Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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venerdì 30 settembre 2011
Il Parlamento europeo chiede ai 27 un'azione unitaria per la Palestina
Il Parlamento europeo ritiene legittima la richiesta della Palestina di essere riconosciuta come uno stato sovrano. Pur individuando la necessità di tutelare Israele, il Parlamento europeo ritiene una necessità ed uno sbocco naturale la nascita dello stato palestinese, anche in ottica della necessaria pacificazione internazionale, intesa come risultato della ripresa delle trattative. La dignità di stato da riconoscere ai palestinesi, per il parlamento europeo deve comunque rientrare nel naturale alveo negoziale presso l'Assemblea Generale dell'ONU. Il Parlamento europeo ha approvato a maggioranza una mozione in cui viene espressamente chiesto ai ventisette governi che compongono la UE, di tenere una posizione comune, che eviti divisioni di fronte al panorama internazionale, rispetto a quanto più volte ribadito dalla UE, attraverso la rappresentante per la politica estera Catherine Ashton, circa la legittimità del principio che prevede i due stati sulla base dei confini del 1967, con capitale Gerusalemme. Il testo elaborato dal Parlamento europeo contiene una indicazione importante circa la necessità dell'autodeterminazione del popolo palestinese ed afferma l'indiscutibilità del diritto di avere un proprio stato sovrano. In quest'ottica rientra anche la richiesta al governo israeliano di bloccare nuovi insediamenti nei territori palestinesi, per facilitare il processo di pacificazione. La richiesta di unitarietà di azione fatta ai governi UE, rientra anche nel tentativo di fare riprendere quota alla stessa UE nei negoziati di pace, anche alla luce degli sviluppi portati dalla primavera araba. In conclusione l'intenzione del Parlamento europeo è quella di consentire, grazie ad una azione compatta e condivisa, di sfruttare l'occasione della richiesta per il riconoscimento dello stato di Palestina, per potere incidere da protagonista nel processo di pace.
giovedì 29 settembre 2011
USA e Pakistan ai ferri corti
I rapporti tra USA e Pakistan subiscono un peggioramento. Gli USA hanno esplicitamente accusato Islamabad di avere contati con la rete Haqqani, terroristi islamici legati ai talebani, attraverso i quali il Pakistan cerca di estendere la propria influenza verso l’Afghanistan. Al di la delle dichiarazioni di rito, che parlano di rincrescimento per la posizione di Washington, Islamabad è stata chiara, gli USA non devono toccare i membri della rete Haqqani, pena la messa in discussione dell’alleanza. L’atteggiamento USA va, però, nella direzione contraria, senza un intervento pakistano gli USA procederanno in modo unilaterale. La minaccia è da considerarsi reale, già nell’occasione dell’eliminazione fisica di Bin Laden, le forze armate americane hanno operato, senza avvertimento e senza consenso, sul suolo pakistano, proprio perchè non si fidavano dei servizi segreti di Islamabad. La questione tra i due paesi si trascina da tempo, tanto che le posizioni ufficiose degli alti gradi militari sono diventate ormai note, l’affidabilità del governo pakistano è per le forze armate americane ai minimi storici. Il sospetto più grave di Washington è che il Pakistan ritenga il governo afghano ed il sistema democratico costruito dagli USA molto deboli e su cui graverebbe il pericolo di una caduta nel momento in cui le forze NATO abbandoneranno il terreno.
Nel verificarsi di questa evenienza il Pakistan potrebbe estendere la sua influenza sul paese afghano mediante l’alleanza con i talebani. Dietro a tutto sembra stagliarsi il profilo della Cina, che ha di fatto, sostituito gli USA come partner comerciale e forse anche politico. Il Pakistan ha già parlato più volte in dichiarazioni ufficiali di Pechino come amico principale della nazione. L’espansionismo cinese dettato dalla fame di nuovi mercati, ma anche di nuova manodopera ha individuato nelle zone di Pakistan ed Afghanistan dei territori strategici, sopratutto nell’ottica della competizione con l’India. La Cina punta così a circondare il suo più pericoloso concorrente cercando di fargli terra bruciata attorno. Con l’alleanza con Pechino, Islamabad si sente più forte nei confronti degli USA e si permette anche sgarbi diplomatici come non presenziare a riunioni sul tema del terrorismo. Nonostante tutto gli USA tengono a freno l’irritazione, giacchè ritengono che la lotta al terrorismo internazionale si vince proprio tra Afghanistan e Pakistan, tuttavia, se possono contare sulla lealtà del governo di Karzai, nel tempo i sospetti sul Pakistan si sono, forse, troppo acuiti tanto da fare diventare Islamabad più che un potenziale avversario. Se l’attuale situazione tra i due stati non vedrà progressi nella distensione, con fatti concreti da parte dal Pakistan, la situazione è destinata a peggiorare molto e gli eventuali sviluppi potrebbero fare rivedere i piani di rientro delle forze armate USA dall’Afghanistan. Infatti senza più l’appoggio del Pakistan, che a questo punto potrebbe diventare addirittura un nemico, gli Stati Uniti dovrebbero, per forza di cose, mantenere numerosi effettivi per presidiare la lotta al terrorismo islamico in maniera efficace.
Nel verificarsi di questa evenienza il Pakistan potrebbe estendere la sua influenza sul paese afghano mediante l’alleanza con i talebani. Dietro a tutto sembra stagliarsi il profilo della Cina, che ha di fatto, sostituito gli USA come partner comerciale e forse anche politico. Il Pakistan ha già parlato più volte in dichiarazioni ufficiali di Pechino come amico principale della nazione. L’espansionismo cinese dettato dalla fame di nuovi mercati, ma anche di nuova manodopera ha individuato nelle zone di Pakistan ed Afghanistan dei territori strategici, sopratutto nell’ottica della competizione con l’India. La Cina punta così a circondare il suo più pericoloso concorrente cercando di fargli terra bruciata attorno. Con l’alleanza con Pechino, Islamabad si sente più forte nei confronti degli USA e si permette anche sgarbi diplomatici come non presenziare a riunioni sul tema del terrorismo. Nonostante tutto gli USA tengono a freno l’irritazione, giacchè ritengono che la lotta al terrorismo internazionale si vince proprio tra Afghanistan e Pakistan, tuttavia, se possono contare sulla lealtà del governo di Karzai, nel tempo i sospetti sul Pakistan si sono, forse, troppo acuiti tanto da fare diventare Islamabad più che un potenziale avversario. Se l’attuale situazione tra i due stati non vedrà progressi nella distensione, con fatti concreti da parte dal Pakistan, la situazione è destinata a peggiorare molto e gli eventuali sviluppi potrebbero fare rivedere i piani di rientro delle forze armate USA dall’Afghanistan. Infatti senza più l’appoggio del Pakistan, che a questo punto potrebbe diventare addirittura un nemico, gli Stati Uniti dovrebbero, per forza di cose, mantenere numerosi effettivi per presidiare la lotta al terrorismo islamico in maniera efficace.
Tra la Serbia e la UE c'è l'ostacolo Kossovo
Per la Serbia l'entrata nella UE appare sempre più difficile. Malgrado gli sforzi sostenuti dal governo di Belgrado, per assicurare alla giustizia internazionale i criminali serbi della guerra seguita alla dissoluzione della Jugoslavia, la questione del Kossovo rappresenta ora l'ostacolo più difficile da superare. La strategia degli estremisti serbi, che si richiama ad una anacronistica ricostruzione della grande Serbia, tiene in ostaggio lo sviluppo economico e diplomatico del paese. Per la verità sulla questione del Kossovo le ragioni degli estremisti riscuotono parecchio successo entro i confini legali serbi. La popolazione ritiene l'indipendenza del Kossovo una violazione del proprio territorio ed in parte giocano anche motivi di rivalsa contro l'occidente, verso cui, malgrado tutto, non sono del tutto cancellate le avversioni per l'embargo economico ed i bombardmenti NATO. Gran parte del paese vive come l'ennesima ingerenza negli affari interni dello stato, il riconoscimento, che gran parte dell'opinione pubblica internazionale, ha regalato al Kossovo. In questo gli estremisti serbi hanno gioco facile ha fomentare la piazza, così facendo, però, vanno contro le legittime aspirazioni del paese a fare parte dell'Unione Europea. Come ha detto la cencelliera tedesca Merkel, sempre più leader in pectore della UE, se la Serbia non muta atteggiamento verso la questione kosovara, l'ingresso a Bruxelles le è precluso. Tuttavia anche nella stessa UE non vi è unanimità nella direzione enunciata dalla Germania, infatti sono ben cinque i paesi UE che non riconoscono il Kossovo. La questione, insomma resta fluida, anche se, a ben vedere, il Kossovo è soltanto una questione accessoria nella pratica Serbia, quello che preoccupa ben di più è il peso, sempre importante, che la stessa idea nazionalista, ben rappresentata dai movimenti estremisti, ha all'interno del paese. La vera preoccupazione della UE è quella di non portare al suo interno un paese ancora attraversato da tensioni profonde, che non ha saputo superare i conflitti al suo interno e che potrebbe costituire un serbatoio consistente di potenziali fonti di destabilizzazione. Peccato perchè dal punto di vista economico, la Serbia rappresenta un affare da ambo i lati, il paese è in crescita e già costituisce un buon mercato, praticamente dentro l'Europa e dispone di manodopera ad un costo contenuto ma molto specializzata: i presupposti quindi, da questo lato, ci sono tutti per entrare nella UE; quello che manca è una stabilizzazione politica ed una convinzione, più che altro, verso l'Europa, da parte di tutto il corpo sociale del paese, ceh deve rebdersi disponibile ad accettare le regole comuni e la visione europea, superando di slancio ataviche convinzioni, ormai superate dalla storia.
mercoledì 28 settembre 2011
Il problema del lavoro nodo essenziale da sciogliere
Secondo l'OCSE i disoccupati nel mondo sono intorno a 200 milioni di persone, di cui almeno 30 milioni hanno perso il lavoro negli ultimi due anni. Le prospettive per il breve periodo sono altrettanto disastrose, la crisi economica che attanaglia il pianeta rischia di erodere ulteriori posti di lavoro, riducendo ancora la possibilità di impiego. Le implicazioni di questo dato allarmante rischiano di deprimere ancora di più l'economia soffocando i consumi. Quello che si può avverare, se non si inverte la rotta, è un avvitamento definitivo dei consumi in grado di affondare del tutto le speranze di ripresa. Questa analisi, pur essendo a livello macro economico, indica il bisogno di un intervento strutturale che corregga il dato della disoccupazione al più presto. Inoltre le conseguenze sociali, indotte da un regime di mancanza di lavoro giunte ad un profondo grado di diseguaglianza, rischiano di fare partire pericolosissime tensioni sociali, che una volta innescate potranno essere gravide di problematiche difficilmente gestibili. L'allargamento della forbice tra ricchissimi e poveri si è dilatato in maniera abnorme, anche in ragione dell'impoverimento dei ceti medi e medio bassi, su cui gravano le politiche fiscali, sempre più vessatorie degli stati, costretti a fare fronte a debiti sovrani sempre più alti e particolarmente colpiti dalla diminuzione dei posti di lavoro. Il problema va affrontato a livello mondiale, è necessaria una coordinazione che indirizzi le risorse opportunamente accantonate per lo sviluppo dei posti di lavoro. La sconfitta della disoccupazione deve essere pianificata attraverso obiettivi certi e raggiungibili, ad esempio con un solo incremento di 1,3 punti percentuali si potrebbe tornare al livello occupazionale pre crisi entro il 2015. Devono essere elaborate strategie comuni tra i governi, che diano la priorità al lavoro reale contro quello effimero della finanza, sulla quale devono agire leve fiscali per reperire le risorse che possano permettere l'incremento dell'occupazione. Ridurre l'importanza della finanza deve essere un obiettivo primario per dare la giusta importanza al lavoro tangibile, mediante il quale assicurare un livello stabile dell'occupazione. La sfida per il rilancio dell'economia non può non passare attraverso la sconfitta della disoccupazione.
