Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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venerdì 28 dicembre 2012
Se Londra esce dalla UE
La tendenza dell'euroscetticismo esce dalle stanze del potere britannico per diffondersi tra la popolazione. Un recente sondaggio, tenuto quasi contemporaneamente alla ricorrenza dei quarant'anni di partecipazione di Londra alla Comunità europea, parla di un 51% di favorevoli ad abbandonare l'unione, vista sempre meno come un'opportunità, ma piuttosto interpretata come un insieme di vincoli e regole che soffocano la tradizionale liberalità inglese. Va detto che Cameron ultimamente è stato scavalcato a destra, in questa tendenza, dal Partito dell'indipendenza del Regno Unito, che, seguendo la tendenza continentale dell'affermazione dei partiti populisti, fa dell'abbandono della UE il proprio cavallo di battaglia. La paura dei conservatori di perdere consensi proprio a causa di un argomento sviluppato dal loro partito, potrebbe accelerare il processo verso il tanto proclamato, ma mai indetto, referendum popolare per uscire ufficialmente da Bruxelles. Cameron ed il suo partito hanno costruito una strategia intorno a questo tema, con il chiaro intento di prendere soltanto i lati positivi dell'appartenenza all'Unione e, nel contempo, ricattarla con minacce di uscita, sopratutto nei momenti più difficili della lotta alla crisi. Ora se si verificasse ciò che sembra voglia il popolo britannico la soddisfazione potrebbe essere duplice, almeno in apparenza. In realtà per la Gran Bretagna, e sopratutto per Cameron, si aprirebbe un periodo pieno di incognite e di difficoltà senza il paracadute dell'Unione. Viceversa, finalmente, per Bruxelles sarebbe sgravata da un grosso ostacolo al proprio sviluppo, sopratutto nell'ottica del percorso dell'unione politica. L'Unione Europea non deve avere paura dei contraccolpi, che possono essere di esclusiva natura di immagine, l'eventuale uscita di Londra può liberare enormi energie capaci di velocizzare un'unione incompleta nel lato economico e fortemente indietro nell'integrazione politica, elemento essenziale per permettere al continente di mettersi al pari dei competitor internazionali. Londra può andare incontro al suo magnifico isolamento, che la conformazione geografica mai ha aiutato a superare, potrà insistere nelle proprie speculazioni finanziarie, ma finalmente sotto la propria esclusiva responsabilità e tanti auguri per il vessillo di San Giorgio (peraltro mutuato dalla Repubblica di Genova). A quel punto Bruxelles non avrà più pesi a rimorchio perchè si scatenerà un effetto domino che costringerà all'allineamento, pena l'esclusione, i membri più riottosi alle rinuncie di porzioni di sovranità nazionali e locali. Se Londra uscirà dell'Unione, magari nel breve periodo potrà conseguire vantaggi, ma già nel medio e sicuramente nel lungo periodo gli aspetti positivi saranno tutti per l'Unione Europea.
venerdì 21 dicembre 2012
L'ONU interverrà nel Mali
Il Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite ha approvato all'unanimità una risoluzione che prevede l'utilizzo di una forza militare internazionale, con lo scopo di fornire aiuto al Mali, sia sul piano militare, attraverso la ricostruzione del suo esercito, sia sul piano del controllo della parte settentrionale del suo territorio, occupata attualmente da gruppi armati vicini ad Al Qaeda. La proposta, di matrice francese, prevede una presenza militare nel paese, per almeno un anno; i soldati che comporranno questa forza dovranno appartenere a nazioni confinanti, con il chiaro intento di favorire una maggiore integrazione con gli effettivi nazionali senza fare sentire una matrice neocolonialista per l'operazione, mentre i paesi europei forniranno un sostegno logistico e di assistenza per la ricostruzione materiale dell'esercito del paese. Il ruolo di questa forza internazionale sarà quindi duplice, effettuare la ripresa della sovranità sui territori in mano agli estremisti islamici attraverso operazioni militari che riducano la forza degli occupanti ed ottenere, attraverso una fornitura adeguata di armi ed un apposito addestramento, rendere autosufficiente l'esercito nazionale del Mali. Queste operazioni sono propedeutiche ad una azione più politica, che permetta di fare ripartire il dialogo per ristabilire l'ordine costituzionale, in vista della consultazione elettorale per l'elezione del Presidente, prevista per aprile 2013. La finalità della decisione delle Nazioni Unite, non è solamente quella di aiutare il Mali a riprendere la sua sovranità ed il suo percorso politico, ma riguarda anche il diretto interesse delle nazioni occidentali, che guardano con apprensione a quella porzione di territorio del paese in mano a movimenti vicini ad Al Qaeda e che, potenzialmente, può costituire una base importante per la ripresa del movimento, ad una distanza relativamente vicina all'Europa. Sulla decisione, finalmente a maggioranza assoluta, del Consiglio di sicurezza si registra come l'unità d'intenti dei membri sia pervenuta soltanto relativamente ad una zona più defilata dalle contese più rilevanti e politicamente significative, una ragione in più per sostenere con ancora più forza la necessaria riforma tanto auspicata da diverse nazioni, ma osteggiata da quelli che, dalla fine della seconda guerra mondiale, detengono il potere sovradimensionato del diritto di veto.
