zone calde, deve cioè, avere un maggiore coinvolgimento operativo e non solo legislativo, devono essere migliorate e velocizzate le procedure operative per situazioni di emergenza, deve essere potenziata e forse ripensata l'intelligence per diventare capace di elaborare previsioni efficenti sulla base delle quali costruire strategie anticipate ed infine i singoli stati devono migliorare la collaborazione con la UE instaurando comunicazioni continue sulle situazioni di crisi.
martedì 15 febbraio 2011
I Fratelli Musulmani richiedono il riconoscimento ufficiale
La mossa ufficiale è stata avanzata, come era atteso i Fratelli Musulmani chiedono il riconoscimento come partito politico per partecipare alla costruzione del nuovo Egitto che nascerà dalla caduta di Mubarak. Il movimento presente sulla scena da diversi anni era stato messo fuori legge già da Nasser per la sua visione confessionale della società. Nelle manifestazioni di piazza il supporto logistico ai manifestanti è stato concreto, con aiuti in alimenti e medicinali. Le richieste del movimento continuano chiedendo che il processo di transizione, seppur graduale, deve avere inizio il prima possibile per portare la nazione egiziana fuori dalla situazione di stallo politico ed economico attuale. La visioned ei Fratelli Musulmani non è unita, ma è composta di tre correnti che prevedono l'applicazione integrale della sharia, la creazione di uno stato islamico confessionale ed infine la collocazione partitica che porti avanti le idee islamiche nel quadro di uno stato laico. L'ultima corrente se pur minoritaria, è quella su cui conta maggiormente la parte della società egiziana che si dichiara laica, per dialogare con il movimento islamico. D'altronde le dichiarazioni ufficiali dei Fratelli Musulmani sembrano andare in questa direzione auspicando la creazione di uno stato democratico e civile in cui portare l'islamismo nel rispetto di ogni credo religioso e politico.
Cina: seconda economia del mondo
La Cina si avvicina al vertice dell’economia mondiale insediandosi al secondo posto, raggiunto grazie al sorpasso sul Giappone, che da ora è la terza economia mondiale. Non che per il paese del sol levante la situazione non sia positiva, tuttavia il boom dell’industria manifatturiera cinese è stata la ragione che ha determinato il nuovo podio. Nonostante il passaggio al numero tre in classifica il Giappone vede di buon occhio e considera di buon auspicio l’incremento cinese, anche per le sostanziose implicazioni nella regione del sud est asiatico, che stimolata dalla locomotiva di Pechino si candida ad essere una zona chiave per l’economia mondiale. I numeri cinesi però non sono tutti positivi la redistribuzione del reddito presenta elevate discrepanze e la qualità del rispetto dei diritti dei lavoratori è questione quotidiana di dissidi interni. A livello statale l’economia cinese ha valori altissimi, grande produttività, elevate riserve liquide e basso rapporto deficit/PIl, tuttavia se queste condizioni economiche restano nell’ambito dei livelli generali dello stato senza scendere alla popolazione appaiono soltanto fredde statistiche e danno la misura della stortura del sistema che si è venuto a creare. I successi economici non bastano a diventare una nazione con peso politico internazionale, in questo senso la Cina è ancora una grande incompiuta: senza che sia intrapresa una riforma sul tema dei diritti civili e politici, il precorso di trasformazione del paese resta troncato a metà. D’altro canto i dirigenti cinesi negli ultimi anni si sono preoccupati di trasformare l’economia sfruttando il gran numero di braccia a disposizione, puntando alla massima resa ottenuta senza l’applicazione, anzi stroncandola, dei diritti sociali. I primi scioperi cinesi, di cui si da poca o nulla pubblicità, segnalano che si è passati oltre alla prima fase della industrializzazione selvaggia; anche nella repubblica popolare si sta sviluppando un movimento che ha avuto il suo culmine con la consegna del premio Nobel per la pace ad un dissidente cinese. Nonostante l’aspetto granitico del sistema le prime crepe si stanno aprendo con le prime concessioni sulla legislazione del diritto del lavoro, specialmente in tema di sicurezza. Non è ancora molto ma il percorso pare inesorabile.