Israele insiste con le colonie nei territori
L'idea di autorizzare nuove colonie presso Gerusalemme est, eletta a propria capitale dai palestinesi, costituisce l'ennesimo passo falso dello stato israeliano. Perfino gli Stati Uniti hanno rotto il loro, ormai tradizionale riserbo, che stanno tenendo per le questioni israelo palestinesi, manifestando profonda contrarietà, attraverso le parole di Hillary Clinton. Benjamin Netanyahu insiste nella politica del doppio binario: parole misurate di fronte all'opinione pubblica internazionale, che propongono il riavvio degli eterni negoziati, ma fatti discordanti con quanto pronunciato, concedendo ai coloni sempre nuove opportunità di ampliare gli insediamenti. Obama fino ad ora ha tenuto un atteggiamento prudente, pur non condividendo intimamente l'attuale politica del governo israeliano, ha dovuto mantenere un atteggiamento di facciata per tutelare l'alleanza con Tel Aviv, anche in ottica elettorale. Tuttavia è evidente che la freddezza caratterizza l'attuale fase dei rapporti tra USA ed Israele. Nonostante queste cautele, caratterizzate dai profondi silenzi americani, la reazione USA al benestare per i nuovi insediamenti, segna un punto di svolta nell'atteggiamento americano. L'impressione è, che questa volta Israele abbia tirato troppo la corda, generando una reazione chiaramente inconsueta. Non si capisce, specialmente in questa fase cruciale, caratterizzata dalla richiesta del riconoscimento dello stato palestinese all'ONU, quale sia la strategia di Tel Aviv. Israele, infatti, è rimasto isolato nella regione e le simpatie che riscuote sul piano internazionale sono sempre meno; se l'attrito strisciante con l'amministrazione USA dovesse prendere una via più marcata, il problema per Tel Aviv sarebbe gestire un isolamento ancora più marcato. Netanyahu, probabilmente da per scontato che gli USA non abbandoneranno mai Israele e questo dovrebbe essere certo, ma anche in un quadro di alleanza vi sono gradi diversi. Se gli USA si stancano di vedere vanificati i propri sforzi, sotterranei per non urtare la suscettibilità degli israeliani, a causa del comportamento scorretto del governo di Tel Aviv, possono adottare un diverso atteggiamento, con una gamma estesa di conseguenze che possono andare ad esercitare una pressione, anche consistente su Israele. E' chiaro che la tattica del governo israeliano, che gran parte della popolazione non condivide, è di impiantare la maggior parte di insediamenti possibili sui territori palestinesi, per poi trattare, se mai si tratterà, da posizioni di forza, ancorchè illegali. La valutazione sulla bontà di questa tattica tiene conto di soli elementi interni, tralasciando gli effetti diplomatici che verranno e vengono provocati. Ma a questo punto devono essere gli USA e l'ONU a prendere in manola situazione e costringere, per il suo stesso interesse, Israele a cambiare atteggiamento sopratutto con i fatti.
martedì 27 settembre 2011
Francia: il Senato per la prima volta alla sinistra
A pochi mesi dalle elezioni presidenziali francesi, si è verificato un pesante rovescio per la destra francese, che, per la prima volta della storia, perde la maggioranza al senato. La sconfitta è particolarmente significativa perchè è maturata nei territori francesi più conservatori, situati nella Francia più profonda e contadina. Si tratta di zone che costituiscono il tradizionale serbatoio di voti per la destra francese e conservatrice e che hanno virato la loro preferenza elettorale verso sinistra. Il fenomeno segnala la profonda delusione dell’elettorato francese verso Sarkozy, da imputare, in special modo all’andamento della politica interna. Le difficoltà economiche, comuni a tutti i paesi dell’area euro, hanno determinato una situazione difficile, che si è riflessa anche negli aspetti e nelle dinamiche sociali della Francia. Il Presidente francese è conscio di questa difficoltà, anche se sul piano dell’azione economico politica, i suoi movimenti sono imbrigliati dalle regole dell’euro. Sarkozy aveva già previsto questa difficoltà, in vista delle elezioni presidenziali, che ha tentato di mascherare con una azione incessante in politica estera. Tuttavia l’argomento della “grandeur” francese non pare suscitare più gli entusiasmi di una volta, il popolo francese ha necessità più pressanti, che il prestigio internazionale. Nelle metropoli al problema economico si somma quello sociale, dato l’alto tasso di immigrazione, nelle campagne la crisi economica stravolge modi di vita sedimentati da anni. La percezione degli elettori francesi è di un governo avulso dai problemi reali del paese, che procede a tentoni nella ricerca delle soluzioni. Il cambio di preferenza avvenuto nelle zone più conservatrici del paese rappresenta lo stravolgimento di un paradigma dato per assodato, che prevedeva il totale asservimento elettorale delle zone più interne alle posizioni più conservatrici. Così non è più; non bastano più le idee di fondo, l’elettore si è evoluto ed ora sceglie i programmi che, con i risultati, meno possono discostarsi dalle esigenze elttorali; chi delude, non raggiungendo almeno obiettivi minimi viene scartato a favore di chi può fare meglio, anche se non rappresenta le idee più consone di chi vota. Questo è quello che hanno detto le elezioni del senato francese e con questi dati per Sarkozy la strada alla rielezione dell’Eliseo pare in forte salita.
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Attentato al gasdotto per Israele e sue implicazioni
L'attentato al gasdotto egiziano che fornisce il gas ad Israele ed anche alla Giordania, segna un nuovo passo nell'isolamento di Tel Aviv ed un innalzamento ulteriore della tensione intorno alla frontiera israelo egiziana e dei rapporti tra i due stati. Israele aveva ragione di preoccuparsi della caduta di Mubarak, che assicurava una forte stabilità nei rapporti con l'Egitto, il problema è stato non adeguarsi alla mutata situazione politica maturata al Cairo. Avere mantenuto, prima un atteggiamento avverso e dopo un distacco dalla primavera araba egiziana, ha rinfocolato la tradizionale avversione araba allo stato di Israele. Malgrado le rassicurazioni dei militari egiziani, il popolo ha lasciato libero sfogo alle pulsioni, peraltro a lungo represse, contro Tel Aviv e culminate nell'assalto all'ambasciata israeliana. In verità ci sono stati episodi anche da parte di tel Aviv, che hanno contribuito a riscaldare la tensione, come l'uccisione delle guardie di frontiera egiziane, per errore, da parte di soldati dell'esercito israeliano. Quello che è mancato è stata una disposizione di Israele a rapportarsi in maniera differente con il nuovo stato, preoccupandosi, invece, di autoisolarsi in ottica difensiva, verso possibili aiuti, da parte dell'Egitto alla striscia di Gaza. La freddezza di Tel Aviv ha finito per essere un boomerang nei rapporti con l'Egitto, Israele doveva, invece, passare sopra alle proprie diffidenze ed aprirsi alla nascente democrazia fiorita la Cairo. L'atteggiamento miope, peraltro praticato su tutta la linea della politica estera, non ha prodotto risultati positivi per Israele, che, però, non pare avere imparato la lezione, insistendo in questa direzione ottusa. L'attentato al gasdotto egiziano rischia di avere pesanti ripercussioni per l'economia israeliana, che riceve dall'Egitto oltre il 40% del fabbisogno di gas e che con questo atto terroristico vede compromessa la stabilità delle forniture; l'ennesima prova della necessità della revisione della politica estera israeliana. Questo attentato non è, infatti da sottovalutare, perchè rappresenta la prova provata dell'isolamento in cui versa ormai Tel Aviv e dal quale deve velocemente uscire, per non restare impigliato in una ragnatela, che esso stesso ha creato.
Cade Sirte ma Gheddafi è ancora libero
I ribelli, ormai al governo, della Libia annunciano di avere conquistato definitivamente il porto di Sirte, città natale del colonnelo Gheddafi. Il porto rappresenta una infrastruttura strategica per la nazione libica, essendo un terminal petrolifero dei più importanti del paese. Ancora una volta è stato decisivo il ruolo della NATO, che con i suoi bombardamenti, ha fiaccato la resistenza dei lealisti. L'azione NATO giustifica quindi le ragioni del mantenimento della forza di appoggio ai ribelli nella non conclusa guerra di Libia. La consistenza e la forza dei lealisti, arroccati nella città, rappresentava ancora un punto di forza pericoloso per il nascente stato libico, la quantità degli armamenti ed anche la qualità dei combattenti assoldati dal rais, potevano anche generare una pericolosa controffensiva. Si comprende così la necessarietà della permanenza della forza della NATO in appoggio agli insorgenti. Frattanto manca al compimento della liberazione della Libia la cattura o, almeno, notizie riguardanti Gheddafi. Gli annunci degli scorsi giorni della figlia, lo davano in mezzo alle sue truppe proprio a Sirte, con la pistola in mano, ma per il momento il destino del colonnello appare avvolto in un fumo di mistero. L'aspetto non è da sottovalutare, i resistenti di Sirte hanno, per forza di cose, avuto una coordinazione nei combattimenti, dimostrata con la difficoltà incontrata dai ribelli nella battaglia; non si è trattato di soldataglia allo sbando, ma di truppe organizzate e dirette con metodo militare. La libertà di Gheddafi, rappresenta un pericolo sia per la Libia, che per i paesi che hanno contribuito ad aiutare le forze dei ribelli. Le disponibilità finanziarie occulte del rais dovrebbero essere ancora notevoli, tali da garantire l'organizzazione di attentati o forme di ritorsione particolarmente violente. A questo punto della guerra, diventa prioritario assicurare Gheddafi alla giustizia, anche per inchiodarlo alle sue responsabilità di anni di violenze perpetrate ai danni del suo popolo. Il suo destino deve diventare la Corte dell'Aja per un equo processo ed una equa condanna.
lunedì 26 settembre 2011
L'incognita delle elezioni USA
Sulle prossime elezioni americane soffia il vento dell'incertezza. Malgrado gli entusiasmi suscitati in campagna elettorale, seguiti allo slogan "Yes we can", Obama appare in crisi evidente. Ben poco di quello annunciato è stato fatto, inoltre per mantenere il governo del paese il Presidente degli Stati Uniti, ha dovuto più volte chinare la testa, nei confronti dei repubblicanio, andando così, a tradire lo zoccolo duro dei suoi elettori. Con l'economia USA sferzata da una crisi senza precedenti, le cui colpe però risalgono in gran parte ai presidenti precedenti, Obama, in effetti, ha dovuto combattere con armi spuntate, senza potere realizzare i piani ambiziosi promessi durante la campagna elettorale. Ad Obama è anche mancato l'appoggio dell'organo legislativo, finito in mano ai repubblicani, determinante per la realizzazione della propria politica. Quello che ne è risultato è stata una politica di compromesso che ha spesso scontentato la parte più povera degli americani, maggiore serbatoio di voti del Presidente in carica. I valori fondamentali dell'economia USA, risultano peggiorati e la povertà è cresciuta, il quadro complessivo della nazione americana risulta fortemente negativo; Obama cerca ora di dare un colpo di reni in extremis, alla sua presidenza, con il rilancio dell'economia mediante un piano del lavoro molto ambizioso, che verte sulla costruzione delle infrastrutture, finanziato, in parte dalla tassazione sui redditi più alti. La manovra ha il duplice scopo di fare rientrare nell'alveo elettorale i consensi perduti e di tagliare la crescente disoccupazione. E' una manovra quasi disperata per riguadagnare proprio quei consensi, su cui Obama pareva avere la certezza. Se il fronte interno non va bene, anche sul fronte estero la leadership di Obama accusa battute d'arresto, che l'eliminazione di Bin Laden non è riuscita a coprire. Il difficile trascinarsi dei conflitti iraqeno ed afghano, sopratutto il secondo, acuiscono l'indifferenza ed anche la contrarietà del popolo americano verso una politica estera sempre più non compresa dal cittadino comune. Forse Obama si è dato obiettivi troppo ambiziosi, sta di fatto che la percezione dell'uomo statunitense è che l'amministrazione in carica sia ben lontana da raggiungere, va detto che il periodo di quattro anni è un tempo troppo breve per risolvere problemi che sono strutturali, sia nell'economia, che nella politica estera, tuttavia, se vorrà essere rieletto, Obama dovrà essere convincente nello spiegare di avere ancora bisogno di altro tempo per portare aventi la sua opera politica. Paradossalmente, Obama ha un alleato nelle profonde divisioni che attraversano il partito repubblicano, infatti si può tranquillamente dire che se Atene piange, Sparta non ride. Il monolite repubblicano non è più tale, la forza d'urto del movimento dei tea-party ha saputo scalfire le paludate certezze del compassato partito di Regan e Bush. Andando ad intercettare i sentimenti dell'America più profonda, il tea party ha creato una vera e propria corrente a destra del partito, nella quale molti vecchi repubblicani faticano a riconoscersi. Il problema è che questa corrente sta prendendo la maggioranza del partito ed i vecchi dirigenti non riescono andare oltre il discorso fiscale e della supremazia americana in politica estera. Materie che riguardano il sociale, seppure viste da destra, non sono ancora entrate nel dna del vecchio partito repubblicano, favorendo di fatto, l'ascesa del tea party. Il quadro determinatosi, da ambo le parti, fa prevedere un innalzamento dell'astensione, che sarà, presumibilmente, il maggiore partito statunitense, trasformando la prossima competizione elettorale in un grande punto interrogativo.
sabato 24 settembre 2011
Crisi dell'Euro: il punto della situazione
L'apprensione intorno all'euro è sempre maggiore. La difficile situazione greca, rischia di allargarsi ad altre realtà ben maggiori. Lo schema è quello di un gioco ad incastro, il mattoncino greco, ma anche portoghese ed irlandese, tengono attaccato al muro dell'euro la Spagna, prima e l'Italia, poi. Le due soluzioni che si hanno davanti sono esercitare un default controllato per Atene o cercare in tutti i modi di tenere la Grecia nella zona euro. La prima opzione potrebbe prevedere un ritorno alla dracma, che innescherebbe una inflazione della divisa greca, con conseguenze limitate, date la dimensione del paese, ma che costituirebbe una anticipazione di quello che potrebbe accadere in caso di default di nazioni più importanti. Sostanzialmente è quello che teme la Merkel, la speculazione, dopo avere affossato la Grecia, avrebbe obiettivi molto più alti, con l'Italia nel mirino. Un default italiano avrebbe conseguenze non solo europee ma mondiali. Il mercato italiano ha una particolare importanza per i produttori emergenti Cina e BRICS, una contrazione delle vendite e di conseguenza della produzione, stimate intorno al 10%, determinerebbero un grave ammanco, che si riverberebbe anche negli USA. Il problema è che non esistono abbastanza soldi nel mondo per salvare l'Italia in maniera immediata, possono essere studiate soluzioni dilatate nel tempo, però occorre vedere se vi è la volontà per trovarle. Che l'Italia possa farcela da sola, alle condizioni attuali, sia politiche, che economiche, pare francamente impossibile. Il pallino è così, in mano alla Germania, che, a sua volta, a due strade davanti. Uscire dall'euro e ripristinare il Marco, che avrebbe subito una super valutazione, con conseguenze nefaste per i prodotti tedeschi che subirebbero una impennata dei prezzi, bloccando sostanzialmente le esportazioni. Gli industriali tedeschi sono contrari a questa ipotesi che getterebbe in crisi le aziende tedesche, che si ritroverebbero con i magazzini pieni di merce invenduta e non potrebbero godere della valuta forte per acquistare nuove materie prime, avendo le linee di produzione bloccate. Quelli da convincere sono i ceti popolari, che la propaganda politica di alcuni partiti indirizza contro i debiti del sud europa, ed anche il settore finanziario e bancario, costretti a portare il peso economico dei debiti altrui. Il dibattito politico tedesco verte tra queste due tendenze, la posizione del cancelliere Merkel però, pare la unica responsabile, tenedo conto dei costi benefici, inannzitutto per il proprio paese ma anche per l'intero sistema europeo. E' chiaro che il governo tedesco, almeno per il momento, ha scelto la seconda strada rispetto all'uscita del marco, tuttavia non sarà facile resistere alle sollecitazioni sia interne, che esterne. Infatti ad essere contrari agli aiuti ai paesi del sud europa ci sono anche gli stati del nord ed anche i Paesi Bassi. Su questi contrasti si gioca il futuro non solo economico, ma anche politico dell'Unione Europea. Le titubanze degli euro scettici, che non vedevano di buon occhio un'unione monetaria senza il sostegno di una effettiva unione politica, si stanno avverando in pieno. A questo punto è necessaria una decisone drastica: chi non accetta una piena unione sia politica che monetaria deve essere messo fuori dalla UE. Chi vuole essere dentro deve accettare tutta una serie di regole che possono anche limitare la sovranità statale in favore di quella comunitaria. Solo così si potrà uscire dall'assioma che ha governato l'euro finora, che è stato quello di preoccuparsi essenzialmente di contenere il fenomeno inflattivo. Questo ha bloccato il fenomeno della crescita, anche nelle economie più forti, come quella tedesca, che ha tassi di crescita molto bassi. Questo dato è il più rilevante, dato che senza crescita economica gli stati non possono incassare denaro che può andare a coprire il debito pubblico, vero nodo del problema. L'euro, creato in un momento di grande inflazione, non ha saputo rispondere alle mutate condizioni dell'economia, questa rigidità giunta con l'elevato debito pubblico di alcuni stati, ha creato l'esposizione ai fenomeni speculativi.