giovedì 20 dicembre 2012
In Asia si può sviluppare una nuova guerra fredda
Con l'elezione della conservatrice Park Geun-hye alla presidenza della Corea del Sud, si chiude il trittico dei rinnovi di governo nell'area destinata a diventare centrale nelle analisi delle questioni internazionali. Il Sud-Est asiatico aveva già visto la salita la potere di Xi Jinping in Cina e di Shinzo Abe in Giappone. Si tratta di tre leader che hanno in comune una visione che pare eccessivamente nazionalista e, forse, poco propensa al dialogo; non sono le qualità più indicate per affrontare l'evoluzione della situazione di una regione sempre più caratterizzata da potenziali instabilità a causa di molteplici fattori di contrasto. A questo si deve aggiungere la mutata strategia statunitense, che ha messo al centro della propria azione l'area meridionale dell'Oceano Pacifico. Essenzialmente le cause di conflitto potenziale risiedono nel confronto per il possesso di piccoli arcipelaghi tra Cina e Giappone, tra Giappone e Corea del Sud, la già citata strategia americana che irrita i cinesi e la minaccia nucleare della Corea del Nord. Come si vede un complesso di situazioni capace di scatenare quella che, non a torto, è stata definita come la nuova guerra fredda dell'Asia. L'equilibrio già fortemente instabile e destinato a peggiorare ulteriormente, proprio grazie ai risultati elettorali o, comunque, ai diversi cambi di potere, ha già scatenato una preoccupante corsa agli armamenti, che pare dirigersi verso il già sperimentato equilibrio del terrore. Xi Jinping, il primo leader a salire al potere, ha presentato un volto falsamente conciliante, propugnando una crescita cinese nel rispetto degli altri paesi. Questa premessa, tuttavia, aveva solo lo scopo di rendere meno preoccupante il resto del suo programma. In realtà ciò non è bastato ad allarmare i vicini e gli USA: la volontà cinese di migliorare le forze armate più grandi del mondo nella capacità di combattere guerre regionali, spiega ampiamente quale sia l'intendimento della nuova leadership di Pechino. Il budget cinese per gli armamenti nell'ultimo decennio ha avuto un incremento costante e soltanto nel 2012 sono stati stanzianti 80.423.000 di euro, spesi per costruire la prima portaerei cinese e migliorare generalmente tutta la struttura della marina militare, col chiaro significato che l'elemento acqueo acquisterà sempre maggiore centralità nella strategia complessiva della Cina. Ciò ha preoccupato subito il Giappone che è parte in causa sulla disputa delle isole con il governo cinese. Shinzo Abe, nuovo premier giapponese, ha fatto del nazionalismo una delle sue bandiere elettorali ed a poco sono valse le sue parole, dopo l'elezione, verso la Cina, che sottolineavano come Pechino rappresentasse il più grande partner economico del Giappone. Una delle intenzioni del nuovo premier è però quella di continuare la linea della spesa degli armamenti, talmente ingente da porre il budget di Tokyo al sesto posto nel mondo dei bilanci militari. Le intenzioni di Abe sono di fare pressione sugli USA affinchè limitino la crescente potenza cinese sia dal punto di vista militare che economico. Pechino individua nell'atteggiamento USA una ingerenza nella sua volontà di sviluppo pacifico, le continue critiche di Washington alle spese militari cinesi provengono da una nazione che destina ben il 2% del suo PIL, contro l'1,8% cinese e rappresentano, agli occhi della Cina, una volontà imperialista sulla regione, che si sta attuando con la fitta rete di alleanze sviluppata da Washington in chiave anti cinese. Gli accordi stretti con Filippine, Vietnam, India e Myanmar, paesi relativamente vicini al territorio cinese, danno a Pechino la sensazione di essere circondata e generano, in una nazione in forte espansione, sentimenti di grande sospetto. Ma anche gli Stati Uniti hanno le loro rimostranze verso Pechino, che sono legate sopratutto, all'azione non sempre univoca della Cina nei confronti della Corea del Nord. Per gli americani i cinesi non fanno molto affinchè Pyongyang interrompa i propri esperimenti nucleari ed il sospetto nell'amministrazione a stelle e strisce è che la Corea del Nord sia uno strumento di pressione verso l'Occidente. Ma anche nella stessa orbita americana vi sono dispute che possono mettere in pericolo i rapporti di alleanza; è il caso della contesa tra Giappone e Corea del Sud per le isole Takeshima, anche se a preoccupare maggiormente Seul è il comportamento sempre imprevedibile di Pyongyang; l'argomento è particolarmente sensibile anche per la politica interna della Corea del Sud, in quanto esiste un movimento di opinione molto consistente che auspica un miglioramento sensibile delle relazioni tra i due paesi, con il fine, in un futuro non si sa quanto prossimo, di unificare la penisola coreana. Le diverse situazioni concorrono a rendere sempre più incerto l'equilibrio di un'area sempre più importante per l'economia del pianeta, sia dal punto di vista della produzione delle merci, che del loro trasporto. Non è azzardato dire che le possibilità di superamento dell'attuale crisi economica globale, passano, in gran parte, dagli sviluppi che prenderanno le diverse situazioni che compongono lo scenario della regione, sia a livello singolo, che globale.
La Corea del Sud ha eletto, per la prima volta, un presidente donna
Park Geun-hye, sessanta anni, è la prima donna a diventare presidente della Corea del sud. Di orientamento conservatore, la nuova presidentessa del paese che vanta la quarta economia asiatica, è la figlia del dittatore Park Chung-hee, che prese il potere con un colpo di stato nel 1961 e fu assassinato nel 1979. Per i crimini del genitore, Park Geun-hye, ha espresso le scuse al popolo coreano, durante la campagna elettorale. Il risultato della consultazione ha dato la maggioranza, alla vincitrice con il 51, 6% dei voti, rispetto al 48% del suo rivale, il progressista Moon Jae-in. Anche in Corea del sud, malgrado una crescita positiva, ma più contenuta rispetto al passato, il tema centrale delle contesa elettorale è stata l'economia e la gestione della crisi. Il cosiddetto miracolo coreano sembra ormai un ricordo a causa della crisi delle esportazioni, per altro per ragioni più che altro esterne alle dinamiche coreane, il cui calo ha prodotto una contrazione della crescita del PIL, salito appena del 2% dall'inizio dell'anno. Il rilancio dell'economia è stata, quindi, la promessa che ha determinato la vittoria alle elezioni della neo eletta presidentessa; la quale ha anche promesso di migliorare la sicurezza dei luoghi di lavoro e di volere promuovere condizioni di maggiore equità. Il rilancio economico è individuato nella promozione della piccola e media impresa, piuttosto che un rafforzamento dei grandi gruppi del paese, che in realtà hanno trasferito la maggior parte della loro produzione in altri paesi, a causa del minor costo della manodopera. Questo fattore, della delocalizzazione produttiva, è stato individuato come una delle cause dell'indebolimento della classe media e per la sempre maggiore mancanza di posti di lavoro qualificati, sopratutto per i giovani. La nuova presidentessa della Corea del Sud, intende, invece, attraverso una politica di incentivi promuovere le aziende minori, rispetto alle multinazionali, per la creazione di nuovi posti di lavoro sul territorio nazionale. In politica estera il paese non dovrebbe subire grandi variazioni: le relazioni bilaterali principali saranno sempre con gli Stati Uniti, con i quali saranno rinforzate le relazioni commerciali ma sopratutto militari, in un'ottica di protezione dalle minacce provenienti dalla Corea del Nord e dal profilarsi del possibile peggioramento con la Cina.