Afghanistan, Pakistan ed India: il punto della situazione
I delicati equlibri al confine tra Afghanistan e Pakistan sono oggetto di sviluppi giudicati importanti dagli analisti internazionali. La situazione interna ad Islamabad è in continua evoluzione, dopo le dimissioni del governo un nuovo esecutivo ha già prestato giuramento, ma il segnale è è di forte instabilità ed il paese appare sempre più in preda a divisioni profonde. La situazione preoccupa gli Stati Uniti, che hanno focalizzato la lotta al terrorismo lungo la frontiera tra Afghanistan e Pakistan, regione dove trovano rifugio le bande dei Talebani. Inoltre le relazioni tra Pakistan ed USA, che sono da tempo tese per l'atteggiamento giudicato ambiguo dei pakistani, sono in questi giorni aggravate dal caso di un diplomatico statunitense imprigionato per avere ucciso due cittadini pakistani (l'accusato afferma di avere agito per legittima difesa). Intanto gli USA in Afghanistan continuano, oltre a quello militare, il lavoro diplomatico congiunto con il governo di Karzai per ridurre la minaccia talebana, in vista del ritiro definitivo delle truppe previsto per il 2015. La situazione afghana è lontana da essere risolta, tanto che una possibilità è di mantenere basi permanenti per affiancare l'esercito nazionale. I talebani dal canto loro pongono come condizione per l'avvio dei colloqui il ritiro immediato delle truppe. La situazione è di stallo ma nello scenario irrompe l'India, che teme di essere coinvolta all'interno del proprio territorio da uno sconfinamento del fenomeno delle milizie talebane, favorite da possibili accordi da cui potrebbero trarre vantaggi. Per prevenire questo pericolo l'India lancia una strategia diplomatica che prevede trattative con il Pakistan, tradizionale avversario. La ripresa dei rapporti tra i due stati è una nota positiva nella situazione della regione ed è vista molto favorevolmente dagli Stati Uniti, che sperano di avere benefici indiretti dalla ripresa delle relazioni in un clima di distensione a distanza di due anni dagli attentati di Mumbai, dietro i quali l'India aveva visto la mano dei servizi pakistani.
lunedì 14 febbraio 2011
Alcune riflessioni sulla transizione egiziana
Le condizioni di salute di Mubarak si aggravano, secondo alcuni bollettini medici il dittatore egiziano sarebbe in coma. Se la notizia fosse vera si potrebbero interpretare i fatti degli ultimi giorni alla luce ed in funzione proprio delle condizioni mediche di Mubarak. Il capo di stato dell'Egitto, è risaputo, è affetto da una forma di neoplasia e la tarda età non ne facilita il recupero. Prima dei moti di piazza Taharir il successore designato era il figlio, tuttavia il regime non era compatto nell'accettare questa successione. Si può ipotizzare che la ragione vera della transizione sia stata l'aggravarsi delle condizioni mediche del capo supremo e non i moti di piazza? Ergo i moti di piazza sono stati indirizzati perchè la testa del regime non comandava più tutto l'apparato statale? L'Egitto è sempre stato un paese dal controllo pressante sulla vita dei cittadini e sugli oppositori, riflettendo sui recenti avvenimenti pare difficile che il malcontento, che esisteva in maniera consistente per le condizioni politiche ed economiche, sia esploso in maniera autonoma e senza imbeccata alcuna. Del resto il ruolo dell'esercito è stato determinante nella riuscita dei moti di piazza e nella caduta del regime, non vedere un qualche disegno dietro gli avvenimenti che si sono succeduti a velocità sostenuta sembra francamente improbabile. Si può ragionevolmente pensare che la soluzione attuale sia stata pianificata per evitare uno sbocco non gradito a settori dell'establishment egiziano, un passaggio quasi dolce verso un potere differente da quello di Mubarak o del suo entourage. In sostanza la protesta, che ripetiamo covava sotto la cenere, è stata innescata ad orologeria contro un potere inviso non solo al popolo. E' chiaro che l'indiziato principale sono le forze armate che ora si trovano in mano le chiavi per gestire il processo di transizione. Attualmente, quindi i militari sono il potere in Egitto e si sono ritrovati in mano questo potere in modo automatico senza colpo ferire, un poco troppo casuale per essere vero.