venerdì 23 settembre 2011
Una proposta per ripensare la finanza
Il nodo cruciale è che non si ferma chi va per obiettivi a brevissimo termine. Il fattore tempo è sempre più decisivo e determinante, si è lasciato perdere il medio ed il breve termine, mentre sarebbe necessario procedere a lungo periodo. In questo l'informatica è stata dannosa, accelerando i tempi del lavoro ha aperto opportunità di velocizzare i tempi del guadagno. Questo è vero sopratutto per le borse ed i mercati, la febbre del guadagno velocissimo è la grande responsabile dell'avvitamento delle borse, chi specula è favorito dai mezzi tecnologici e dalla bassa velocità dei tempi di reazione degli organismi politici, poi le divisioni e l'incompetenza aggiungono carico. Ma il fattore tempo è la chiave di chi maneggia grandi capitali e sposta guadagni, facendo le fortune o le sfortune di aziende e stati. La dimensione democratica non può competere con queste regole, non gioca ad armi pari, con strutture compresse che fanno della velocità decisionale il loro punto forte. Di fronte ai disastri economici di questi giorni, di fronte all'enorme mole di denaro bruciata, occorre ripensare tutto il rapporto con la finanza, mediante il quale lo stato non può fare a meno di rapportarsi. Non potendo agire sugli orologi, una manovra equa potrebbe essere una forma di tassazione sui guadagni ottenuti spostando somme di denaro investite per acquistare azioni e dopo un dato tempo subito rivendute. L'intenzione di questa tassazione dovrebbe essere scoraggiare gli investimenti fini a se stessi, per incoraggiare gli investimenti durevoli che puntano sulla crescita dell'azienda su cui si è investito. Sembra una ovvietà, ma non la è. La misura non è una negazione del mercato, ma una manovra in favore degli investimenti reali che puntano alla crescita di una azienda, con investimenti durevoli. Si potrebbe pensare anche ad una diminuzione della tassazione dei dividendi direttamente proporzionale al tempo della tenuta dei titoli nel portafogli. Misure del genere permetterebbero di creare una nuova rete di protezione per lo stato e gli azionisti, contro le speculazioni e di instaurare una nuova visione del mercato finanziario. Stroncare la volatilità degli investimenti vuole dire costringere gli investitori ad interventi più ponderati e concreti, ma sopratutto rimettere al centro la natura del valore della produzione, quale essa sia; esistono, infatti, aziende sottoquotate, con un valore nominale dell'azione sottostimato, rispetto al valore reale dell'azienda stessa costituito da impianti, attrezzature, know-how e valore del prodotto. Rimettere al centro il lavoro reale al posto della speculazione è ormai diventato essenziale dato il mancato governo del fenomeno essenzialmente speculativo che ha preso il sopravvento. E' facile prevedere le obiezioni degli ultra liberisti, che sicuramente intendono questa proposta come una negazione delle leggi del mercato e forse anche un taglio al reperimento delle risorse attraverso il mecato borsistico, ma il senso è di ridare all'economia un valore reale oggettivamente valutato, senza che sia soggetto a influenze esterne che niente o poco hanno a che fare con l'effettivo valore intrinseco di quello che si vuole stimare.
I tentennamenti di Obama sulla Palestina
Mentre Israele mette in opera un dispositivo anti sommossa imponente, in attesa del discorso di Abu Mazen all'ONU, occorre fare alcune riflessioni sul comportamento del Presidente degli USA e del governo americano. L'argomento della politica estera riguardante il problema israelo palestinese, costituiva una parte importante del programma elettorale di Barack Obama e doveva essere la chiave di volta per risolvere definitivamente la questione. Non è andata così, anche l'attuale Presidente USA si è adagiato su posizioni filo israeliane, limitandosi a fornire ai palestinesi aiuti materiali, certamente molto importanti, ma senza assicurare loro, almeno, la propria imparzialità. Obama non ha saputo sganciarsi dalla logica di principale alleato dei Israele, favorendo così uno stallo della situazione. Pur essendo in completo disaccordo con il premier di Tel Aviv, Obama non ha saputo tranciare il cordone ombelicale che lega Washington ad Israele, ed ha solo assunto un atteggiamento distaccato, sul piano diplomatico, che non è servito per sbloccare i negoziati, ma ha obbligato Abu Mazen al passo della richiesta del riconoscimento in sede ONU. Non avere saputo esercitare la pressione dovuta su Israele, pur in un quadro di alleanza stretta e dovuta, potrà avere conseguenze non previste. Inoltre gli USA sembrano non avere presa nemmeno più sugli alleati di lungo corso come la Turchia: anche in questo caso Obama sembra avere scelto il basso profilo, che, tuttavia, non ha risolto la profonda divisione tra Ankara e Tel Aviv. La dottrina di Obama, che sostanzialmente dice che gli USA non devono essere più il centro del mondo, è condivisibile e comprensibile, ma andrebbe attuata in maniera meno netta, se questa è la vera intenzione del Presidente USA. A meno che non si nasconda dietro questa nuova direzione una incapacità di fondo nella risoluzione delle controversie diplomatiche, che, volenti o nolenti, vedono gli USA sono ancora parte in causa, come è assolutamente vero per il caso della Palestina. Non è possibile che gli USA, ora vogliano sfilarsi dalle trattative per il processo di pace, dopo esserne stati i protagonisti per molti anni. Quello che si percepisce è, in effetti, una sorta di mancanza di capacità di essere i gestori delle trattative, manca l'azione decisa ed anche decisiva, in un verso o in un altro, che aveva contraddistinto il passato. Comunque vada, insomma, per gli elettori di Obama si profila un'altra delusione.
mercoledì 21 settembre 2011
Fine del ruolo USA come gendarme del mondo
Obama rende ufficiale la sua dottrina in politica estera. L'intenzione americana di cessare di essere il gendarme del mondo, più volte sottolineata ed iniziata ad essere praticata con la guerra libica, è ora diventata linea ufficiale del governo di Washington. Questa decisione non è il frutto della situazione economica attuale, ma è l'attuazione, sul lungo periodo, di quello programmato da Obama già in campagna elettorale. La tragedia dell'undici settembre, dopo l'eliminazione di Bin Laden, pur restando nella storia degli Stati Uniti, con questo passo appare superata; come è superata la dottrina interventista che ha caratterizzato l'azione diplomatica americana nel secolo scorso. Obama, di fatto, riposiziona gli USA nel panorama internazionale, pur restando nazione di riferimento, Washington si avvia a dare supremazia agli organismi internazionali per la risoluzione delle dispute internazionali. E' una direzione, quella intrapresa, che rafforza l'importanza dell'ONU, dove peraltro gli USA siedono come membro permanente del Consiglio di sicurezza, ed anche della NATO, nel quadro di potenziali interventi decisi in modo collegiale. L'intenzione di Obama è di mettere e sopratutto di fare percepire, gli USA, come una nazione al pari delle altre e che con le altre si rapporta non in maniera univoca ed autonoma, ma seguendo delle vie, che dovrebbero essere comuni. Allo stesso tempo si tratta di una rivoluzione ed anche una auto dismissione di responsabilità non più sostenibili, sia dal lato politico diplomatico, che economico. Il mondo dovrà abituarsi a vedere gli USA in modo differente, tramontata la figura imperialista, Washington non accorrerà più dove vi è l'ingiustizia, effettivamente rilevata o frutto di un'analisi di convenienza, ma, semmai, adirà ad organismi terzi investiti di autorità legittima per dirimere le questioni. L'apporto americano potrà esserci ma solo come contributo e sotto il mandato di organizzazioni internazionali. Tale decisione sposa l'opinione maggioritaria dei cittadini americani, comprendente quindi anche elettori non democratici, che sono stanchi dell'alto costo sociale, in termini di vittime e dei grandi costi finanziari che l'amministrazione USA ha sostenuto fino ad ora. Il guadagno ottenuto non è stato percepito in modo sufficiente per giustificare tale impegno. Quello che viene richiesto è, viceversa, una maggiore attenzione ai problemi interni, il che non vuole dire che gli USA si ripiegheranno su se stessi, ma significa, innanzitutto una razionalizzazione delle risorse economiche e politiche verso la politica estera, da cui consegue una nuova dimensione dell'approccio ai problemi internazionali. Ma gli USA non abdicheranno a quelli che ritengono i loro punti chiave, soltanto in determinate situazioni non agiranno in prima persona come l'esperienza libica ha chiaramente insegnato.
martedì 20 settembre 2011
Fronte UE per la Turchia
Le minacce turche alla UE, per la carica della prossima presidenza a Bruxelles, di Cipro, parte greca, nascondono, in realtà, altri fini ed hanno una responsabilità da cercare dentro all'Europa. Erdogan, dopo il rifiuto all'ingresso nella UE, ha rivolto lo sguardo della Turchia verso oriente, riscuotendo successi sia diplomatici che economici. Agendo fuori da un contesto normativo rigido, come poteva essere quello comunitario, Istanbul è riuscita a trarre maggiori vantaggi ed ha capito di potere prendere un ruolo da protagonista. L'occasione della primavera araba ha rappresentato la possibilità di incrementare ulteriormente la strategia diplomatica di aumentare l'influenza turca, tanto da fare pensare ad un chiaro fenomeno di neo ottomanesimo. Quando era in auge il dibattito sulla opportunità di fare accedere alla UE la Turchia, nessuno ha mai preventivato che lo sbocco, in caso di rifiuto, fosse di trasformare Istanbul, se non in un nemico, un avversario. Le tante obiezioni proposte, peraltro maggiormente di natura religiosa o sociale, provenienti dai gruppi di estrema destra o localistici, non hanno mai analizzato i costi ed i benefici dell'esclusione turca. Il dibattito si è focalizzato su temi troppo ristretti che ne hanno fatto perdere la visuale complessiva. La Turchia è da tempo un paese in crescita, che ha tentato di canalizzare le proprie capacità ed attitudini verso quello che doveva essere l'approdo naturale del più occidentale dei paesi islamici. Poteva trattarsi di una opportunità sia per Istanbul che per tutta la UE, l'allargamento verso l'oriente dell'Unione Europea avrebbe permesso, oltre ad un maggiore e più vasto mercato, anche una potenzialità diplomatica di ben altra portata. Inserire il paese turco, nell'alveo del vecchio continente, voleva dire allargare la sfera d'influenza comunitaria verso zone più restie all'ingerenza occidentale. Al contrario trattare il problema come un mero fatto religioso ha troncato pesantemente i possibili sviluppi positivi, creando gelo tra le due parti. Anche il recente confronto con Israele, dettato, al di là dei tragici fatti dello scorso anno, dalla necessità di figurare come rappresentante in tutto e per tutto del popolo arabo, si spotrebbe risolvere in altro modo, senza tenere costituire una minaccia per la pace. Ora la Turchia ha innestato una marcia, sul piano internazionale, contraria alla politica della UE, che tende al protagonismo nell'area araba del Mediterraneo del sud, nell'area del vicino oriente e fino oltre la pianura mesopotamica. Questa sorta di ritorno all'impero ottomano, non deve essere guardato con sufficienza dall'occidente, la Turchia possiede strutture politiche e strumenti di affinità tali da potere influenzare le nascenti democrazie arabe, prive praticamente di tutti gli strumenti per fare il salto nella nuova forma di stato. Istanbul si è preparata con dovizia a diventare il principale concorrente dell'Europa sul terreno del meridione del mediterraneo, dove si giocherà una partita fondamentale per il futuro del Mare Nostrum. La questione cipriota è in parte strumentale, perchè serve ad alzare la temperatura contro l'Europa in chiave di espansione verso i territori arabi ed in parte oggettiva, perchè riguarda la comunità e lo stato filo turco dell'isola. Se Cipro assolve il suo mandato di sei mesi alla guida della UE, acquista una visibilità troppo elevata per quello che vuole apparire Erdogan, che ne risulterebbe sminuito. Per il capo del governo turco costringere la UE ad abdicare rappresenterebbe una vittoria notevole da gettare sul tavolo del prestigio nel mondo arabo. Tuttavia appare difficile che Erdogan possa vedere le sue richieste esaudite, ciò non impedirà comunque, di intraprendere con la UE una battaglia diplomatica da cui ha tutto da guadagnare.