mercoledì 19 dicembre 2012
Egitto: per Mursi sempre più problematico il rapporto con la magistratura
In Egitto la questione della costituzione si complica: il vantaggio dei si, cioè il voto favorevole alla promulgazione della nuova carta fondamentale, ha riscosso un margine ben più basso che quello previsto e ciò determina un valore meno rilevante del risultato della consultazione per il Presidente Mursi. Questo risultato aumenta la pressione delle opposizioni, che continuano a mettere in dubbio la legittimità del procedimento, anche in relazione alle molteplici segnalazioni di irregolarità, che avrebbero condizionato l'esito della votazione. La sensazione generale che una consultazione così importante sia stata viziata da diversi episodi non conformi, getta molto discredito su quello che Mursi voleva fare apparire un processo limpido proveniente dal popolo, per accreditarlo come una via islamica alla democrazia. Va detto che se esistevano forti dubbi sulle reali intenzioni e sull'effettivo senso della democratico del Presidente egiziano, gli ultimi interrogativi sulla regolarità del voto, non fanno che aggravare il giudizio sulla transizione egiziana. Quello a cui si trova davanti l'opinione pubblica internazionale pare essere tutto tranne uno stato che possa definirsi democratico, l'Egitto sembra passato da un regime dittatoriale laico ad uno confessionale, con l'unica differenza che quest'ultimo vuole darsi una patina di democrazia, con tentativi, peraltro maldestri. Nell'attesa della seconda fase del plebiscito, si segnala la forte opposizione della magistratura, che in quanto custode del diritto non può sottrarsi ad esprimere la sua contrarietà allo sviluppo della questione. Perfino il nuovo procuratore generale, nominato dallo stesso presidente egiziano e fortemente sospettato di parzialità, ha rassegnato le dimissioni dalla sua carica, lanciando un chiaro segnale del malessere presente nel potere giudiziario. Quello con tra magistratura e presidente, peraltro, è un rapporto molto deteriorato, praticamente alla pari con quello dell'opposizione dei partiti laici. Mursi combatte con il potere giudiziario una partita sulle regole e la contesa è diventata ancora più aspra dopo la promulgazione della legge che consegnava alla massima carica del paese poteri addirittura superiori a quelli di Mubarak. Se questa mossa ha smascherato la profonda avversione alla democrazia di Mursi, ne ha svelato anche la profonda ingenuità e l'avventatezza sul piano politico: infatti soltanto uno sprovveduto, oppure un personaggio totalmente manovrato dai partiti usciti vittoriosi dalle elezioni, poteva credere che un tale provvedimento sarebbe passato con facilità dopo tutta la lotta combattuta dal popolo egiziano contro Mubarak. Ma il confronto con la magistratura rischia di peggiorare ancora a causa del boicottaggio annunciato da gran parte dei giudici del Consiglio di Stato per la seconda tornata referendaria, che complica l'effettivo svolgimento, dal punto di vista pratico, della consultazione. Resta, poi, ancora lo scoglio maggiore per Mursi e l'approvazione della Costituzione: i tanti probabili ricorsi per le irregolarità in sede di voto, annunciati dalla opposizione, che, se accertati, costituiranno reati di ordine penale e che possono andare a creare un cortocircuito istituzionale con l'organo di presidenza, capace di portare il sistema ad un blocco.
martedì 18 dicembre 2012
L'offensiva diplomatica della Palestina
Il recente trionfo diplomatico dei palestinesi all'ONU, deve essere valorizzato al massimo attraverso una nuova offensiva diplomatica, che costringa Israele a sedersi nuovamente al tavolo delle trattative. Sarebbe questo l'intendimento dei dirigenti palestinesi per combattere lo stato di crescente nervosismo presente in Cisgiordania come nella striscia di Gaza, portato a livelli pericolosi dalle ritorsioni israeliane per l'ingresso nelle Nazioni Unite della Palestina, con dignità di stato indipendente. Il tentativo di edificare nella zona E1, con il chiaro intento di interrompere la continuità territoriale palestinese, elaborato in dispregio del diritto internazionale e poi bloccato sotto lo sdegno delle cancellerie occidentali unito alla disposizione di confiscare il denaro da destinare all'Autorità Palestinese proveniente dalle tasse riscosse da Tel Aviv, sta creando concretamente il pericolo che si verifichi una terza intifada. Se, in teoria, entrambe le parti dovrebbero avere interesse che ciò non si verifichi, in realtà per Israele potrebbe tradursi in un'occasione per mostrare ancora di più i muscoli, come la politica dell'esecutivo in carica ha fino ad ora fatto, costruendo una linea politica, nei confronti dei palestinesi, niente affatto basata sul dialogo. La risposta palestinese, viceversa, vuole vertere su armi di tipo diplomatico, che si basano, innanzitutto sulla simpatia registrata nella sede delle Nazioni Unite, proveniente da diverse nazioni del pianeta. In effetti non si tratta di un sentimento fine a se stesso, ma la consapevolezza, ormai diffusa a livello mondiale, della necessità di mettere fine all'annosa questione della creazione dello stato palestinese, che costituisce sempre una potenziale minaccia, anche solo come pretesto, alla stabilità regionale e con ampi riflessi sul vasto panorama delle relazioni internazionali. La proposta palestinese verso Israele, che dovrebbe essere presentata nel prossimo gennaio, si articolerebbe sulla ripresa delle trattative dal punto in cui furono interrotte nel 2008, alla condizioni dello stop agli insediamenti di Tel Aviv nei territori arabi ed il rilascio dei prigionieri della Palestina. La durata massima delle trattative dovrebbe essere fissata in sei mesi, durante i quali si cercherà di raggiungere un accordo, che preveda, finalmente, la creazione dello stato di Palestina e la relativa definizione certa dei confini. Se questa proposta dovesse essere formalizzata Israele non avrebbe scusanti per sottrarsi alle trattative, che sono viste, anche se non in forma ufficiale, con favore da Obama sempre impaziente di chiudere la partita. Va detto, ancora, che su Israele grava la minaccia, molto temuta a Tel Aviv, di essere citato alla Corte penale internazionale per crimini di guerra, se la richiesta palestinese di adesione all'organismo internazionale verrà accettata. Non è però detto che questa arma, letteralmente puntata su Israele, venga usata, sembra, piuttosto, una opzione di riserva, nel caso il governo israeliano non accetti di sedersi al tavolo delle trattative. Il leader dell'ANP ha, intanto,intrapreso un tour diplomatico, che toccherà i principali paesi europei per perorare la causa della creazione dello stato palestinese.