domenica 13 febbraio 2011
Egitto: esercito ed incognite della transizione
La pace del mondo e’ in mano alle forze armate egiziane; e’ questo che la transizione di potere da Mubarak ha di fatto stabilito: consegnare il potere al paese e con esso l’accesso ad Israele ed il rispetto degli accordi di Camp David ai detentori del potere militare egiziano. Le forze armate egiziane hanno rappresentato sotto il regime di Mubarak un ceto influente che ha goduto di parecchi favori, tuttavia il grado di collusione con il regime caduto non ha consentito un suo mantenimento al potere, troppo forte la spinta popolare, troppo poco conveniente tenere in vita una dittatura, che con l’avanzare dell’eta’ del suo leader rischiava una caduta ancor piu’ rovinosa con conseguenze nefaste per l’apparato militare. Meglio un ragionamento da realpolitik: assicurare un passaggio indolore restandone dietro come garanti. Per l’occidente che l’esercito egiziano abbia in mano le chiavi della transizione e’ un’assicurazione: la struttura portante sia dei vertici che dei livelli inferiori e’ di matrice laica e soprattutto riconoscente agli USA per il contributo annuo in contante che consente il rinnovo degli armamenti. Non esiste, quindi il pericolo di una creazione, perlomeno immediata, di uno stato anti occidentale. Cio’ per il momento placa in qualche modo anche Israele, anche se sullo sfondo il rischio della riapertura del valico che collega l’Egitto alla striscia di Gaza, richiesta proveniente da diverse parti, tra cui i Fratelli Musulmani, ha gia’ messo in stato di allerta le forze di sicurezza di Tel Aviv. Qualche dubbio in piu’ suscita in diversi osservatori la reale capacita’ della gestione della transizione verso la democrazia di un apparato che ha poca confidenza con essa; la struttura militare egiziana ha attraversato diverse fasi, dalla caduta del regno, all’alleanza con l’URSS, fino alla svolta atlantica con la sottoscrizione degli accordi di Camp David. In tutti questi passaggi le forze armate hanno sempre garantito il loro appoggio al regime in carica con il tacito assenso dato grazie alle guarentigie riconosciute, ma mai sono state un soggetto con iniziative proprie e con una autonoma direzione; hanno certo contato molto nell’establishment egiziano, ma su di un piano subalterno. Ora hanno in mano il pallino del gioco senza alcuna autorita’ politica che gli copra le spalle, sono anzi loro la principale autorita’ politica. Questo cambio di prospettiva presenta molte incognite, prima fra tutte la reale capacita’ organizzativa della gestione della transizione. Finita l’euforia della festa si dovranno mettere d’accordo le varie anime della piazza ed arrivare alle elezioni e dopo ci sara’ da valutare il gradimento del vincitore. Non solo, oltre al fronte interno, occorrera’ gestire anche il fronte internazionale, la posizione geografica dell’Egitto al confine con Israele porra’ il paese, in questa fase di incertezza, all’attenzione delle nazioni interessate, con richieste di favori e scambi di relazioni che occorrera’ gestire nella maniera migliore e possibilmente senza sbilanciarsi senza la previsione di chi uscira’ vincitore. Per il momento la soluzione e’ comunque di gran lunga la migliore, in attesa degli eventi.
sabato 12 febbraio 2011
L'economia causa scatenante delle rivoluzioni?
Anche in Bolivia, paese non sottoposto a dittatura, il popolo protesta nelle strade, la causa è l'aumento del costo della vita e del trasporto pubblico. La protesta ha sorpreso l'opinione pubblica perchè se è vero che gli aumenti sono consistenti, il presidente Morales ha sempre riscosso un buon apprezzamento nel paese, ma ora si trova ad affrontare la prima vera crisi con la sua popolazione. Il fattore economicoè sempre più la causa scatenante delle rivolte popolari sia che lo stato sia una dittatura che una democrazia. In nord africa la popolazione ha sopportato anni di dittatura ma per arrivare a ribellarsi sono dovute intervenire cause di tipo economico. La recessione, si può dire, che ha avutoun effetto rivoluzionario facendo oltrepassare la misura della sopportazione. Può esistere un effetto domino di reazione alla congiutura economica giunta alla mancata capacità di gestione della crisi da parte dei governi anche in paesi dove non vigono regimi dittatoriali? Ci può essere una ribellione, anche non in forme violente, nei paesi più ricchi ma che comunque patiscono una crisi economica anche per ripartizioni del reddito poco eque? La questione non è di poco conto, la stabilità politica è ormai un elemento assodato nelle analisi economiche e d'altronde le crisi creano impasse economici di portata rilevante, ad esempio per l'Egitto si è parlato di una perdita di 10 milioni di euro al giorno. Tuttavia azzardando una previsione i paesi che appaiono a maggiore rischio sono quelli dove i beni primari costituiscono la base essenziale del consumo: un aumento consistente determina erosione di una parte del reddito. Sono nazioni che sono rimaste in mezzo al guado dello sviluppo o che soffrono di endemiche situazioni di difficoltà. L'occidente per il momento, nonostante un abbassamento del tenore di vita generalizzato è ancora dotato di strumenti e riserve che consentono di mantenere a livello di guardia il controllo dello scontento. In realtà la condizione economica è si causa scatenante delle rivolte ma da sola non basta, la situazione politica e del trattamento dei diritti è il vero retroterra delle rivoluzioni specialmente nel mondo globalizzato che gode di accesso alle informazioni.