L'unificazione europea non è più procrastinabile
Alla fine qulacuno lo ha detto: senza l'Euro crolla la UE. Si tratta di una equazione inevitabile, una eventuale morte della moneta unica, mette fine ad anni di sforzi per favorire l'integrazione del continente, si torna irrimediabilmente indietro nel tempo e sopratutto fuori dalle esigenze temporali attuali, che richiedono unità contro divisione ed aggregazione contro isolamento. L'economia mondiale impone scelte drastiche, prima di tutto politiche. Una guida unificata dei problemi del continente è la prima cosa da fare, per imporre una linea politica unica, i personalismi ed il mancato riconoscimento in un organismo superiore devono cedere il passo ad una accettazione convinta di un centralismo maggiormente veloce e capace di prendere decisioni univoche, lineari e determinanti. Occorre mettere linee e regole chiare, dalle quali deve essere impossibile derogare, chi non accetta, rinunciando anche a parte della propria sovranità, deve essere messo fuori dal sistema politico e finanziario. Il momento impone scelte nette dalle quali ripartire, ma che devono essere accettate con piena convinzione. La necessità di una svolta importante è scritta negli avvenimenti che si susseguono: il possibile default greco, pur essendo una sconfitta per la zona euro ed un dramma per Atene, non inficierebbe il nocciolo duro della moneta unica. Non così se si arrivasse a situazioni altrettanto pericolose per Italia, fortemente indiziata su quella strada, e Francia, di cui non si parla, probabilmente per paura di alterare in modo ancora più grave le borse, ma che ha valori tali da non scongiurare situazioni altrettanto nefaste. L'effetto domino che si andrebbe ad innescare andrebbe a gravare sulla totalità dell'economia mondiale. Non è un caso che la Cina sia vicina ad acquistare titoli italiani e che anche Brasile, India e Sud Africa intendano gettare consistenti dosi di liquidità nel sistema finanziario europeo. Si tratta di aiuti ben accetti, che risolvono momentaneamente situazioni di grande difficoltà, ma che, andando ad alleggerire situazioni incancrenite, non permettono un aiuto strutturale al sistema, perchè non vengono investiti per sviluppare progetti, ma vanno a rifinanziare il costo degli interessi. Senza stabilità politica a livello continentale ed il ridisegno delle regole finanziarie, in ambito europeo, si alimenta soltanto la speculazione. Tra l'altro non è da escludere che proprio la rete degli speculatori abbia preso di mira la zona euro per distruggere la moneta unica, che potenzialmente può rappresentare il loro nemico peggiore, proprio per gli strumenti a disposizione. Mai come ora l'accelerazione necessaria per l'unificazione è stata più vitale.
domenica 18 settembre 2011
Considerazioni sul debito pubblico cinese
Il debito delle amministrazioni provinciali cinesi ammonterebbe a 2.300 miliardi di dollari. La stima sarebbe corroborata dal fatto che diverse amministrazioni locali cinesi sono vicne al default. Se si trasferisce questa somma, da sola, al debito dello stato cinese, la Repubblica Popolare diventa il secondo stato al mondo ad avere il più alto debito pubblico, dietro agli USA. La ragione del debito pubblico delle amministrazioni locali è dovuta in gran parte al fatto, che tali amministrazioni devono farsi carico della costruzione delle infrastrutture, strade, ferrovie, aeroporti, metropolitane, che costituiscono parte integrante dei motivi dello sviluppo cinese. Quindi lo stato centrale non può permettere, in ultima analisi, che le amministrazioni più esposte falliscano e deve quindi intervenire con la propria liquidità a coprire i buchi del debito. Ma così facendo toglie capitale da destinare alla crescita industriale, finora sostenuta in modo massiccio e chiave di volta per l'affermazione a potenza di rango mondiale. La questione del debito delle amministrazioni locali costituisce una sorta di debito occulto per il dragone, che Pechino non rende pubblico, cercando di mantenerlo il più nascosto possibile. Ma l'entità accumulata ha ormai raggiunto livelli di guardia, che non permette la continuazione della politica dello struzzo. Il PIL cinese ha già iniziato a contrarsi ed una delle cause è proprio l'alto tasso di indebitamento presente nel mercato finanziario globale del paese. Del resto anche i fenomeni inflattivi si sono presentati in maniera massiccia, rendendo il sistema cinese tutt'altro che immune dalle patologie dei sistemi capitalistici. Oltre a riflessi di tipo sociale, che si stanno acuendo e che sono dovuti a questa situazione economica, la Cina deve rivedere la propria politica finanziaria per non restare intrappolata nella spirale generata da debito ed inflazione, che può portare a situazioni che Pechino potrebbe non essere preparata a gestire. In questo momento pare difficile comprimere le opere pubbliche, che sono necessarie per completare le infrastrutture necessarie al paese, quindi resta la stretta sul credito per l'industria, con un conseguente abbassamento della produzione, dettata anche dalla minore richiesta di beni, proveniente dai paesi esteri sottoposti alla crisi mondiale. La contrazione della produzione però può metere in moto fenomeni di disoccupazione interna a cui si dovrà dare necessariamente risposta. Le masse che premono dall'interno del paese non si possono disperdere con semplici operazioni di polizia, volente o nolente Pechino dovrà ripensare il proprio atteggiamento sul welfare investendo maggiore risorse per il benessere dei propri cittadini. Socialmente la Cina, ha quindi davanti due strade per affrontare la crisi: o inasprire le misure restrittive o assumere, pur nel quadro del regime al governo, modifiche che introducano un mix di riforme che permettano ad almeno parte dell'economia di sfuggire al rigido controllo. Ma pur essendo la seconda strada la più logica per noi occidentali, le vie prese dal governo cinese paiono andare nella prima direzione, gettando il paese verso un abisso di terrore, che però avrà nelle leggi immutabili del mercato finanziario, uno dei peggiori nemici.
sabato 17 settembre 2011
Israele-Palestina: problema coloni
Mancano pochi giorni al venti settembre, data fatidica della discussione dell'assemblea dell'ONU sul riconoscimento dello stato di Palestina e si fanno più forti i timori di disordini, in special modo in Cisgiordania, il nucleo forte dei seguaci OLP e di Abu Mazen, da dove è partita l'iniziativa della richiesta di riconoscimento presso le Nazioni Unite. I maggiori timori vertono su quello che sarà l'atteggiamento dei coloni israeliani che hanno impiantato i loro insediamenti in modo irregolare, fuori dai confini fissati dai trattati. Le loro paure di essere sfrattati rischiano di trasformarsi in atti violenti contro gli arabi, innescando, così, pericolosi focolai di violenza. I coloni che stanno in questi insediamenti irregolari, sono spesso appartenenti all'estrema destra confessionale ebraica e ritengono il territorio di cui si sono impossessati loro proprietà in forza dei precetti religiosi, proprio per queste ragioni sono molto determinati e diapongono di interi arsenali militari. Il loro atteggiamento verso gli arabi è di ripulsa totale ed in più di una occasione si sono resi protagonisti di atti di vandalismo contro proprietà arabe. Il loro metodo è creare terra bruciata intorno ai propri insediamenti, in modo da tenere un perimetro di sicurezza da eventuali intrusioni arabe. Se lo stato di Palestina dovesse essere riconosciuto sarebbe difficile anche per lo stato israeliano continuare a difenderli, se non violando, come già fatto, le leggi internazionali nei confronti di uno stato sovrano. I coloni rappresentano in effetti una pericolosa anomalia per il diritto internazionale, essendo cittadini di altro stato, stanziati in forma abusiva su territorio straniero. La questione è uno dei punti caldi dei rapporti tra Israele e Palestina e l'ottuso atteggiamento del governo di Tel Aviv, rappresenta la prova della mancata volontà di proseguire nelle trattative. Non bastano, infatti le poche demolizioni di facciata operate dal governo, per sanare la situazione. Anzi il metodo del fare finta di niente rappresenta la strategia governativa per guadagnare terreno in modo illegale al nascente stato di Palestina. Lo stato di Israele è stato più volte sollecitato a fare rispettare i confini ai suoi cittadini, anche da USA ed UE, ma ha solo fornito rassicurazioni di circostanza, non seguite da azioni concrete. Se la dichiarazione dell'assemblea ONU sarà positiva per la Palestina è facile immaginare azioni di ritorsione immediate contro gli arabi, cui seguiranno rappresaglie arabe, sarebbe opportuno che Israele prevenisse questa facile ipotesi, ma Tel Aviv ha interesse ha soffiare sul fuoco per delegittimare da subito lo stato di Palestina con le solite argomentazioni ed aggiungendo anche l'incapacità di mantenere il controllo sulla propria popolazione. Il fatto dei coloni è quindi una vera e propria testa di ponte, che Israele usa per aumentare il proprio territorio in modo subdolo e contrario al diritto internazionale. Eliminare questo problema metterebbe Israele dalla parte giusta per ripartire per la risoluzione del problema palestinese.
giovedì 15 settembre 2011
L'aiuto interessato della Cina
Il debito pubblico europeo crea opportunità per la Cina. Le difficoltà degli stati europei, che non riescono a districare la matassa del proprio debito pubblico, aprono spazi di manovra enormi per Pechino. Si va dal possibile acquisto di partecipazioni ad aziende ritenute strategiche per l'economia cinese, al potere diplomatico che si può ricavare comprando quote di debito pubblico, come ben sanno gli USA costretti a rimangiarsi quote consistenti della loro politica sui diritti civili. Ma esiste un obiettivo ancora maggiore, che se raggiunto consentirebbe alla Cina il raggiungimento di un vero e proprio ossimoro: la definizione di economia di mercato. In sostanza è questo che più preme a Pechino e che la Cina ha pubblicamente richiesto a Bruxelles. In cambio dell'aiuto, in parte già accordato a paesi come Ungheria, Grecia, Portogallo e Spagna e della possibilità di accordarlo all'Italia, la Cina chiede la fine dell'embargo della vendita di armi, ma sopratutto il riconoscimento formale di economia di mercato. La richiesta rappresenta una vera e propria trappola per l'economia europea, mettersi allo stesso piano della Cina, significa avvalorare le pratiche produttive di Pechino, che sono costituite da un insieme di regole che sfociano nella concorrenza sleale. L'assenza dei diritti sindacali e di leggi sulla sicurezza determinano un notevole abbassamento del costo del lavoro, per recuperare il quale l'Europa può solo allinearsi verso il basso, provocando un avvitamento della qualità della produzione e del calo dei consumi. Esistono solo due risposte da dare a Pechino: il rifiuto oppure la contro richiesta di allineare le condizioni di lavoro degli operai ed impiegati cinesi agli standard occidentali. Ma ciò è irricevibile dai dirigenti cinesi perchè richiede uno sforzo legislativo contrario alla direzione intrapresa da Pechino ed abbatte uno dei punti di forza dell'economia cinese: il basso costo del lavoro. Tralasciando il discorso sui diritti civili e fondamentali, che deve comunque sempre essere una pietra di paragone da non spostarsi mai, anche la convenienza economica, al di la del beneficio istantaneo del placare gli indici di borsa, non pare essere un buon affare cedere alle richieste cinesi. Si può obiettare che la situazione è già questa, le aziende occidentali già combattono con queste condizioni di finta concorrenza, ma ciò è vero solo per la produzione di bassa qualità, dove vi è necessità di produzione affidabile o di lusso, sono ancora le azienda occidentali a tenere le quote di mercato maggiori, il tutto con il costo del lavoro più elevato, in un quadro normativo più rigido e sicuro.
Tutto questo deve essere ben chiaro ai governanti che devono decidere se accettare questi aiuti. Mettere al nemico le chiavi di casa in mano non è mai un buon investimento.