lunedì 17 dicembre 2012
L'Italia alla prese con l'incertezza elettorale
Il futuro dell'Italia, probabilmente a due mesi dalle elezioni, si fa sempre più incerto. Se fino a poco tempo fa la vittoria del principale partito di opposizione al governo Berlusconi, il Partito Democratico, era fortemente probabile, la ridiscesa in campo del presidente del Consiglio che ha preceduto Mario Monti, ha avuto l'effetto di scompigliare le carte. Berlusconi in un estremo tentativo di tenere uniti quelli che lui stesso definisce moderati, ha offerto al dimissionario premier in carica, la leadership dello schieramento di centro destra, ma in maniera alquanto confusa e maldestra. In realtà ciò è stato solo in apparenza, Berlusconi, in base ad un preciso piano politico, ha fatto a Monti una offerta irricevibile perchè partita da un settore politico che lo aveva appena sfiduciato, inserendo nell'ipotetica coalizione anche la Lega Nord, partito che ha fortemente fatto opposizione alla politica rigorista del governo in carica. Ciò ha provocato la compattazione delle formazioni che stanno al centro ed invece, si riconoscono nell'azione, sopratutto economica, del rettore dell'Università Bocconi: Mario Monti. Forti del consenso espresso in campo internazionale, sopratutto europeo e della benedizione della Chiesa Cattolica, da sempre molto influente nella penisola, i partiti di centro, sia di ispirazione cristiana, che le nuove formazioni che si richiamano ad una politica liberista inquadrata in un rigore europeo, cioè fuori dalla concezione di Berlusconi favorevole ad un liberalismo più propenso ad una spesa pubblica finanziata dal debito, hanno fatto pressing su Mario Monti per coinvolgerlo fino a farlo diventare il leader di un movimento che auspica la continuazione dell'esperienza del governo dei tecnici. Il Presidente del Consiglio, che fino ad un mese prima dichiarava di non volere prolungare l'esperienza alla guida del paese, pare ora concretamente tentato di prolungare la sua carica. Questa mossa pare dettata dalla consapevolezza che una eventuale vittoria del Partito Democratico, che lo ha lealmente sostenuto anche contro il proprio elettorato, possa determinare una virata della politica del paese, in favore del ceto medio, quello che ha sostenuto fino ad ora il costo imposto dal governo in carica. Il Partito Democratico, una versione molto annacquata di qualunque forza definita di sinistra, è alleato con il movimento del Governatore della regione Puglia, Vendola, più propenso ad una politica che mira a rinforzare il welfare, incentivare politiche di redistribuzione e penalizzare gli aiuti alle banche, in sostanza una direzione contraria da quella intrapresa da Monti. Va detto che il Partito Democratico, secondo i sondaggi più recenti, il maggiore partito italiano, ha sempre considerato la fase del governo tecnico come transitoria ma necessaria per rimediare al malgoverno di Berlusconi; infatti per Monti prefigurava la massima carica super partes quale è quella del Presidente della Repubblica, che nel 2013 dovrà essere eletto per sostituire Napolitano, giunto alla scadenza del proprio mandato. Anche se per ora Monti non ha sciolto la riserva di presentarsi alla candidatura di Presidente del Consiglio, il solo fatto che questa eventualità possa verificarsi, ha generato all'interno del Partito Democratico parecchio nervosismo per due principali ragioni: la prima è che la candidatura di Monti, che ha un indice di gradimento molto alto per le politiche restrittive praticate, potrebbe erodere voti, la seconda è che, oltre ai voti, potrebbero andare a confluire verso le formazioni di centro, tutti quei componenti del partito che non si riconoscono in un'alleanza con la sinistra più radicale, ritrovando quell'affinità che avevano perso con il centro politico dalla morte della Democrazia Cristiana. A ciò si deve aggiungere che il principale partito del centro: l'Unione Cristiano Democratica, che ha avuto un rapporto privilegiato con il Partito Democratico durante l'esperienza del governo Monti e che pareva l'alleato più naturale per un futuro programma di governo, si è invece distaccata proprio in occasione dell'alleanza del Partito Democratico con Sinistra Ecologia e Libertà, che ritiene incompatibile con i suoi programmi. Berlusconi, che ha i sondaggi peggiori è riuscito così a dividere i suoi nemici politici in previsione della tornata elettorale, che sarà regolata dalla discussa legge in vigore, che dovrebbe dare una maggioranza certa alla camera ma non al senato e quindi bloccare la vita istituzionale del paese. Tuttavia nel centro destra, all'interno del Partito delle Libertà, la formazione fondata proprio da Berlusconi, che ha guidato il paese negli ultimi anni, vi sono divisioni profonde, acuite dal ritorno del leader, al quale sembrava destinato un ruolo di padre nobile, ma senza incarichi di primo piano. Molti, ma non tutti, consideravano finita l'esperienza di Berlusconi, per trovare una formazione più moderna e meno fondata sulla personalità del leader, che andasse a seguire le orme dei partiti di destra di Francia, Germani ed Inghilterra; una sostanziale rifondazione, insomma. Ma il grande potere finanziario di Berlusconi ha impedito questa evoluzione, se si eccettua pochi temerari, piuttosto, quello che sta accadendo è un fenomeno analogo al centro sinistra che consiste in una fuga verso il centro per dare sostegno, da destra, ad un nuovo esecutivo Monti. Il panorama politico italiano, quindi, torna ad essere segnato da incognite profonde che non ne favoriscono la stabilità; dalle urne infatti, come già detto, con questa legge elettorale ed una offerta politica così frammentata, a cui si deve aggiungere il pesante pronostico dell'astensionismo, non potrà uscire un paese facilmente governabile a meno di evoluzioni, per ora inaspettate e difficili da pronosticare.