Il cotone esempio di risorsa che scarseggia
Il cotone raggiunge il record del prezzo dal 1860, il periodo della guerra civile americana. Gli USA sono il maggiore esportatore di cotone del pianeta ed hanno venduto l'intero raccolto dello scorso anno, intaccando le scorte. L'aumento del prezzo del cotone è salito del 150% dall'inizio del 2010 in concomitanza con la ripresa della domanda per il tessile. Le cause dell'aumento del prezzo non sono di natura metereologica ma è dovuto essenzialmente a due fattori: le restrizioni indiane all'export e la elevata domanda proveniente dal mercato cines La disponibilità di valuta di Pechino non ferma la corsa all'acquisto nonostante il prezzo elevato per mantenere alto il livello di produzione, ciò andrà sicuramente ad incidere sui prezzi finali dei prodotti finali contribuendo ad innalzare il fenomeno inflattivo. L'esempio del cotone e della sua filiera è l'ennesima prova della trasformazione del mercato mondiale con l'immissione dei mercati emergenti sui beni di consumo. La reazione del sistema mondiale della produzione e del consumo non è stato di autoregolamentazione, nonostante l'ingresso di nuovi soggetti produttori e l'allargamento del numero dei consumatori la risposta a livello mondo non è stata elastica, è rimasta sostanzialmente ancorata a prassi e metodi anteriori allo stravolgimento mondiale, senza razionalizzare le materie prime e costruire un sistema di consumi sostenibile e condiviso. E' chiaro che i paesi in via di sviluppo non possono gradire ne condividere una soluzione del genere perchè si sono affacciati al largo consumo da poco tempo, tuttavia le materie prime, non solo il cotone, non sono infinite e ripensare la catena produttiva e di consumo non è più procrastinabile. Ricercare e praticare una soluzione a livello generale è molto difficile però bisogna conciliare le esigenze del pianeta con quelle dei produttori, dei consumatori e del ciclo economico generale; le variabili in gioco sono diverse e difficilmente conciliabili, tuttavia è urgente razionalizzare le risorse ripensando a livello globale i tempi ed i modi della produzione: sarà la sfida decisiva per la vivibilità del pianeta e per la sua sostenibilità.