Tutto questo deve essere ben chiaro ai governanti che devono decidere se accettare questi aiuti. Mettere al nemico le chiavi di casa in mano non è mai un buon investimento.
mercoledì 14 settembre 2011
Le ambizioni turche
Per la Turchia si aprono ben due fronti militari. In realtà si tratta di due problemi già conosciuti, ma che, al momento subiscono una accelerata pericolosa. Le dichiarazionidi provenienti dal governo di Ankara, infatti, ribadiscono la chiara volontà di schierare le proprie navi militari al fianco della prossima flottiglia umanitaria diretta a Gaza. Per il momento, però non è prevista alcuna partenza ed i discorsi turchi sono funzionali all'innalzamento della tensione con Tel Aviv. Dietro queste dichiarazioni vi è la volontà turca di affermarsi come potenza regionale e diventare il faro dell'islamismo moderato che sta andando ad affermarsi nelle primavere arabe. Il progetto è chiaro, aggregare i movimenti moderati attraverso un facile nemico comune e diventarne leader. Politicamente ed economicamente è un grosso investimento, la Turchia rifiutata dall'Europa guarda al altri alleati ed altri mercati da posizione privilegiata. Israele, con le dichiarazioni caute, molto caute, del proprio vice primo ministro, mostra di affrontare la situazione con molto pragmatismo, al contrario dei metodi soliti praticati da questo governo. La presa d'atto che i due paesi sono strategici per gli USA, ed un conflitto aperto non sarebbe sopportbile per i due paesi, porta Tel Aviv a mettersi di fronte alla situazione con cautela, nella speranza di recuperare l'amicizia turca. L'atteggiamento israeliano, questa volta potrebbe portare ad una soluzione del problema, che risulta strategico più per Tel Aviv, alla fine, che per Ankara. Dietro a tutto ciò vi è il silenzio USA, che non vuole dire disinteresse, ma, anzi, massima preoccupazione, trattata con iniziative molto riservate. L'altro fronte turco è il Kurdistan, regione autonoma iraqena, da dove vengono diretti gli attacchi contro i militari turchi e più volte violato da azioni di ritorsione dell'esercito di Ankara. Il problema del passaggio senza permesso di militari di un'altra nazione, ha destato più di una lamentela in sede internazionale. Per altro la posizione iraqena non è troppo preoccupata, la questione curda crea preoccupazioni anche a Bagdad. Tuttavia l'intenzione della Turchia è di concordare proprio con le autorità iraqene le azioni che prevedono lo sconfinamento in territorio straniero. Comunque la Turchia non tralascia neppure l'opzione diplomatica per arginare il fenomeno del terorismo curdo: inontri con le autorità del Kurdistan iraqeno sono previsti per i membri del governo di Ankara. L'attivismo turco diventa così il cavallo di battaglia di Erdogan, che dopo avere avuto discreti successi riguardanti l'economia, con una crescita del PIL apprezzabile, grazie al lungimirante sguardo gettato verso l'oriente della regione, punta ora a ritagliarsi uno spazio diplomatio e militare degno di una media potenza. Ciò che Erdogan vuole è una Turchia che conti di più, non solo nell'area regionale ma anche a livello mondiale, estendendo la propria influenza verso le nascenti democrazie arabe. Si tratta di un progetto ambizioso che ha qualche possibilità di riuscita perchè l'elemento fondamentale su cui punta è quello religioso e sociale.
martedì 13 settembre 2011
Crisi e UE: il punto della situazione
Tocca alla Francia andare sotto pressione, Parigi paga il mix di alto debito pubbico e sistema bancario fortemente esposto con la Grecia. Anche per Sarkozy si avvicinano, quindi, gli strali dei pesi dell'europa settentrionale e potrebbe compromettersi il rapporto, fin qui privilegiato, con la Germania. Tuttavia la fazione anti euro tedesca, non riesce a prendere il sopravvento, troppi i timori degli imprenditori che hanno paura dei paesi del sud europa con in mano la leva della svalutazione. Se un paese come l'Italia avesse avuto questo potere in mano la concorrenzialità dei prodotti tedeschi avrebbe subito un grave danno. L'importanza del mercato europeo rimane centrale nelle strategie delle aziende mondiali, nonostante una buona crescita di fatturato nei paesi in via di sviluppo, l'area euro resta il cliente più appetibile, quello di fare la differenza in sede di analisi finanziaria. Lo capisce bene la Cina, che secondo indiscrezioni, starebbe per lanciarsi sui titoli pubblici italiani, dando una grossa mano al bel paese. Chiaramente un aiuto interessato, sia nell'immediato, che in proiezione futura. Radicarsi in Italia, per gli imprenditori cinesi sarebbe avere accesso al know-how che manca al dragone per spiccare il volo verso la produzione di qualità. La situazione generale resta comunque indefinita e crea gli spazi per azioni come quella cinese. Il problema fondamentale, paradossalmente potrebbe non essere più il debito pubblico in se stesso, ma chi lo ha comprato. L'alta esposizione bancaria verso paesi sempre in maggiore difficoltà è la vera causa di un possibile crollo del sistema. Senza le banche il credito finisce e crea la morte della produzione e degli investimenti. E' una cosa ovvia da dire, come ovvio è il concetto, ma allora perchè i sistemi preposti non hanno operato il dovuto controllo? Tra l'altro non è un fenomeno recente, dai bond argentini è passato un po di tempo, il sospetto, legittimo, che si presenta è che, chi ora grida allo scandalo, prima abbia avuto i suoi guadagni. S'intende che la condotta di chi ha creato tanto debito pubblico, senza peraltro migliorare la condizione della è popolazione, merita la peggiore condanna, ma anche chi non ha controllato merita qualche pena accessoria. Qui si presenta un altro problema, se fino ad ora la direzione era andare verso un governo comune dell'economia, con la UE protagonista, le recenti vittorie dei partiti nazionalisti, combinate alla situazione attuale, vogliono tornare ad una direzione europea frammentata, l'ultimo caso è la dichiarazione del premier olandese, ma se si sceglie questa via si decreta la morte dell'euro. Anche accettando di presentarsi di fronte ai colossi emergenti ed alla globalizazione divisi, quindi già perdenti, l'approccio dei paesi nordici resta sbagliato, giacchè ora lamentano, si ripete giustamente, la stortura della situazione, ma non ricordano di avere precedentemente, tramite i loro istituti bancari goduto della situazione. Quindi se si vuole un sistema più equo, ognuno riconosca le proprie colpe e si riparta da zero. Più controlli a livello centrale e limiti ben definiti e certi, superati i quali scattino sanzioni cui non si possa sfuggire, maggiore severità contro i banchieri d'assalto, che riversano le proprie perdite sulla collettività e viceversa maggiore possibilità di sviluppo a chi pratica attività finanziaria nei limiti fissati. Stessi criteri con gli stati, l'istituto del pareggio di bilancio è solo il punto da cui partire, occorre entrare anche nel merito della spesa pubblica, sostenendo i capitoli di spesa che favoriscano una crescita etica e diano all'intera collettività le opportunità per crescere.
Crisi e UE: il punto della situazione
Tocca alla Francia andare sotto pressione, Parigi paga il mix di alto debito pubbico e sistema bancario fortemente esposto con la Grecia. Anche per Sarkozy si avvicinano, quindi, gli strali dei pesi dell'europa settentrionale e potrebbe compromettersi il rapporto, fin qui privilegiato, con la Germania. Tuttavia la fazione anti euro tedesca, non riesce a prendere il sopravvento, troppi i timori degli imprenditori che hanno paura dei paesi del sud europa con in mano la leva della svalutazione. Se un paese come l'Italia avesse avuto questo potere in mano la concorrenzialità dei prodotti tedeschi avrebbe subito un grave danno. L'importanza del mercato europeo rimane centrale nelle strategie delle aziende mondiali, nonostante una buona crescita di fatturato nei paesi in via di sviluppo, l'area euro resta il cliente più appetibile, quello di fare la differenza in sede di analisi finanziaria. Lo capisce bene la Cina, che secondo indiscrezioni, starebbe per lanciarsi sui titoli pubblici italiani, dando una grossa mano al bel paese. Chiaramente un aiuto interessato, sia nell'immediato, che in proiezione futura. Radicarsi in Italia, per gli imprenditori cinesi sarebbe avere accesso al know-how che manca al dragone per spiccare il volo verso la produzione di qualità. La situazione generale resta comunque indefinita e crea gli spazi per azioni come quella cinese. Il problema fondamentale, paradossalmente potrebbe non essere più il debito pubblico in se stesso, ma chi lo ha comprato. L'alta esposizione bancaria verso paesi sempre in maggiore difficoltà è la vera causa di un possibile crollo del sistema. Senza le banche il credito finisce e crea la morte della produzione e degli investimenti. E' una cosa ovvia da dire, come ovvio è il concetto, ma allora perchè i sistemi preposti non hanno operato il dovuto controllo? Tra l'altro non è un fenomeno recente, dai bond argentini è passato un po di tempo, il sospetto, legittimo, che si presenta è che, chi ora grida allo scandalo, prima abbia avuto i suoi guadagni. S'intende che la condotta di chi ha creato tanto debito pubblico, senza peraltro migliorare la condizione della è popolazione, merita la peggiore condanna, ma anche chi non ha controllato merita qualche pena accessoria. Qui si presenta un altro problema, se fino ad ora la direzione era andare verso un governo comune dell'economia, con la UE protagonista, le recenti vittorie dei partiti nazionalisti, combinate alla situazione attuale, vogliono tornare ad una direzione europea frammentata, l'ultimo caso è la dichiarazione del premier olandese, ma se si sceglie questa via si decreta la morte dell'euro. Anche accettando di presentarsi di fronte ai colossi emergenti ed alla globalizazione divisi, quindi già perdenti, l'approccio dei paesi nordici resta sbagliato, giacchè ora lamentano, si ripete giustamente, la stortura della situazione, ma non ricordano di avere precedentemente, tramite i loro istituti bancari goduto della situazione. Quindi se si vuole un sistema più equo, ognuno riconosca le proprie colpe e si riparta da zero. Più controlli a livello centrale e limiti ben definiti e certi, superati i quali scattino sanzioni cui non si possa sfuggire, maggiore severità contro i banchieri d'assalto, che riversano le proprie perdite sulla collettività e viceversa maggiore possibilità di sviluppo a chi pratica attività finanziaria nei limiti fissati. Stessi criteri con gli stati, l'istituto del pareggio di bilancio è solo il punto da cui partire, occorre entrare anche nel merito della spesa pubblica, sostenendo i capitoli di spesa che favoriscano una crescita etica e diano all'intera collettività le opportunità per crescere.
lunedì 12 settembre 2011
Israele: il corpo estraneo
L'isolamento di Israele è ormai cosa fatta, il paese è un corpo estraneo nella regione. Tutti i governi che si sono succeduti dalla creazione dello stato israeliano non sono stati in grado di integrare la nazione nel contesto formato dai paesi vicini, non hanno trovato, cioè, alcun modus vivendi, alcuna forma di collaborazione, che inquadrasse il paese all'interno dell'area geografica in cui si trova. Certo mai come ora la nazione soffre di una sindrome di quasi totale accerchiamento e di una penuria di simpatia nel consesso internazionale. Ma questo stato di cose è la somma di anni di politica estera sbagliata, di mancanza di capacità di previsioni azzeccate e sostanziale immobilismo su idee ormi fuori tempo. Non avere risolto il problema palestinese, ostinandosi ad attegiamenti impossibili da condividere, pone lo stato israeliano sempre più in una posizione di pericolo, se non per la propria sopravvivenza, per lo svolgimento normale della vita del suo popolo. La scarsa lungimiranza dei governanti di Tel Aviv, arroccati nelle loro posizioni, non ha saputo capire ed anticipare con gesti significativi, la primavera araba, ed ora, mancata l'occasione, navigano a vista senza alcun programma di lungo periodo. Non è possibile che uno stato che si dichiara l'unica democrazia del medio oriente, non abbia mai levato una voce contro gli oppressori degli stati vicini, per il solo fatto, che erano funzionali alla vita del loro stato. La mancanza di Israele è stata quella di privilegiare le proprie ragioni, senza parlare in nome dei diritti universali. Se questa tattica ha garantito, in maniera miope, diversi anni di tranquillità, ora la storia potrebbe presentare il conto. Riconoscere immediatamente lo stato palestinese, all'inizio della primavera araba, era il male minore, la tattica giusta per uscire dalla situazione pericolosa che si stava creando. Viceversa, piccoli interessi di bottega, come qualche chilometro di territorio, hanno impedito di cogliere questa occasione storica, sempre nel solco di una ottusità politica disarmante. Adesso Israele attende lo sviluppo degli eventi in un equilibrio instabile, seduto sulla polveriera che esso stesso si è creato. Non si vede attività, non si capiscono le intenzioni di un governo in difficoltà sia nel fronte interno, che in quello esterno, il paese sembra sospeso in una attesa sfibrante. Tel Aviv ha perso la Turchia, l'Egitto, tra poco potrebbe cadere anche Assad e non basta la piccola Grecia, oltre tutto alle prese con problemi più grandi di lei, a rimpiazzare gli alleati perduti. Difficile dire cosa potrà accadere, ma un Israele sempre più isolato, non potrà continuare nella politica perseguita fino ad ora, senza un cambio di rotta significativo le conseguenza per la stella di David potrebbero diventare veramente problematiche.
domenica 11 settembre 2011
La crisi, opportunità per la UE
L'Europa si sta spaccando sul debito delle nazioni del sud. L'avversione dimostrata dalla Germania è condivisa da altri stati del nord, che non intendono più contribuire al salvataggio, mediante l'acquisto di titoli pubblici di paesi a forte indebitamento, compiuti dalla BCE. La spaccatura è geografica, da una parte Italia, Spagna, Portogallo e Grecia dall'altra l'Europa del nord, con la Francia a metà. Il caso francese è singolare, l'attivismo di Sarkozy maschera a fatica le condizioni non buone dell'economia di Parigi, che non è ancora assimilabile a quelle del meridione del continente, ma che potenzialmente potrebbe diventarlo. Quali scenari si aprono? La gamma delle soluzioni è vasta: uscita dall'euro per i paesi più malconci, europa a due velocità (l'anticamera della dissoluzione europea) o fine della sovranità nazionale ed economia statale dei paesi in crisi messa sotto tutela dagli organismi centrali, che in parole povere vuole dire dirigismo tedesco sulle economie in difficoltà. Sempre che la Germania voglia continuare a restare nell'euro ed in Europa. Se la seconda ipotesi è difficile perchè Berlino ha necessità del mercato europeo, che di vedrebbe ridurre notevolmente in caso di uscita dalla UE, la prima ipotesi ha più possibilità di realizzarsi. Senza misure strutturali che riportino i valori economici e finanziari dell'intera UE entro numeri significativi, per la Germania significa un esborso consistente, che non permette alcun guadagno. La cancelliera Merkel sta subendo batoste elettorali consistenti che la obbligano, forzatemente, ad un cambio di passo che le permetta di recuperare il terreno perduto sul versante elettorale. I tedeschi stanno percependo l'Europa come una zavorra per il loro sviluppo, dimenticando peraltro di avere riversato sul continente i costi per la loro riunificazione, e vogliono mani più libere per la loro economia. Purtroppo hanno ragioni da vendere, la questione del debito è solo la parte più rilevante del problema. I paesi in crisi, infatti, non hanno maturato una condizione di flessibilità nella loro conduzione politica del cambiamento imposto dalla globalizzazione. Non si sono, cioè, attrezzati con strumenti adatti per ripensare le loro economie. Il caso italiano è emblematico, uno dei più grandi paesi industrializzati, ha saputo rispondere al cambiamento solo con delocalizzazioni della produzione, perdendo capacità e conoscenze, che hanno determinato il crollo industriale e manifatturiero. Questo per dire che il solo controllo del debito, non è condizione sufficiente per uscire dalla crisi. In questo senso ha più ragione di essere una centralizzazione delle decisioni in materia economica, che possano superare le incapacità locali. In presenza di persone capaci ed autorevoli, con regole certe e sicure, accentrare il processo decisionale non deve essere visto come una diminuzione della sovranità statale, ma come una opportunità per l'insieme del sistema. Se questo si concretizzasse la crisi avrebbe rappresentato una occasione di rafforzamento della UE ed un ulteriore passo avanti nel'unificazione.