La Cina guarda con preoccupazione al nuovo assetto politico del Giappone
Sale la preoccupazione di Pechino, dopo l'affermazione della destra giapponese nelle consultazioni elettorali del paese nipponico. Il problema più pressante riguarda i rapporti internazionali che potranno svilupparsi tra i due paesi per la questione delle isole contese: Senkaku, per Tokyo, Diaoyu, per Pechino. Sebbene il precedente leader giapponese avesse un atteggiamento che pareva più conciliante, i contrasti avevano già assunto dimensioni tali da produrre preoccupazione nel mondo diplomatico. La vittoria del Partito Liberal Democratico, con a capo Shinzo Abe, che sarà il futuro primo ministro del Giappone, rappresenta un ulteriore elemento di potenziale aggravamento della frizione diplomatica. Shinzo Abe è infatti, considerato un falco della politica internazionale ed un acceso nazionalista, che già in campagna elettorale ha affermato l'assoluta indisponibilità a qualsiasi negoziazione sul problema delle isole. La Cina, per contro, considera le isole parte integrante del territorio cinese, ma Pechino considerava favorevolmente l'eventualità di lavorare insieme al Giappone a rapporti più stabili, vi era, insomma, una apertura più conciliante verso una soluzione condivisa che non dispiacesse nessuno. La rigidità annunciata di quello che sarà il nuovo primo ministro, però, sicuramente invertirà la linea cinese, creando i presupposti di un muro contro muro, di cui risulta difficile fare una previsione. Questo confronto rischia, poi, di ripercuotersi anche negli altri casi di contesa presenti nel Mar Giallo meridionale, legati sia ad altre isole su cui esiste contenzioso, sia all'ampiezza delle acque territoriali. Se il problema tra Cina e Giappone poteva risolversi grazie ad una soluzione della controversia raggiunta in modo condiviso, poteva costituire un precedente importante anche per le altre situazioni che rappresentano casi fonte di contrasto, viceversa, come pare possa svilupparsi la questione, tutti i casi sul tappeto entrano in una incertezza pesante. L'unica speranza è che gli interessi economici tra i due stati possano essere il mezzo per attutirne i contrasti. Le grandi dimostrazioni avvenute recentemente in territorio cinese contro le attività economiche giapponesi, che hanno assunto anche toni particolarmente violenti, rappresentano soltanto un primo assaggio di quello che potrà succedere a livello internazionale. Risulta facile prevedere ed attendersi una escalation fatta di sanzioni economiche e sgarbi diplomatici nei due sensi, che potrebbe avere ripercussioni sul commercio mondiale; inoltre non appare inverosimile lo schieramento delle rispettive flotte militari nei pressi delle isole, con il concreto pericolo che un incidente dia il via a conseguenze ben più gravi. Già nella scorsa settimana il caso dell'aereo militare cinese che aveva sorvolato il piccolo arcipelago aveva causato la pronta reazione di Tokyo, con lo schieramento della sua forza aerea. Per ora siamo nella dimensione delle scaramucce e delle provocazioni, ma senza una intesa o, almeno, una volontà di collaborazione, che pare, al momento essere del tutto assente, la questione potrebbe andare a degenerare in maniera pericolosa. La regione quindi pare destinata a diventare concretamente uno dei punti più caldi del pianeta ed a ciò arriva, come conferma, la concreta preoccupazione di Washington, che già si vede, in un futuro molto prossimo, impegnata in prima persona a dovere mediare, se non gestire, una crisi che si annuncia di grande portata.
venerdì 14 dicembre 2012
Russia e USA inviano un mediatore a Damasco
Russia e Stati Uniti, dopo le sessioni di negoziato tenutesi a Dublino e Ginevra, hanno deciso di inviare il mediatore Lakhdar Brahimi a Damasco per concordare una possibile uscita di scena di Assad. La situazione militare, pur nella sua lentezza, sembra evolversi a sfavore del dittatore siriano ed i russi cominciano ad ammorbidire la propria posizione, fino ad ora caratterizzata dalla rigidità più assoluta. I timori di Mosca sono essenzialmente due: da una parte il paese russo non vuole passare, di fronte al panorama internazionale, come lo stato che ha difeso ad oltranza Assad, sul quale si addensano gravi sospetti di crimini, sia contro le forze dell'opposizione, che contro i civili, dall'altro lato vuole iniziare ad aprire, su di un piano nuovo, un rapporto con il governo che potrebbe crearsi con l'uscita di scena di Assad, per preservare i propri interessi in terra siriana e cioè, essenzialmente, la possibilità di mantenere l'unica base militare navale nel Mediterraneo, che sorge nel porto di Tartus. La nuova versione dell'atteggiamento di Mosca, potrebbe derivare, quindi, dalla necessità di presentarsi a futuri negoziati con gli USA, in grado di avere il maggiore potere contrattuale possibile; del resto il cambiamento russo sarebbe dovuto alla presa d'atto che Assad è sempre più isolato sul piano internazionale, ma, sopratutto, su quello interno, sopratutto dopo che i ribelli hanno conquistato l'aereoporto che serviva alle forze governative per ricevere i rifornimenti di armi. Lo scopo della missione di Lakhdar Brahimi, quindi, consisterebbe proprio nel tentativo di convincere Assad a lasciare il potere senza compromettere la propria situazione e non andare incontro ad una fine simile a quella toccata a Gheddafi. In proposito si stanno cercando anche paesi disposti ad ospitare il dittatore di Damasco, ed il più probabile pare, per ora, la Bielorussia, nazione dove l'influenza di Mosca è notevole. Per Assad sarebbe l'ultima occasione prima di una probabile offensiva finale, che i ribelli potrebbero lanciare a breve, nonostante l'artiglieria governativa sia ancora efficiente. Si tratterebbe però questione soltanto di tempo, tuttavia, prima di arrivare ad una soluzione definitiva, esiste il rischio concreto che la tragica contabilità delle vittime possa ulteriormente incrementarsi. Inoltre non è però assicurato che una volta che Assad sia uscito di scena si arrivi ad una pacificazione completa a causa delle profonde differenze presenti nei gruppi che compongono l'eterogenea formazione dei ribelli. A questo scopo sia russi, che americani, avrebbero compilato una lista di possibili funzionari in grado di comporre un governo di transizione, capace di assicurare al paese un passaggio di potere il meno traumatico possibile. Per gli Stati Uniti la collaborazione con Mosca è fondamentale per una rapida soluzione della crisi siriana, infatti, soltanto la Russia può esercitare l'adeguata pressione affinchè Assad lasci il potere; Washington è preoccupata per le ripercussioni possibili di un allargamento della crisi nella regione e pensa, sopratutto, ad Israele e all'Iran. La disponibilità russa è vista, quindi, come un fatto positivo, capace di accelerare la conclusione del conflitto, anche se poi, sarà inevitabile, Mosca presenterà il suo conto.