venerdì 11 febbraio 2011
Iran e crisi nordafricane
Per il trentaduesimo anniversario della rivoluzione khomeinista, Ahmadineyad ha arringato una folla numerosa riunitasi per festeggiare l'avvenimento. Il nucleo centrale e di maggior rilevanza politica del capo del governo di Teheran è stato incentrato sulle rivoluzioni che stanno avvenendo in Nord Africa. Ahmadineyad ha paragonato le rivoluzioni in atto a quello avvenuto nel 1979 in Iran, con il rovesciamento di un dittatore, lo Scià di Persia, appoggiato dagli USA ad opera di un movimento teocratico. L'augurio del dittatore iraniano è stato che i popoli nordafricani possano decidere del loro futuro, meglio se va nella direzione della costruzione di stati islamici, senza influenze occidentali in special modo di USA ed Israele. Il discorso è proseguito con la glorificazione della lotta iraniana contro l'ingiustizia mondiale perpetrata da USA e sionisti. Al di là delle dichiarazioni di facciata che incedono con un ritmo da disco rotto, l'intenzione degli iraniani è di trarre un vantaggio politico nella regione nordafricana, dove conta sugli eventi in atto affinchè l'influenza americana ne esca diminuita. Quello che teme l'occidente sarebbe una vittoria per l'Iran, l'Egitto è stato fino ad ora il maggior paese arabo a relazionarsi con Israele e le relazioni sono tuttora ottime, inoltre essendo confinante con Tel Aviv ha permesso ad Israele di avere una linea di confine sicura, di cui non occuparsi in senso militare. Se questa situazione venisse capovolta Israele potrebbe avere una repubblica islamica al confine con l'Iran come alleato. In definitiva è questo che Ahmadineyad si augura ed auspica, ma una cosa sono le dichiarazioni nel giorno di festa nazionale un'altra è la realtà, seppure gli sviluppi sono incerti pare difficile che il quadro finale vada nella direzione che preferisce Teheran, troppo importante la stabilità della regione, troppo strategica la posizione dell'Egitto sullo scacchiere mondiale. Tuttavia non è credibile che Teheran si limiti alle dichiarazioni, intanto il discorso non è stato fatto solo per gli iraniani, è indirizzato a tutti i potenziali fautori della creazione di una repubblica islamica presenti nel Nord Africa ed è stato fatto con lo scopo di riscaldare gli animi in un momento particolarmente delicato, inoltre intende minacciare USA ed Israele manifestando apertamente l'interesse per la partita. L'ingerenza iraniana risulta oltremodo pericolosa se collegata a tutte le minacce proclamate contro Tel Aviv ed il concreto pericolo di uno scoppio bellico tra i due paesi. Innervosire ora Israele significa avvicinarsi pericolosamente con una torcia accesa ad una polveriera. Già nei mesi scorsi l'esercito israeliano insieme a quello statunitense hanno aumentato l'armamento, anche pesante, lungo le frontiere israeliane, ed è risaputo che un'opzione contemplata come possibile dallo stato maggiore di Tel Aviv è l'attacco militare diretto contro l'Iran mediante bombardamenti aerei, in prima istanza acui seguirebbero operazioni di terra. Potrebbe essere un'escalation dagli esiti imprevedibili che la risoluzione della crisi egiziana potrebbe indirizzare in un senso o nell'altro.
Pirateria somala: problema per il petrolio del mondo
L'associazione dei proprietari di petroliere Intertanko denuncia il grave pericolo presente sulle rotte del greggio, che oltre a mettere a rischio equipaggi, navi e carico, può compromettere l'economia occidentale ed in special modo quella degli USA per la mancata consegna del petrolio. Davanti alle coste somale transita più dell 40% del fabbisogno di greggio per l'intero pianeta ed il valore di ogni singolo carico varia dai 130 ai 150 milioni di euro; i riscatti vengono fissati nella misura anche di 6-7 milioni di euro. Sono cifre enormi che vanno motiplicate per la somma dei rapimenti, molti dei quali non vengono denunciati per accelerare le procedure di rilascio. La questione della pirateria somala va analizzata sotto diverse luci, prima fra tutte sotto il profilo della capacità organizzativa che comprende un dispiegamento di mezzi e di uomini non indifferente, che a monte deve per forza di cose, avere una potenza articolata su più livelli. Sicuramente è dotata di una intelligence efficiente che fa uso di strumenti all'avanguardia e gode di una rete di informatori molto specializzata sui movimenti navali. La situazione somala, cioè dello stato Somalia, è il fattore più favorevole alla pirateria giacchè la forte instabilità dell'istituzione statale permette di creare vuoti di potere in ampie porzioni del territorio dove vanno ad insediarsi le basi fisiche dei sequestratori di petroliere. Sull'elemento territoriale ed istituzionale va ad inseririsi l'elemento religioso che si caratterizza per l'elevato grado di integralismo, a questo proposito va ricordato che la Somalia nel periodo 2004-06 è stata governata dalle Corti Islamiche, formazioni di estremisti religiosi finanziati da Iran e Libia, che, pur sconfitte dall'intervento etiope nel 2007, hanno mantenuto importante influenza sul tessuto sociale del paese. La capacità organizzativa della pirateria somala parte probabilmente anche dai finanziamenti ricevuti dalle corti islamiche ed è certamente possibile che ne sia una sua emanazione. In relazione a questo la pirateria diretta contro le petroliere può essere concretamente inquadrata al di fuori di un mero fenomeno criminale, ma si può leggere anche in una strategia terroristica contro l'occidente, coniugando l'aspetto della resa economica con l'atto contrario al nemico dell'islam. Se il fenomeno, che come si è visto ha già una dimensione considerevole, dovesse aumentare la possibilità di conseguenti fenomeni inflattivi, dovuti al blocco ed al rallentamento del trasporto del greggio, potrebbe avere effetti deleteri sull'economia occidentale. D'altra parte praticare rotte alternative o che prevedano una navigazione d'alto bordo, anzichè quella attuale che rasenta le coste somale, determinerebbe comunque un aggravio consistente al costo del trasporto con il conseguente innalzamento del prezzo del greggio. La questione deve essere risolta con mezzi militari di contrasto e sopratutto con un'azione coordinata e condivisa, la presenza costante delle navi militari risolve soltanto la situazione contingente ma non mette la parola fine al fenomeno. Senza un intervento militare delle Nazioni Unite sul terreno somalo, dove si trovano le basi, la pirateria non è battibile.