sabato 10 settembre 2011
La Somalia banco di prova del potere internazionale
La situazione somala continua ad essere molto difficile. La carestia non è solo dovuta alla siccità, ma anzi, ora con l'arrivo degli aiuti al vuoto politico. Il governo in carica, pur tentando di salvaguardare la popolazione, non è dotato dei mezzi necessari per contenere le milizie islamiche, che, oltre ad avere sotto stretto controllo una parte del paese, operano anche incursioni nelle zone sotto il controllo del governo, assaltando i depositi con le scorte. Tutto il paese è nel caos, con vere e proprie invasioni di profughi che raggiungono gli agglomerati urbani in cerca di cibo. La risposta internazionale a questo problema è finora stata insufficiente, il solo invio di aiuti alimentari e medici non basta in una situazione dove la pace non esiste, ed anzi espone al pericolo il personale delle ONG, impegnato sul campo. Senza aiuti militari la Somalia non potrà uscire dalla crisi, nell'immediato significa sempre più vittime della carestia e delle violenze, nel futuro una massa sempre più grossa di disperati che premeranno alle porte dell'occidente. E' inspiegabile come l'ONU non sia andata aldilà di appelli senza decidere l'invio di una forza armata sotto la sua egida. I caschi blu rappresentano oramai l'unica soluzione possibile per fermare un ulteriore massacro annunciato; ed anche l'atteggiamento della NATO, pronta ad entrare velocemente in campo in Libia, si distingue per un silenzio assordante. Eppure sarebbe una occasione per legittimare agli occhi di tutti gli osservatori un ruolo di forza operante per la pace a trecentosessanta gradi; lo sforzo necessario non sarebbe poi così ingente. L'uso della forza aerea contro i ribelli li costringerebbe in poco tempo a lasciare parecchi metri di terreno e sfamare letteralmente un grande numero di persone; se l'epressione guerra umanitaria ha un significato concreto, mai come in questo caso sarebbe spiegato meglio. I paesi ricchi hanno il dovere morale di impegnarsi per fare cessare questa situazione e le organizzazioni internazionali per giustificare la loro stessa esistenza. Senza una soluzione certa e definitiva, che getti le basi anche per evitare altre situazioni analoghe, tutta l'impalcatura messa in piedi dal secondo dopoguerra ha definitivamente cessato ragione di esistere.
venerdì 9 settembre 2011
Si avvicina l'apertura dell'assemblea ONU
Il conto alla rovescia per la sessione di apertura dell'Assemblea della Nazioni Unite sta per scadere. Si entrerà così nel vivo del dibattito per il riconoscimento della Palestina. La tattica portata avanti da Abu Mazen si sta rivelando implacabile per Israele; i contatti allacciati dal capo dell'Autorità Nazionale Palestinese si sono fatti più serrati per trovare i riconoscimenti necessari in sede assembleare. Tale strategia si è resa necessaria dal veto che verrà messo sicuramente, come già annunciato, dagli Stati Uniti in sede di Consiglio di sicurezza. In questo caso la vittoria palestinese, più che reale avrà valore simbolico, ma si tratterà di un valore simbolico molto elevato, che costringerà ancora di più Tel Aviv nell'angolo dell'isolamento giuridico, economico e politico del consesso mondiale. Abu Mazen portando alle Nazioni Unite la discussione sul riconoscimento dello stato palestinese, spera con questa azione di mettere riparo ai numerosi fallimenti del processo di pace e di creare uno stato a tutti gli effetti per i palestinesi. Il contorno a questa richiesta saranno manifestazioni di massa, che, sebbene si annuncino pacifiche, sono molto temute, per la paura di degenerazioni che possano dare vita a scontri con Israele. Anche su queste paure si basano i tentativi di Washington e Tel Aviv per fare desistere Abu Mazen dai suoi propositi e rifarlo sedere al tavolo delle trattative. Cosa che probabilmente il capo dell'ANP farà dopo avere incassato il voto di maggioranza dell'assemblea dell'ONU, che gli permetterà di trattare da altre posizioni, sempre che Israele accetti ancora, dopo quella che sarà una bruciante sconfitta di sedersi al tavolo. In questi periodi Israele ha vissuto con fastidio l'iniziativa palestinese, patendo le manovre diplomatiche di Abu Mazen, che hanno riscosso molto successo in diversi paesi, che hanno promesso l'aiuto necessario presso l'ONU, ma per il momento tace in attesa delle decisioni ufficiali senza volere scoprire le proprie carte.
giovedì 8 settembre 2011
Obama deve affrontare il problema lavoro
Otto milioni di disoccupati degli Stati Uniti pesano sul futuro della rielezione di Obama. Il costo sociale della recessione è stato altissimo per gli USA, nonostante una presidenza non repubblicana, la risposta del governo democratico non è riuscita ad arginare l'emorragia di posti di lavoro, creando una situazione sociale decisamente pesante. Non era questo che gli elettori si aspettavano da un presidente democratico. Il tema è sempre più centrale nelle problematiche che affliggono il paese e rappresenta una ferita con il rapporto con gli elettori. Per mettere un riparo alla situazione, Barack Obama sta elaborando un piano da 300 miliardi di dollari per iniettare nell'economia americana la liquidità necessaria per abbattere la quota di disoccupazione. La soluzione dovrebbe riguardare il rilancio dell'occupazione tramite l'incremento dei lavori pubblici con la costruzione di infrastrutture, in modo da creare un volano economico capace di erodere il numero dei senza lavoro. L'ammontare della quota da investire sarà rastrellata con un mix di tagli di spesa e nuove tasse, tutavia, questo programma è contrario agli intendimenti dei repubblicani, che hanno la maggioranza al congresso e che pensano di stimolare l'economia abbassando la tassazione. Il rischio della ripetizione del duro confronto sul debito pubblico USA, rischia così di ripetersi. Per Obama è importante recuperare quote di popolarità, per riguadagnare posizioni dall'attuale 40%, il dato più basso da quando è stato eletto come Presidente degli USA. Per il paese le questioni internazionali sono passate in secondo piano, gli Stati Uniti sembrano ripiegati su se stessi a causa di una crisi economica che ha fatto crollare il castello di carte della finanza, mettendo la popolazione nell'incertezza ed a rischio la pace sociale. D'altronde queste erano anche le condizioni che hanno favorito l'ascesa di Obama, non avere risolto questi problemi mette in forte pericolo la sua rielezione, anche se la concorrenza, un partito repubblicano frammentato e diviso, alla fine, rappresenta un punto a favore del presidente in carica. Tuttavia senza elaborare un piano che avvii una soluzione del problema del lavoro, Obama è un candidato inattendibile, gli obiettivi raggiunti, sulla diminuzione delle truppe USA nel mondo, l'eliminazione di Bin Laden ed il nuovo atteggiamento di retroguardia scelto sul piano internazionale, non bastano, quando la centralità del problema è ormai diventato quello economico. Senza robuste soluzioni sul fronte interno, che ormai è il principale, Obama rischia la delegittimazione nel paese restando la sua una presidenza incompiuta.
mercoledì 7 settembre 2011
Il PIL cinese si contrae
Anche la Cina diventa vittima della crisi economica. Secondo stime ufficiali dell'amministrazione della Repubblica popolare cinese, il tasso di crescita per il prossimo anno, il 2012, dovrebbe andare sotto il 9%, il dato peggiore dal 2001. Questa tendenza ha già iniziato a manifestarsi nel secondo trimestre del 2011, con un PIL al 9,5%, con una lieve flessione rispetto al trimestre precedente, quando il dato registrato era del 9,7%. Le stime per l'ultimo trimestre vanno in questa direzione con un 9% di PIL previsto, mentre per il 2012 il dato previsto complessivo si attesta all' 8,3%.
Gli esperti imputano il calo del 2011 alla stretta monetaria con la quale il governo cinese sta tentando di combattere il fenomeno inflattivo che ha colpito il dragone; i minori investimenti compressi dalla limitazione dell'accesso al credito hanno determinato un calo della produzione che si è riflesso, inevitabilmente, sul dato della crescita. Ma per il 2012 il PIL cinese risentirà anche dell'indebolimento a livello mondiale della domanda dei beni e servizi. Questa causa, combinata con gli effetti, che potrebbero essere residui se il governo allenterà la stretta monetaria, determinati dalla lotta all'inflazione causerà una compressione del livello di crescita di una delle locomotive mondiali. Stando così le cose, Pechino potrebbe approfittare di questa evenienza negativa per abbassare ancora di più l'inflazione che l'affligge, ma che sopratutto potrebbe aggravare l'economia del paese. Una ancora maggiore stretta del credito compenserebbe la minore domanda e potrebbe così permettere al governo cinese la prevenzione di un fenomeno inflattivo più elevato e molto temuto. La questione è se una minore crescita consentirà la politica espansiva della Cina; va detto che nella attuale situazione mondiale un tasso di crescita come quello cinese rappresenta un valore di tutto rispetto, che può contenere gli effetti negativi della percentuale di PIL mancante, più difficile se la fase recessiva mondiale dovesse permanere: il volume di produzione invenduto potrebbe bloccare la catena produttiva, con gravi ripercussioni sulla struttura economica del paese, oltre che generare gravi problematiche di tipo sociale che andrebbero ad aggiungersi alla già difficile situazione sui diritti civili. E' possibile che la Cina, detentrice di gran parte del debito pubblico mondiale, provi a stimolare le altre economie, specialmente quelle più propense al consumo (gli USA ad esempio) con politiche monetarie ad hoc, ma questo sarebbe solo rinviare il problema. La realtà è che la Cina ha immesso troppe merci su di un mercato che in parte è saturo ed in parte non è più in grado di comprare, i soli mercati emergenti non bastano a smaltire una produzione gigantesca e la crisi dei paesi ricchi si abbatte su quelli come la Cina, basati su di un volume enorme di produzione. Per la Cina la strada sarebbe una maggiore specializzazione nei settori trainanti (ad esempio il lusso), ma il livello produttivo attuale non consente a Pechino un reimpiego immediato della parte necessaria dell'economia per mantenere il PIL in doppia cifra.
Gli esperti imputano il calo del 2011 alla stretta monetaria con la quale il governo cinese sta tentando di combattere il fenomeno inflattivo che ha colpito il dragone; i minori investimenti compressi dalla limitazione dell'accesso al credito hanno determinato un calo della produzione che si è riflesso, inevitabilmente, sul dato della crescita. Ma per il 2012 il PIL cinese risentirà anche dell'indebolimento a livello mondiale della domanda dei beni e servizi. Questa causa, combinata con gli effetti, che potrebbero essere residui se il governo allenterà la stretta monetaria, determinati dalla lotta all'inflazione causerà una compressione del livello di crescita di una delle locomotive mondiali. Stando così le cose, Pechino potrebbe approfittare di questa evenienza negativa per abbassare ancora di più l'inflazione che l'affligge, ma che sopratutto potrebbe aggravare l'economia del paese. Una ancora maggiore stretta del credito compenserebbe la minore domanda e potrebbe così permettere al governo cinese la prevenzione di un fenomeno inflattivo più elevato e molto temuto. La questione è se una minore crescita consentirà la politica espansiva della Cina; va detto che nella attuale situazione mondiale un tasso di crescita come quello cinese rappresenta un valore di tutto rispetto, che può contenere gli effetti negativi della percentuale di PIL mancante, più difficile se la fase recessiva mondiale dovesse permanere: il volume di produzione invenduto potrebbe bloccare la catena produttiva, con gravi ripercussioni sulla struttura economica del paese, oltre che generare gravi problematiche di tipo sociale che andrebbero ad aggiungersi alla già difficile situazione sui diritti civili. E' possibile che la Cina, detentrice di gran parte del debito pubblico mondiale, provi a stimolare le altre economie, specialmente quelle più propense al consumo (gli USA ad esempio) con politiche monetarie ad hoc, ma questo sarebbe solo rinviare il problema. La realtà è che la Cina ha immesso troppe merci su di un mercato che in parte è saturo ed in parte non è più in grado di comprare, i soli mercati emergenti non bastano a smaltire una produzione gigantesca e la crisi dei paesi ricchi si abbatte su quelli come la Cina, basati su di un volume enorme di produzione. Per la Cina la strada sarebbe una maggiore specializzazione nei settori trainanti (ad esempio il lusso), ma il livello produttivo attuale non consente a Pechino un reimpiego immediato della parte necessaria dell'economia per mantenere il PIL in doppia cifra.
Il pericolo Gheddafi
Dove è Gheddafi? La domanda è fondamentale per il futuro della Libia, sopratutto quello immediato. Infatti il Colonnello ancora vivo e fuori dalla portata di un giusto processo è senz'altro un pericolo concreto per i nuovi assetti che il paese si vuole dare. Il momento di confusione cha la Libia sta attraversando a seguito della conclusione del conflitto, nonostante siano presenti ancora alcune zone dove i combattimenti continuano, rappresenta un grande motivo di vulnerabilità sia per l'autorità del CNT, cheper la stessa popolazione. In Libia è verosimile pensare che vi siano ancora seguaci del colonnello che possano essere manovrati dall'estero per attentati con scopi di destabilizzazione.