giovedì 13 dicembre 2012
Sempre più difficile i rapporti tra Cina e Giappone
L'intrusione di un aereo militare cinese, nello spazio aereo delle contese isole Senkaku / Diaoyu, alza la temperatura, peraltro già elevata, tra Giappone e Cina. Tokyo ha risposto con due passi formali, che sono consistiti nell'invio di aerei militari, in quello che ritiene proprio spazio aereo e con la protesta dell'ambasciatore giapponese a Pechino. Ad aggravare la situazione vi è la ricorrenza in cui è stata fatta l'incursione aerea: il settantacinquesimo anniversario del massacro di Nanchino, quando truppe dell'impero nipponico massacrarono migliaia di persone nella città cinese. Questa coincidenza è tutt'altro che casuale, Pechino sa bene come puntare sull'orgoglio del popolo cinese in una disputa che tende ad estremizzare una situazione già fortemente compromessa. Dietro la tattica cinese, pare esserci la volontà di provocare uno scontro che sollevi definitivamente la questione della sovranità delle isole, in una prospettiva più ampia, che mira alla colonizzazione completa attraverso le vertenze ingaggiate anche con gli altri paesi del Mare Cinese meridionale. Del resto rientra nei programmi della nuova dirigenza cinese affermare la propria potenza nella regione, sia dal punto di vista territoriale che politico, andando così a toccare i temi cruciali dello sfruttamento delle risorse e del dominio delle vie di comunicazione marittima. Non è un caso che si scelga la provocazione verso un avversario, il Giappone, indebolito da una crisi economica che è recentemente sfociata in recessione e dilaniato nel suo tessuto politico. D'altro canto Tokyo non si sottrae allo scontro, anzichè cercare una soluzione concordata e meno travagliata. Se i cinesi puntano sul fattore del nazionalismo, non da meno sono i giapponesi, che anzi ne fanno elemento trainante, anche come fattore mascherante del dissesto in atto nel proprio paese. La situazione è però ogni giorno più preoccupante, i casi di provocazione, da una parte e dall'altra, si susseguono senza sosta, attraverso incursioni navali ed aeree, con il contorno di discorsi più o meno ufficiali che richiamano a patrie violate, rendendo, di fatto, sempre più probabile che si verifichi l'eventualità di uno scontro. La preoccupazione del mondo intero e degli Stati Uniti, in particolare, non è servita granchè fino ad ora, e tutta una regione cruciale per l'economia del mondo intero vive una situazione di sempre maggiore precarietà nel proprio equilibrio geopolitico. Mentre si moltiplicano, quindi, le occasioni per il verificarsi di un incidente che potrebbe dare il via ad un confronto il cui sviluppo non è facilmente prevedibile, non si può che registrare l'assenza assordante delle Nazioni Unite, che senza assolvere al proprio ruolo, non esprimono una volontà di intervento pacificatorio.
Siria: gli USA riconoscono la coalizione contro Assad come leggitimo rappresentante del popolo siriano
Dopo Francia, Regno Unito, Turchia e Stati del Golfo Persico, anche gli USA hanno riconosciuto ufficialmente la coalizione di opposizione siriana, impegnata nei combattimenti contro Assad, come legittimo rappresentante del popolo siriano. Questo riconoscimento esclude dalla rappresentanza ufficiale Assad per quanto riguarda la Siria e lo pone in una grave condizione di isolamento diplomatico, che potrebbe essere il preludio ad azioni più concrete e dirette. Il riconoscimento americano è avvenuto con un distinguo particolare, ufficialmente, infatti, Washington ha affermato che, per il momento, non fornirà armi ai ribelli. Se questa è, però, la posizione ufficiale, occorre ricordare che l'amministrazione americana ha già intrapreso diverse collaborazioni con i ribelli, a livello differenziato, che hanno compreso la fornitura di apparati di telecomunicazioni, di assistenza medica e formazione militare. Difficile credere che all'interno di questa collaborazione non sia stata ricompresa anche qualche fornitura di armamenti, se non in maniera diretta, almeno attraverso gli alleati islamici del Golfo. Washington ha tenuto a rimarcare questa decisione di non fornire armi, per non incorrere a contrasti con la Russia, che resta il principale alleato di Assad, per interessi esclusivamente propri. La scelta di Obama, però non fornisce alibi, per una eventuale ripresa del dialogo che possa porre fine ad una guerra civile che ha già provocato più di quarantamila morti e che lascia profondi interrogativi sull'equilibrio della regione. Se le ragioni diplomatiche del rifiuto della fornitura di armi vanno verso la ricerca di una soluzione negoziata, la ragioni pratiche parlano della perplessità americana riguardo alla composizione eterogenea della forza che si oppone al regime di Damasco. In particolare la presenza dell'organizzazione al-Nosra, gruppo che è stato identificato come terroristico e testa di ponte di Al-Qaeda, può giustificare le paure statunitensi di una virata del paese siriano verso posizioni concordi con l'estremismo islamico; è proprio questo il maggiore timore di Washington: che possano ripetersi casi dove l'integralismo religioso, in nome di un concetto distorto della democrazia, possa instaurare nel nuovo governo del paese la legge coranica, elemento capace di bloccare del tutto i potenziali rapporti con una Siria rinnovata. La forte differenziazione, segnata da una grave mancanza di omogeneità, delle forze che compongono la costellazione che si oppone ad Assad è stata, fino ad ora, l'ostacolo principale al rovesciamento del regime, che ha spesso approfittato di queste profonde divisioni. L'importanza del riconoscimento di quella che è la più grande potenza mondiale, fornisce alla coalizione dei ribelli di accrescere la propria legittimità sul piano internazionale, anche in una ottica che possa aumentare la propria capacità negoziale ed il proprio peso politico in una trattativa al di fuori del contesto militare; è probabilmente questo che Washington intende favorire per porre fine allo stato di grande difficoltà di un paese allo stremo. Ma questa tattica morbida scelta da Obama, non gli ha permesso di evitare le critiche dei repubblicani che spingevano per un impegno più diretto nella soluzione del conflitto. Si tratta, però, di una soluzione difficilmente percorribile senza l'avallo del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, un impegno diretto sotto la bandiera americana potrebbe generare tensioni ancora maggiori con l'Iran, che resta il maggiore alleato di Assad. Obama ha optato, almeno per il momento, per evitare questa soluzione sperando in una soluzione interna al paese, che è, però, obiettivamente difficile, dato lo stallo della situazione militare. La sensazione è che gli USA siano in attesa di un qualche sviluppo, che possa portare i contendenti ad una negoziazione perseguita senza il mezzo militare, a quel punto tutto il peso politico di Washington peserà sul piatto della bilancia dei ribelli.