giovedì 10 febbraio 2011
Scende la produzione del grano: mondo in allarme
La grande siccità cinese, giunte agli incendi avvenuti nella scorsa estate e le inondazioni in Australia possono determinare un grande pericolo per il mondo intero: l'aumento del prezzo del grano. La produzione cinese è la prima mondiale ed è per soddisfare l'immenso mercato interno, ed è pari al doppio della produzione americana e russa. Non potere soddisfare un mercato così grande determinerà per la Cina la necessità di rivolgersi al mercato estero che, giocoforza dovrà aumentare il prezzo per le concomitanti ragioni ambientali che ne hanno ridotto la produzione. Non che la cosa preoccupi la Cina dotata di risorse valutarie enormi capaci di soddisfare qualunque richiesta, ma le ripercussioni saranno rilevanti sia per i paesi ricchi, che vedranno aumentare l'inflazione per tutti i prodotti collegati alla materia prima e che sono una parte del paniere alimentare della loro dieta, sia per i paesi poveri che non avranno le risorse finanziarie per potere acquistare quantitativi soddisfacenti per le loro esigenze; in questo caso si va incontro ad un pericolo concreto di nuove carestie e nelle migliori ipotesi ad un aumento di casi di malnutrizione con tutti gli annessi collegati. La FAO giustamente lancia l'allarme, di cui, oltre alle implicazioni umanitarie devono considerarsi anche quelle politiche che potrebbero derivare sia dal pericolo delle carestie che dal pericolo dell'inflazione. Tuttavia alcuni analisti gettano acqua sul fuoco, la Cina dispone di grandi riserve di grano, che se gettate sul mercato interno avrebbero la funzione di calmierare i prezzi anche in ambito internazionale. La questione è comunque spinosa, gli effetti del clima stanno sempre più influenzando l'andamento della produzione agricola, mentre alcuni stati, specialmente alcuni dei più importanti in via di sviluppo, continuano a restare sulle loro posizioni circa l'inquinamento derivante dalle emissioni gassose. L'attenzione della diplomazia internazionale, specie quella appartenente alle organizzazioni sovranazionali deve maggiormente focalizzarsi su criteri ed obiettivi che riguardano lo sviluppo sostenibile creando forme di compensazione condivise per gli stati che si adoperano per la riduzione dell'inquinamento.
L'interruzione dei negoziati militari coreani
Blocco ai negoziati militari tra le due Coree; i rappresentanti della parte Nord del paese abbandonano il tavolo delle trattative accusando la Corea del Sud di non volere realmente il miglioramento delle relazioni. I negoziati militari parevano aprire uno spiraglio per la definizione positiva degli incidenti bellici e diplomatici, chiudendo la pericolosa vertenza. Seul ha di fatto bloccato il negoziato con la richiesta che il Nord riconosca la propria responsabilità circa gli attacchi militari che hanno determinato la morte di 50 civili sudcoreani oltra all'affondamento di una corvetta. Pyongyang rifiuta di ammettere la propria responsabilità restando ancorata al fatto che l'incidente è stato dovuto allo sconfinamento dei sudcoreani. Dopo un periodo di tensione diplomatica le acque parevano essersi calmate e questi negoziati militari parevano di buon auspicio, ora l'interruzione pone il problema di ripartire da zero. Il pericolo è che dopo un periodo di relativa calma la tensione torni a salire nella regione creando un nuovo focolaio di tensione nello scenario internazionale in un'area dove è presente il pericolo atomico. Forse proprio per scongiurare questa situazione un inviato sudcoreano per la questione nucleare è da oggi a Pechino per colloqui con il governo cinese sulle problematiche della penisola coreana.