Instaurare un clima di tensione a seguito di atti violenti è una tattica già ampiamente provata in Iraq ed in Afghanistan, dopo il cambio di regime, tesa a gettare il paese in una situazione invivibile sopratutto per la popolazione. Attentati con kamikaze contro uffici pubblici e forze di polizia sono stati i metodi che hanno complicato la nascita delle nuove istituzioni ed hanno rallentato il processo di radicazione della democrazia e comunque dei nuovi ordinamenti.
Gettare la nazione nell'incertezza potrebbe riaprire le porte ad un rientro del colonnello in versione di normalizzatore. Se questa possibilità è remota, le risorse finanziarie comunque disponibili del colonnello, possono consentire diverse forme di pressione sulla nascente nazione libica. Occorre ricordare che le partecipazioni finanziarie mascherate da scatole cinesi in mano al rais possono condizionare, seppure indirettamente, le aziende libiche. L'incognita Gheddafi, quindi, continua a pesare sul futuro di Tripoli, anche in ragione del fatto che il dittatore avrà trovato rifugio in uno dei paesi africani lautamente finanziati in passato. Esistono, infatti, grandi crediti, a seguito di elargizione di denaro per appianare debiti, costruire infrastrutture o semplicemente per corrompere i governanti di turno, a favore di Gheddafi nei confronti di alcuni paesi africani, dove il rais può trovare rifugio, essere adeguatamente protetto e fare sentire di nuovo la sua voce. La scomparsa, concretizzata con la fuga, di Gheddafi, può essere anche fonte di apprensione per l'occidente ed in special modo le nazioni componenti l'alleanza dei volenterosi, che hanno contribuito al rovesciamento del regime. Nonostante lo spazio di manovra nei confronti di queste nazioni sia più limitato, non è da escludere la volontà di vendetta, per avere sostenuto il CNT. Anche contro questi paesi potrebbe essere applicata una strategia della tensione mediante attentati, anche clamorosi, per dare nuova visibilità alla figura del colonnello. Per tutte queste riflessioni, oltre alle colpe passate, è importante uno sforzo congiunto per assicurare Gheddafi alla Corte dell'Aja, dove, in aggiunta al giusto processo, deve essere avviata una disamina sugli anni di dittatura libica e sulle ragioni che ne hanno favorito una così lunga permanenza al potere, grazie, anche ai paesi occidentali, che hanno contribuito a cacciarlo.
Instaurare un clima di tensione a seguito di atti violenti è una tattica già ampiamente provata in Iraq ed in Afghanistan, dopo il cambio di regime, tesa a gettare il paese in una situazione invivibile sopratutto per la popolazione. Attentati con kamikaze contro uffici pubblici e forze di polizia sono stati i metodi che hanno complicato la nascita delle nuove istituzioni ed hanno rallentato il processo di radicazione della democrazia e comunque dei nuovi ordinamenti.
Gettare la nazione nell'incertezza potrebbe riaprire le porte ad un rientro del colonnello in versione di normalizzatore. Se questa possibilità è remota, le risorse finanziarie comunque disponibili del colonnello, possono consentire diverse forme di pressione sulla nascente nazione libica. Occorre ricordare che le partecipazioni finanziarie mascherate da scatole cinesi in mano al rais possono condizionare, seppure indirettamente, le aziende libiche. L'incognita Gheddafi, quindi, continua a pesare sul futuro di Tripoli, anche in ragione del fatto che il dittatore avrà trovato rifugio in uno dei paesi africani lautamente finanziati in passato. Esistono, infatti, grandi crediti, a seguito di elargizione di denaro per appianare debiti, costruire infrastrutture o semplicemente per corrompere i governanti di turno, a favore di Gheddafi nei confronti di alcuni paesi africani, dove il rais può trovare rifugio, essere adeguatamente protetto e fare sentire di nuovo la sua voce. La scomparsa, concretizzata con la fuga, di Gheddafi, può essere anche fonte di apprensione per l'occidente ed in special modo le nazioni componenti l'alleanza dei volenterosi, che hanno contribuito al rovesciamento del regime. Nonostante lo spazio di manovra nei confronti di queste nazioni sia più limitato, non è da escludere la volontà di vendetta, per avere sostenuto il CNT. Anche contro questi paesi potrebbe essere applicata una strategia della tensione mediante attentati, anche clamorosi, per dare nuova visibilità alla figura del colonnello. Per tutte queste riflessioni, oltre alle colpe passate, è importante uno sforzo congiunto per assicurare Gheddafi alla Corte dell'Aja, dove, in aggiunta al giusto processo, deve essere avviata una disamina sugli anni di dittatura libica e sulle ragioni che ne hanno favorito una così lunga permanenza al potere, grazie, anche ai paesi occidentali, che hanno contribuito a cacciarlo.
lunedì 5 settembre 2011
Per la NATO ancora lontano il momento di lasciare la Libia
La NATO non ha ancora in vista il ritiro dalla Libia. Il segretario generale dell'organizzazione atlantica, ha ribadito che il mandato è stato quello di proteggere i civili e la cattura di Gheddafi non costituisce l'elemento determinante per la fine della missione; anzi, nonostante l'ormai certa vittoria del CNT, la pericolosità per i civili non è cessata, data la ancora attiva presenza dei lealisti del rais. Rasmussen ha affermato che la NATO finirà il suo compito quando la popolazione civile non sarà più soggetta alla minaccia della violenza e quando un riesame completo della situazione consentirà di accertarne la sicurezza. Quello che il segretatio della NATO non ha detto che se la guerra libica seguirà lo schema iraqeno non serviranno più gli aerei ma le forze di terra. Quella che rischia di scatenarsi, infatti è una forma di guerriglia che può logorare il fragile potere del CNT. Risulta difficile credere che i lealisti si facciano da parte in modo subitaneo alla fine della guerra, non fosse altro che per proteggersi mediante il ricercare di mandare il paese nel caos. Gli interessi che ruotano intorno ai ricchi giacimenti del petrolio libico, inoltre rappresentano un fattore di potenziale destabilizzazione fin tanto che il CNT non avrà raggiunto un grado di penetrazione amministrativa sufficiente a controllare, non solo militarmente, la gran parte del territorio libico. Esiste poi la concreta possibilità da parte degli insorti di instaurare un clima di vendetta, che andrebbe, inevitabilmente ad intaccare la sicurezza dei civili. A sostegno di questa tesi esiste, peraltro, la preoccupazione dell'ONU, che ha pensato addirittura ad un impiego dei caschi blu come forza di polizia, per la grande diffusione delle armi leggere tra la popolazione, che costituisce un fattore aggravante dei pericoli potenziali per i civili. Verosimilmente per la NATO, ma non con l'aviazione, occorrerà aspettare l'esito elettorale in programma tra circa venti mesi e verificare gli assetti che ne risulteranno. Anche l'atteggiamento delle tribù, che fino ad ora ha costituito l'unico elemento di aggregazione sociale, sarà fondamentale per capire il momento dell'abbandono definitivo del paese.
Le navi militari turche potrebbero forzare il blocco di Gaza
Se il proposito della Turchia di fare affiancare le proprie navi umanitarie, dirette alla striscia di Gaza, dalle navi militari della propria marina, dovesse concretizzarsi, il pericolo di uno scontro armato con Israele avrebbe grandi probabilità di diventare concreto. Mai come ora Israele è davanti ad un bivio tanto pericoloso, o ricomporre la diatriba con Ankara o perseverare nella propria posizione. Va anche detto che alla Turchia potrebbe non bastare la sola ricomposizione diplomatica, ma potrebbe anche pretendere comunque, la rimozione del blocco navale dalla striscia di Gaza, come contropartita per la riparazione al precedente incidente. Se Israele, ormai di fatto isolato nella regione, dovesse restare arroccato sulle posizioni che prevedono il blocco navale di Gaza, è difficile prevedere le conseguenze del possibile scontro armato. Dal punto di vista militare occorre ricordare che la Turchia è membro NATO, quindi se attaccata tutta l'alleanza deve rispondere a fianco di Ankara, ma gli USA sono anche i principali alleati di Israele, ed entrerebbero in un delicato dilemma. L'ONU, che ha grande responsabilità sulla rottura diplomatica, per avere emesso una risoluzione pilatesca sui fatti della flottiglia, dove condannava l'azione israeliana, ma nello stesso tempo ne avvalorava la scelta di avere messo il blocco navale di fronte alla striscia come proprio diritto, è entrato in fibrillazione, e sta cercando in tutti i modi di scongiurare lo scontro. Tuttavia l'azione delle Nazioni Unite non sembra credibile alla Turchia proprio per non avere saputo dirimere la questione. Infatti il governo turco si è mosso verso la Corte di giustizia dell'Aja, dove ha presentato il quesito sulla legittimità, per il diritto internazionale, del blocco navale di Israele. D'altro canto la Turchia ha affermato che accetterà, quale sarà, il giudizio della corte. La probabilità di un giudizio favorevole ad Israele non appaiono, tuttavia, consistenti. Come sarà la reazione di Tel Aviv in caso sfavorevole? Esistono notevoli perplessità sulla flessibilità di Nethanyau, che rischia di trascinare il paese in un conflitto assurdo e che sta provando anche problemi notevoli di politica interna, peraltro già avezzo alle violazioni del diritto internazionale. L'unico intermediario valido per risolvere in qualche modo la questione, sembrano gli Stati Uniti, che già da tempo stanno monitorando la situazione. Washington non può perdere un alleato strategico come la Turchia, contro il quale non può agire militarmente per il vincolo NATO, ma non può agire neppure contro Israele. Una soluzione potrebbe essere appoggiare la richiesta turca di liberare Gaza dal blocco navale, rimettendo, ad esempio il controllo del contenuto degli aiuti per evitare il rifornimento di armi, ai caschi blu dell'ONU per un certo periodo e nello stesso tempo pressare Tel Aviv per accelerare il riconoscimento dello stato palestinese. Viceversa lo staff di Obama può cercare di convincere la Turchia a rinuciare ai suoi propositi, ma senza contropartite da offrire è praticamente l'impresa è praticamente impossibile. Si ritorna quindi al punto di cui sopra, senza un passo indietro di Israele si va incontro ad un destino pericoloso.
sabato 3 settembre 2011
Il mancato protagonismo della politica estera della Russia
La Russia contesta le sanzione della UE alla Siria. La politica estera russa fatica a trovare una via per essere di nuovo protagonista, come ai tempi del regime comunista e resta arroccata su posizioni poco flessibili. Il caposaldo della diplomazia di Mosca è la non intromissione negli affari interni dei paesi esteri, fattore che l'accomuna alla Cina, che peraltro risulta, invece molto attiva sul piano internazionale, grazie alla sua politica economica notevolmente espansionista. La Russia pare prigioniera dei vecchi fasti sovietici e non trova una via concreta per riaffermarsi. Persi i paesi del patto di Varsavia che hanno puntato ad ovest, la politica estera non ha più trovato una dimensione da grande potenza, restando per lo più confinata nei territori dell'ex impero sovietico. Anche sui grandi temi la Russia appare come attore marginale, sempre dietro gli USA, alla UE ed alla stessa Cina. Anche l'intervento sui fatti siriani non fornisce una impronta decisa in una direzione specifica. Tradizionale alleata della Siria, la Russia non approva le sanzioni al regime di Assad, che paiono, invece una risposta dovuta da parte della comunità internazionale alle violenze sui manifestanti, che hanno gettato il paese in un clima di terrore e repressione. Anzichè adoperarsi per un clima più disteso ed anche una eventuale transizione, proprio in virtù dell'influenza su Damasco, Mosca si limita a denunciare le sanzioni, che definisce unilaterali, perchè raramente risolvono qualcosa. In effetti, per ora, le sanzioni UE, non hanno prodotto una diminuzione dell'uso della forza da parte del regime, ma hanno avuto comunque il merito di focalizzare le violenze di Assad e ne sono l'esplicita condanna da parte di un soggetto internazionale. Il caso siriano rappresenta il chiaro esempio della decadenza dell'influenza di Mosca, che non riesce ad assumere una posizione di primo piano nell'agone internazionale, limitandosi ad interventi che sfiorano quelli di circostanza. A rafforzare questa visione vi è una assenza di importanza strategica del regime siriano per Mosca, per cui la mancata condanna di Assad denuncia una chiara volontà di mantenere un basso profilo. Una motivazione potrebbe essere quella di cercare una sorta di dialogo per favorire una fine della repressione, ma ciò non sembra essere vero, giacchè non si tratta di mediare tra due stati nemici, ma tra opposti schieramenti dello stesso stato. Un'altra ipotesi potrebbe essere approcciare il problema in maniera morbida per potere prevenire sviluppi come quello libico, soluzione peraltro meno probabile, per non essere coinvolti con un voto del Consiglio dell'ONU, dove l'astensione russa e cinese, data controvoglia, ha consentito l'intervento in favore dei ribelli. Questa soluzione potrebbe sembrare più verosimile perchè permette alla diplomazia russa una sorta di riorganizzazione, ipotesi supportata dalla sorpresa con cui Mosca si è accorta dei sommovimenti arabi. In effetti il fatto che la politica estera russa non stia vivendo i tempi attuali da protagonista genera più di una domanda ed una delle risposte più probabili è che la velocità della primavera araba, abbia colto di sorpresa la diplomazia di Mosca, obbligandola ad un ripensamento ed una riorganizzazione necessaria per affrontare le prossime sfide.