martedì 11 dicembre 2012
Berlusconi spaventa l'Europa
La decisione di candidarsi nuovamente al ruolo di Presidente del Consiglio da parte di Silvio Berlusconi crea apprensione in una Unione Europea alle prese con la crisi economica. Le dimissioni di Mario Monti hanno avuto come immediata reazione la risposta negativa dei mercati, mettendo a rischio gli sforzi fatti dal paese italiano per il risanamento dei conti. Il riflesso che questa caduta ha avuto, si teme possa poi ripercuotersi anche all'intera Europa, dove l'Italia è pur sempre il terzo produttore dell'area euro. Scongiurando una caduta di Roma, che non è Atene ne Madrid, per il suo complesso tessuto industriale, Bruxelles contava di essersi messa al riparo da un possibile effetto domino, tale da mettere in crisi la tenuta dell'istituzione europea. La ricandidatura di Berlusconi rimette tutto in discussione, portando incertezza nei mercati. Ma se questo è l'effetto immediato, che i sostenitori di Berlusconi però ascrivono esclusivamente alle dimissioni di Monti, slegando le due vicende, quello ancora più temuto riguarda i temi che l'ex presidente del consiglio vorrà affrontare in campagna elettorale. Gli analisti, infatti, prevedono, una campagna elettorale fortemente anti europeista e populista, capace di puntare sugli scontenti del rigore e della moneta unica e su chi sostiene la contrarietà al predominio tedesco, cioè di chi accusa la Germania di essere la vera ispiratrice delle politiche del rigore economico che impediscono la crescita, traendone vantaggio. Si capisce che se tali temi avranno presa, per l'Europa si annuncia un periodo di forti divisioni, anche in ragione dell'emulazione da parte dei movimenti, già fortemente presenti, contro le azioni economiche caldeggiate dalla UE. Occorre specificare che, sul fronte dell'economia, i risultati, nel caso italiano, sono arrivati soltanto a livello macro economico, mettendo in difficoltà le famiglie e le imprese. Sopratutto le prime hanno pagato un conto salato per responsabilità non proprie, vedendosi alzare il livello di tassazione e diminuire quello dei servizi. E' essenzialmente questa la platea a cui si rivolgerà Berlusconi, cercando di sfondare con argomenti anche propriamente di sinistra, promettendo l'abbassamento delle tasse e l'uso di leve finanziarie per produrre posti di lavoro. In questo momento i sondaggi non danno speranza al partito di Berlusconi, al minimo storico del gradimento, va detto, però, che questi sondaggi furono elaborati quando ancora si considerava che lo stesso Berlusconi non prendesse parte alla competizione elettorale, la sua ridiscesa in campo potrebbe sovvertire i pronostici in un elettorato complessivo che conta un astensionismo pari al venti per cento e che potrebbe sentire il richiamo delle urne in presenza di proposte convincenti e differenti rispetto al passato. Tuttavia la mossa delle dimissioni di Monti intralcia i piani di Berlusconi, che contava di avere tempo fino ad Aprile per riorganizzare un partito allo sbando. Ora, verosimilmente, si andrà alle elezioni a Febbraio, con in più l'incognita della partecipazione dello stesso Monti, chiamato alla contesa a gran voce dai movimenti del centro politico del paese. Se questa ipotesi si verificasse lo scenario dei concorrenti si articolerebbe essenzialmente su quattro soggetti: oltre ai già citati Berlusconi e Monti, in rappresentanza della destra e del centro, ci sarebbero anche Bersani, leader della sinistra italiana, ed un candidato ancora da individuare in rappresentanza del Movimento Cinque Stelle, partito anti sistema all'esordio in una competizione politica, pur avendo già partecipato con discreto successo ad elezioni regionali ed amministrative. L'Europa in quanto istituzione, preferirebbe una affermazione di Monti o, almeno, di Bersani, ritenuti continuatori della politica del rigore, sebbene con sfumature differenti. Ritrovarsi a trattare con Berlusconi, pubblicamente dileggiato dopo la sua uscita di scena dello scorso anno, potrebbe presentare difficoltà non facilmente sormontabili, portando addirittura in blocco le relazioni tra gli stati. L'Italia, insomma, dopo la parentesi generata dalla brutta copia delle larghe intese tedesca, ritorna alla sua parte di variabile del sistema e mai come ora si pone in un futuro molto incerto: sarà difficile, infatti, che l'Europa possa sopportarla nel caso di una deviazione dal percorso intrapreso, la UE non può più supportare i costi di bilanci fuori controllo e pratiche indebite di ricorso a prestiti in serie, sopratutto senza risultati.