mercoledì 9 febbraio 2011
USA: il Patriot Act è decaduto
Gli USA provano a lasciarsi alle spalle l'11 settembre.; la camera dei rappresentanti ha respinto un provvedimento che prorogava la scadenza del Patriot Act, legge promulgata dall'amministrazione Bush dopo l'attentato alle torri gemelle. La disposizione legale conferiva poteri eccezionali alle forze di sicurezza e di intelligence e violava la privacy dei cittadini consentendo intercettazioni e controlli senza le necessarie autorizzazioni inoltre consentiva l'accesso alle banche dati delle aziende. La Casa Bianca sperava di potere estendere il provvedimento fino al 2013 per rendere ancora più efficace la lotta al terrorismo, tuttavia nello spirito della politica di Obama aveva dichiarato anticipatamente di non opporsi ad ogni decisione presa dall'aula. La decisione è maturata in uno spirito bipartisan grazie al voto sia di democratici che di repubblicani. Proprio per questa ragione pare evidente l'intenzione degli americani di voltare pagina e di provare a distaccarsi dal regime della paura instaurato dall'11 settembre. Può, cioè, aprirsi un'epoca nuova inaugurata proprio dalla decisione della Camera dei Rappresentanti, dove si può ridiscutere tutta la politica estera americana e l'impegno militare che hanno contraddistinto il decennio scorso. E' chiaro che il processo non sarà rapido ma la direzione imboccata sembra proprio questa, del resto già precedentemente la politica di Obama, all'azione militare ha affiancato in maniera consistente politiche di sostegno e cooperazione capaci di coinvolgere la popolazione di quei paesi dove l'esercito USA opera. Già questo consisteva in una sterzata significativa alla mera operatività bellica. Inoltre il rafforzamento e potenziamento dei sistemi di intelligence a discapito del minor uso della forza ha di fatto già indicato la preferenza per una azione preventiva piuttosto che successiva della gestione delle emergenze problematiche. La riorganizzazione della visione del modo dell'affrontare i problemi, che appare non meno lungimirante, in definitiva aveva già messo le basi per la soluzione adottata dalla Camera: la nuova consapevolezza degli USA non poteva non tenere conto delle istanze provenienti dai bisogni del popolo americano.
Al Qaeda si esprime sull'Egitto
La tanto temuta entrata in campo di Al Qaeda sulla questione egiziana è è avvenuta tramite la dichiarazione della sezione iraqena che ha formalmente incitato alla guerra santa i rivoltosi egiziani. Al Qaeda è tradizionalmente nemica delle nazioni arabe che intrattengono relazioni con i paesi occidentali ed in special modo gli USA, il giudizio qaeddistas verte sulla leva del paganesimo dei governi arabi e creca di sfruttare le motivazioni sociali dei rivoltosi tentando di incanalare la protesta verso la sharia. Al Qaeda offre ai dimostranti aiuti di tipo militare ed ideologico per fomentare la piazza a favore della teocrazia. L'appello pare, però quasi di prammatica, Al Qaeda è consapevole di non avere grosso seguito nella terra dei faraoni, il paese è molto occidentalizzato nonostante sia un paese musulmano, la parte religiosa estrema non è preponderante ed anche il partito dei Fratelli Musulmanicomprende una parte, seppur minoritaria, che propende per una visione che riesca ad accomunare Islam e democrazia. Tuttavia l'appello non è da sottovalutare perchè segna l'interesse ufficiale del movimento terrorista ai moti egiziani; ciò potrebbe creare situazioni di pericolo create anche da singoli, la portata e gli effetti di una strage nella folla dei dimostranti potrebbero avere conseguenze difficilmente prevedibili. Al Qaeda non può permettersi di lasciare scoperto, anche solo formalmente, il proprio spazio, deve comunque fare atto di presenza, speriamo si limiti alle sole dichiarazioni.