venerdì 2 settembre 2011
La Turchia espelle l'ambasciatore israeliano
La decisione di espellere l'ambasciatore israeliano ad Ankara da parte del governo turco segna il picco negativo delle relazioni tra i due stati. Questo fatto apre alcune questioni che si rifletteranno sul panorama diplomatico internazionale. Il primo riguarda la virata turca verso l'area araba; dopo il mancato ingresso nella UE, la Turchia si è ritagliata una posizione di primo piano, innazitutto, nella regione, con prospettive di espansione ulteriore. Recidere del tutto gli accordi con Israele significa dare una accelerata significativa a questo processo; pur non pronunciandosi mai contro Tel Aviv per la questione palestinese, la Turchia, con questa mossa, generata dall'episodio della flottilla, si schiera apertamente contro lo stato israeliano ed implicitamente a fianco dei palestinesi. La fine della cooperazione, sopratutto militare tra i due stati, determina un ancora maggiore isolamento dello stato israeliano, che ormai non può contare nemmeno più sull'Egitto, dei paesi confinanti i rapporti normali sono ormai solo con la Giordania. Il secondo fattore riguarda la NATO, dalle basi turche sono spesso partiti aerei per colpire i nemici di Israele, con queste premesse è difficile che Ankara conceda ancora il proprio territorio per missioni aventi come obiettivo la protezione, preventiva o no, dello stato della stella di David. Non si tratta di un impedimento da poco, in caso di emergenza il quadro tattico previsto per eventuali conflitti su Israele deve essere totalmente rivisto e riorganizzato. Il terzo fattore riguarda ancora la NATO e gli USA: pur non essendo Israele membro dell'Alleanza atlantica, il rapporto privilegiato con gli USA, principale membro della NATO, mette in difficoltà Washington, che, tra l'altro, premeva da tempo per una riconciliazione tra i due stati, giudicati fondamentali per la politica internazionale degli Stati Uniti. Il progressivo deterioramento delle relazioni bilaterali non potrà coinvolgere anche la diplomazia USA, che dovrà, giocoforza, essere sottoposta a forti pressioni, per uscire dalle quali potrebbero non bastare i soliti equilibrismi politici. Infine, se la Turchia ha trovato una propria dimensione puntando verso est, Israele si sta condannando sempre più all'isolazionismo, un alleato come la Turchia non è solo difficile da rimpiazzare è impossibile e non avere fatto di tutto per recuperare il rapporto rappresenta un errore politico da dilettanti. Purtroppo non è il solo, la politica del governo israeliano in carica sta condannando il paese ad un futuro prevedibilmente sempre più difficile, insistendo su di una rigidità assolutamente improduttiva e pericolosa per la pace nella regione.
Un nuovo ruolo per l'ONU
L'assemblea dell'ONU ha risolto con una decisione pilatesca la questione delle flottilla turca, conclusasi tragicamente, davanti a Gaza. Israele è stato ammonito per il proprio comportamento violento, ma il blocco navale della striscia è stato ritenuto legittimo. Ancora una volta le Nazioni Unite hanno perso una buona occasione per legittimare la propria funzione, non assumendo una posizione chiara neanche in una occasione come questa dove la violenza è stata un dato di fatto. L'ambiguità della condotta dell'ONU non porta valore aggiunto ad ogni interrogativo che si presenta sulla sua strada. Senza scelte nette ed una politica definita lo strumento Nazioni Unite perde tutto il suo valore diventando soltanto un ulteriore orpello alle situazioni più intricate. Il caso israeliano è esemplificativo, il mancato contributo dell'ONU, come organo imparziale, ha una grossa parte della responsabilità della mancata definizione del problema. La vecchia legislazione conseguente alla fine della seconda guerra mondiale non permette più risposte adeguate ai tempi; le regole che possono bloccare il Consiglio di sicurezza devono essere superate perchè, di fatto, paralizzano l'attività delle Nazioni Unite. Il primo punto su cui agire è creare una indipendenza effettiva dell'intera organizzazione, dotandola di strutture diplomatiche e militari proprie; ma l'indipendenza funzionale è niente senza un nuovo regolamento che ne sancisca l'autonomia politica dagli stati. Infatti quello che deve essere ripensato e ricostruito deve essere proprio il rapporto con gli stati che deve diventare alla pari e super partes. I vincoli con le nazioni sono troppo pressanti e troppo condizionanti e non permettono il giusto esercizio per cui le Nazioni Unite sono state create. Peraltro la definizione dei ruoli e dei compiti deve essere ricodificata in risposta alle mutate esigenze della nazione mondiale. Ma senza un accordo tra gli stati percorrere queste soluzioni è impossibile, i singoli interessi paiono un ostacolo insormontabile ad una riforma che punti a benefici generali. Il problema è definire questi interessi, e riconoscersi con essi: la pace mondiale, la diffusione del benessere, l'istruzione e la conoscenza, la sanità e la salute, il rispetto dei diritti fondamentali dell'individuo e delle collettività. Senza avere una comune idea sulla necessità per il mondo intero di questi valori l'esistenza stessa dell'ONU è un dubbio non chiarito.
giovedì 1 settembre 2011
Il petrolio dietro alla guerra libica
Esisterebbe la prova tangibile che la Francia ha condotto la guerra libica per accapparrarsi il 35% della produzione totale, circa 44 milioni di barili, del greggio di Tripoli. Si tratterebbe di un accordo risalente al 3 aprile, scritto in arabo ed arrivato al governo del Qatar, che ha fatto da intermediario tra le forze estere avverse a Gheddafi e gli insorti. Si è parlato più volte di guerra del petrolio, una replica in scala minore della guerra iraqena, tuttavia le ragioni addotte più volte sono state la necessità di una Libia libera e democratica, con un regime stabile ed affidabile con il quale trattare in modo leale. La necessità, in effetti, di un paese con queste caratteristiche sulla sponda sud del Mediterraneo si era resa necessaria da tempo, a causa dei comportamenti sempre più arroganti e bizzarri del colonnello, invero mai osteggiati e sempre consentiti, se non favoriti. Ma nonostante queste ragioni, peraltro evidenti e pienamente condivisibili, il sospetto che dietro il dispiegamento, partito proprio da Parigi, ci fossero grandi interessi petroliferi. Non che la Francia sia la sola ad essersi mossa da questi presupposti, probabilmente, per ora, è la sola ad essere scoperta. Meglio sarebbe stato non nascondersi dietro l'intervento umanitario ma coniugarlo apertamente con le necessità politiche ed anche quelle economiche. In fondo la Libia è un esportatore di petrolio, la Francia ed anche l'Italia ne sono consumatori e Tripoli è il venditore più vicino. I due stati hanno anche l'interesse ad avere un vicino stabile, la decisione di appoggiare i ribelli sarebbe stata pienamente condivisibile mettendo nelle ragioni dell'intervento anche le cause economiche. Anche dal punto di vista del diritto internazionale scegliere di appoggiare i ribelli, in quanto rappresentanti della popolazione oppressa, mettendo in chiaro gli accordi non avrebbe costituito una infrazione. Invece l'ipocrisia della diplomazia e dell'agire diplomatico hanno, alla fine, scoperto il segreto di Pulcinella: un normale do ut des che è convenuto a tutti.
Dall'Austria venti di scisma per la chiesa cattolica
Arriva dalla mitteleuropa la contestazione alla chiesa cattolica. In Austria si sta sviluppando un movimento che richiede di variare alcune norme che regolano la vita del clero. Ben 329 preti hanno lanciato una vera e propria "chiamata alla disobbedienza", con la quale si rivendica il matrimonio dei sacerdoti, l'ordinazione femminile, una revisione sulla posizione della chiesa sul tema dei divorziati, fino alla possibilità per i laici di guidare le parrocchie.
Secondo un sondaggio effettuato nei gironi scorsi in Austria circa il 76 % degli interpellati vede con favore le rivendicazioni dei ribelli cattolici. Questo movimento crea profonda apprensione nelle gerarchie cattoliche, tanto che il teologo Zulehner ha richiesto alla chiesa cattolica di dare risposte in breve tempo, per evitare un eventuale scisma. La questione è delicata, la chiesa non può non tenere conto delle istanze modernizzatrici provenienti sia dai fedeli, che dallo stesso clero. Quello messo sul piatto dai "ribelli" austriaci è probabilmente troppo per la chiesa romana guidata da Ratzinger, tuttavia non può che avviare una discussione su temi che stanno diventando sempre più attuali per tutto l'insieme del cattolicesimo caratterizzato, ormai, da una struttura gerarchica e sociale ingessata ed ormai inadatta a fornire risposte sia al clero che ai fedeli. La crisi delle vocazioni, del seguito dei fedeli, che normalmente non sono i festanti ragazzi delle giornate della gioventù, che non si riconoscono più in una forma esteriore e talvolta falsa, il distacco delle gerarchie dai problemi sociali ed infine il problema della pedofilia hanno generato un malcontento diffuso, che in Austria ha preso una piega che non pare facilmente risolvibile. In casi del genere le risposte del Vaticano sono di rigida chiusura, ma in questo caso non proporre qualche apertura potrebbe rivelarsi controproducente. Le argomentazioni del leader dei sacerdoti rivoltosi Helmut Schuller, sono, per molti versi inappuntabili, in quanto le richieste, per lo meno su diverse questioni, sono solo di ratificare dei dati di fatto ben conosciuti alle gerarchie. Non è un mistero che la politica della chiesa cattolica su casi giudicati spinosi, come relazioni affettive o sessuali da parte di sacerdoti, sia quella di ridurre la cosa al silenzio per non destare scandalo nei fedeli, trattando la cosa in modo ipocrita. Mentre in altre confessioni cristiane l'adeguamento ai più moderni usi sociali non è stato un problema, nella chiesa cattolica si è insistito su di una via ormai anacronistica, che, tra l'altro, non tiene conto della funzione femminile nella struttura, se non in modo marginale; mentre in altre confessioni la donna è parificata all'uomo nel servizio alla chiesa, Roma, pur affermando dichiarazioni di principio, vuote nel loro significato pratico, insiste nel tenere un ruolo subordinato alle donne nelle funzioni e nella gerarchia. Non vi è dubbio che se la protesta dovesse uscire dai confini austriaci potrebbe venirsi a creare una spaccatura in seno al cattolicesimo tra chi è maggiormente sensibile alle istanze di modernizzazione della chiesa e la parte più conservatrice; quello che potrebbe avvenire è in sostanza una divisione tra alto clero ed una parte minoritaria dei fedeli e basso clero ed una parte maggioritaria dei fedeli, sopratutto quelli proiettati verso una chiesa più attuale.
Mai come in questo momento, con le grandi masse di popolazione, che si dicono cattoliche, che subiscono le ingiustizie dei mercati finanziari ed hanno sempre più sete di giustizia sociale, una proposta come quella austriaca potrebbe fare breccia. Per il Vaticano una sfida da non sottovalutare assolutamente pena una consistente perdita di importanza e di influenza.
Secondo un sondaggio effettuato nei gironi scorsi in Austria circa il 76 % degli interpellati vede con favore le rivendicazioni dei ribelli cattolici. Questo movimento crea profonda apprensione nelle gerarchie cattoliche, tanto che il teologo Zulehner ha richiesto alla chiesa cattolica di dare risposte in breve tempo, per evitare un eventuale scisma. La questione è delicata, la chiesa non può non tenere conto delle istanze modernizzatrici provenienti sia dai fedeli, che dallo stesso clero. Quello messo sul piatto dai "ribelli" austriaci è probabilmente troppo per la chiesa romana guidata da Ratzinger, tuttavia non può che avviare una discussione su temi che stanno diventando sempre più attuali per tutto l'insieme del cattolicesimo caratterizzato, ormai, da una struttura gerarchica e sociale ingessata ed ormai inadatta a fornire risposte sia al clero che ai fedeli. La crisi delle vocazioni, del seguito dei fedeli, che normalmente non sono i festanti ragazzi delle giornate della gioventù, che non si riconoscono più in una forma esteriore e talvolta falsa, il distacco delle gerarchie dai problemi sociali ed infine il problema della pedofilia hanno generato un malcontento diffuso, che in Austria ha preso una piega che non pare facilmente risolvibile. In casi del genere le risposte del Vaticano sono di rigida chiusura, ma in questo caso non proporre qualche apertura potrebbe rivelarsi controproducente. Le argomentazioni del leader dei sacerdoti rivoltosi Helmut Schuller, sono, per molti versi inappuntabili, in quanto le richieste, per lo meno su diverse questioni, sono solo di ratificare dei dati di fatto ben conosciuti alle gerarchie. Non è un mistero che la politica della chiesa cattolica su casi giudicati spinosi, come relazioni affettive o sessuali da parte di sacerdoti, sia quella di ridurre la cosa al silenzio per non destare scandalo nei fedeli, trattando la cosa in modo ipocrita. Mentre in altre confessioni cristiane l'adeguamento ai più moderni usi sociali non è stato un problema, nella chiesa cattolica si è insistito su di una via ormai anacronistica, che, tra l'altro, non tiene conto della funzione femminile nella struttura, se non in modo marginale; mentre in altre confessioni la donna è parificata all'uomo nel servizio alla chiesa, Roma, pur affermando dichiarazioni di principio, vuote nel loro significato pratico, insiste nel tenere un ruolo subordinato alle donne nelle funzioni e nella gerarchia. Non vi è dubbio che se la protesta dovesse uscire dai confini austriaci potrebbe venirsi a creare una spaccatura in seno al cattolicesimo tra chi è maggiormente sensibile alle istanze di modernizzazione della chiesa e la parte più conservatrice; quello che potrebbe avvenire è in sostanza una divisione tra alto clero ed una parte minoritaria dei fedeli e basso clero ed una parte maggioritaria dei fedeli, sopratutto quelli proiettati verso una chiesa più attuale.
Mai come in questo momento, con le grandi masse di popolazione, che si dicono cattoliche, che subiscono le ingiustizie dei mercati finanziari ed hanno sempre più sete di giustizia sociale, una proposta come quella austriaca potrebbe fare breccia. Per il Vaticano una sfida da non sottovalutare assolutamente pena una consistente perdita di importanza e di influenza.
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