martedì 8 febbraio 2011
I Fratelli Musulmani: incognita egiziana
Uno dei protagonisti della rivoluzione egiziana è il partito dei "Fratelli Musulmani" ed è quello su cui sono puntate maggiormente le attenzioni del mondo. Messi fuori legge da Nasser la fratellanza musulmana non gode di una predominanza numerica nel panorama della rivolta ma ricopre, grazie alla propria organizzazione, una funzione determinante nella logistica dei moti di piazza fornendo medicinali e concreti aiuti ai manifestanti. Politicamente il ruolo dei Fratelli Musulmani non è volutamente di primo piano, non tentano di capeggiare la rivolta e mantengono un basso profilo, tuttavia non intendono rinunciare ad essere parte del processo di transizione portando il loro contributo. L'atteggiamento non è frutto di un'esplicita rinuncia ad un ruolo di primo piano, ma pare una mossa calcolata per non permettere all'opinione pubblica interna ed esterna di connotare come islamica la rivolta; mantenendo un atteggiamento di retrovia l'azione della fratellanza, al momento può godere di maggiore libertà d'azione senza essere sotto la luce dei riflettori internazionali. Il tutto rientra in un piano a lungo termine per la presa del potere. Nell'immediato ed anche in periodi successivi un governo a monocolore o almeno a guida della fratellanza non può essere concepito, e di ciò i Fratelli Musulmani sono perfettamente consci, ma facendo una politica adeguata e preparando il terreno l'obiettivo può essere inquadrabile. Ma la ragione della scelta di una politica prudente proviene anche dalla divisione al suo interno della fratellanza che al momento risulta divisa in tre grandi tronconi: il primo persegue l'instaurazione della teocrazia, il secondo il ristabilire le comunità musulmane tramite l'interpretazione fedele del corano e la terza, per ora minoritaria, che vuole coniugare uno stato democratico con la religione islamica. L'evolversi della situazione dirà con quale peso la fratellanza influenzerà il futuro dell'Egitto.
Egitto: l'assenza di Al Qaeda
Nella rivoluzione egiziana spicca, oltre all’impreparazione americana, anche il silenzio assordante di Al Qaeda. L’Egitto non e’ solo un paese chiave per gli USA, specularmente lo e’ anche per l’organizzazione terroristica piu’ integralista e piu’ temuta. Il paese delle piramidi e’ la porta per arrivare ad Israele, e; la chiave di volta del processo di pace mediorientale, se cade questa chiave il fragile equilibrio si accartoccia su se stesso. L’ultimo attentato Qaeddista sul suolo egiziano e’ stato il tragico raid contro una chiesa cattolica di Alessandria, poi piu’ nulla, nessuna dichiarazione, nessuna presa di posizione. Il sospetto e’ che come i nemici americani anche Al Qaeda sia rimasta sorpresa dagli eventi, che i fatti si siano svolti ad una velocita’ inaspettata. Se questo fosse vero si dimostrerebbe come anche Al Qaeda abbia sottovalutato le tendenze che covavano sotto la cenere nella terra dei faraoni. E’ possibile che anche Al Qaeda, si sia concentrata troppo sulla guerra afghana tralasciando le altre aree di crisi, tralasciando opportunita’ importanti per guadagnare alla sua causa territori cosi’ decisivi e determinanti? Se non fosse fantapolitica sembrerebbe che dietro i due nemici ci sia la stessa testa; ma lasciando le ipotesi da romanzo pare piu’ verosimile una identica limitazione di visuale che non ha previsto e contemplato che Mubarak fosse messo cos’ in difficolta’ da una piazza sottovalutata. Ci puo’ essere un’altra soluzione che non e’ in definitiva in contrasto con quella precedente: Al Qaeda e’ meno forte di quello che si crede specialmente in Egitto e la situazione che si e’ venuta a creare ha generato difficolta’ alla manovra integralista, a cui probabilmente riusciva piu’ facile muoversi all’interno del regime di Mubarak, dove, contrariamente alle apparenze, poteva godere di uno spazio di manovra limitato ma certo. Se questo e’ vero si spiega la difficolta’ il silenzio attuale: Al Qaeda non riesce ad occupare in qualche modo, anche solo parzialmente, il vuoto di potere perche’ i canali che gli garantivano il movimento non ci sono piu’. In questo scenario l’esercito gioca sicuramente un ruolo fondamentale perche’ di tradizione laicista e quindi certamente non disposto bene verso integralisti religiosi. Se questa ipotesi e’ almeno verosimile la transizione verso un nuovo tipo di stato e di governo della situazione egiziana non puo’ che essere visto con speranza.
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