Gli USA prima potenza mondiale almeno fino al 2030
Un recente rapporto del US National Intelligence Council, afferma che gli USA resteranno la potenza dominante almeno fino al 2030, nonostante il sorpasso cinese sul fronte economico, che avverrà nel 2020. Mentre la previsione della Cina come prima potenza mondiale è stata largamente accettata, sulla questione del primato geopolitico, vi erano e vi sono perplessità sulla continuazione del predominio americano. I punti di forza statunitensi vengono individuati nella capacità di creare innovazioni tecnologiche e sull'abilità di sapere risolvere i conflitti mondiali, restando l'ago della bilancia del panorama internazionale. Se ciò, fino ad ora è stato vero, pur con alterne fortune nell'esercizio di questa funzione, il non essere più la maggiore economia mondiale può creare qualche dubbio sulla reale capacità di continuare ad esercitare, in maniera prioritaria, la propria influenza sul mondo. Tuttavia la Cina appare ancora indietro nella propria crescita politica e sul lato del suo prestigio internazionale, sul quale gravano i pesanti giudizi derivanti dallo scarso stato di salute del tema dei diritti. Se Pechino vorrà vedere crescere la prorpia influenza internazionale dovrà dotarsi di un sistema politico differente e non solo di portaerei. La crisi economica e le continue divisioni, invece penalizzano l'Unione Europea, che pare andare incontro allo status di grande incompiuta. Certo il range di circa quindici anni è molto ampio e la previsione può andare incontro a larghi errori. Tuttavia la tendenza di una continua affermazione degli Stati Uniti può essere considerata una buona previsione, anche se occorre collocarla in un contesto in continua mutazione. La prima considerazione da fare è che se gli USA manterranno il primato di potenza geopolitica più importante, ciò avverrà in condizioni nettamente diverse da come maturato nei periodi precedenti. Il sorpasso della Cina nell'economia è solo il dato più rilevante, ma occorre considerare anche una ricchezza disponibile minore per Washington, in ragione di una maggiore crescita di nuovi attori comparsi sulla scena internazionale. India, Brasile e Russia saranno soggetti con sempre maggiore potere grazie alla ricchezza di materie prime e di capacità industriali, ciò comporterà un crescente peso anche politico all'interno del panorama internazionale, andando a frazionare così, non solo la ricchezza economica disponibile, ma anche il peso dell'influenza nelle decisioni per l'equilibrio mondiale. La differenza più grossa con il periodo della guerra fredda è che già ora gli USA, fronteggiano più di un avversario, che quasi mai è un nemico certo e dichiarato come era l'URSS fino alla caduta del muro di Berlino. In futuro questa tendenza aumenterà sempre di più: non ci saranno confronti netti, se non per temi particolari, ma si verificherà una situazione sempre più fluida con la necessità di intervenire valutata caso per caso. In un tale contesto e senza una autorità superiore, finchè non si metterà mano ad una riforma radicale e condivisa delle Nazioni Unite, il ruolo di risolutore delle crisi internazionali resterà nelle mani della nazione con maggiori mezzi, non solo militari, ma politici. Questo connubio è e sarà necessario per potere affrontare e dirimere le controversie internazionali. Soltanto gli Stati Uniti, effettivamente, hanno queste caratteristiche, frutto di esperienze decennali, che in un solo quindicennio non possono essere recuperate da altri paesi, nonostante la potenza economica a disposizione. Certo gli USA dovranno rinunciare a grosse fette di questo potere, specie per quanto riguarda le dispute regionali, dove si farà sentire maggiormente il peso del paese più importante. Tuttavia l'influenza americana, se accompagnata da successi tangibili, potrà riuscire ad avere risultati tali da confermarne l'importanza, se saprà agire in modi sempre meno appariscenti. Del resto questa è la linea scelta da Obama, che ha, almeno in parte, cambiato l'immagine imperialista degli Stati Uniti. I banchi di prova arriveranno presto: le dispute delle isole contese, nel Mare Cinese Meridionale, diranno molto sulla previsione del US National Intelligence Council, anche in un periodo molto più breve che i quindici anni previsti. Se gli USA sapranno mettere da parte i propri interessi per una soluzione il più condivisa possibile, aumenteranno il proprio peso specifico all'interno del panorama internazionale, confermando la previsione ed anche la necessità della loro presenza in questa funzione.
La condizione femminile egiziana esempio di mancata democrazia
Uno dei problemi non abbastanza rilevati della questione sulla nuova costituzione egiziana è rappresentato dal problema femminile. Con la vittoria elettorale delle forze musulmane, le aspettative delle donne egiziane sono rimaste frustrate dalla direzione confessionale presa dalla politica egiziana. Pur non essendo ancora in vigore la carta fondamentale, che tanti scontri ha provocato, la condizione femminile in Egitto pare peggiorata rispetto alla dittatura di Mubarak, alle donne è stato, infatti, riservato un ruolo di subordinazione nella società, con limitazioni evidenti, che avranno carattere di legge una volta approvata la tanto contestata carta costituzionale. La presenza all'articolo due, della costituzione che si vuole approvare, di un chiaro riferimento alla legge coranica, la sharia, come base della legislazione, confina la donna a spazi ristretti, sia nella vita pubblica, che in quella familiare, limitandone di fatto la libertà. Il fenomeno è un indice chiaro del modo distorto in cui si è evoluta la protesta egiziana, che ha regalato, forse anche inconsapevolmente, il potere a gruppi di fondamentalisti, che rappresentano il dieci per cento del paese, malgrado abbiano raccolto nella consultazione elettorale la maggioranza. Ma per l'importanza e l'influenza del paese egiziano nella fascia costiera meridionale del Mediterraneo e nel mondo arabo in generale, il fenomeno rischia di diventare un pericoloso precedente, che, da un lato, potrebbe impedire l'evoluzione della condizione femminile e dall'altro creare fenomeni di emulazione in altri parlamenti. Vista da occidente la situazione diventa sempre più la conferma di quanto siano distante le valutazioni intorno alla democrazia, dei due punti di vista, talmente lontani da apparire inconciliabili. Quello che stanno esprimendo le primavere arabe, va sempre più spesso lontano dalla concezione di democrazia che si ha nella visione occidentale: il mancato rispetto dei diritti e della parità tra i sessi, rappresenta però l'esempio più eclatante. Il fatto che la condizione della donna sia addirittura peggiorata, non solo in Egitto, ma anche, per esempio in Iraq, inquadra bene il fatto che le democrazie islamiche non siano compiute e che non basta una vittoria elettorale per fare di un paese una democrazia. Non che non ci siano forme di opposizione a queste politiche discriminatorie, ma quello che è evidente è che l'indirizzo religioso avvalla questo comportamento; è questo, sostanzialmente, il punto di frattura che delegittima l'islam di matrice politica come forza democratica. Le promesse di islam moderato cadono quando si arriva alla questione della parità dei sessi, non superare questo scoglio significa aprire ad una serie di restrizioni ancora più ampie che rendono inconciliabile l'indirizzo confessionale con l'esercizio delle regole democratiche. In questo contesto il futuro della condizione femminile appare problematico e bene fanno coloro che si battono affinchè la costituzione egiziana non passi, del resto il comportamento del presidente Mursi è stato eloquente: la risoluzione dei conflitti con le opposizioni è passata attraverso un quasi colpo di stato. Un altro chiaro segnale della poca propensione alla democrazie dei partiti al governo in Egitto. Tutto ciò rende facile pronosticare una evoluzione difficile dei rapporti tra gli stati occidentali e gli stati arabi, sempre più divisi e distanti, non solo politicamente ma sopratutto culturalmente.
venerdì 7 dicembre 2012
Venti di guerra tra Cina ed India?
La difficile situazione che sta aumentando nel mare Cinese Meridionale tra Cina e Vietnam, rischia di degenerare pericolosamente per la possibile entrata sulla scena dell'India. Tra i due maggiori paesi emergenti i rapporti non sono buoni e la rivalità è cresciuta di pari passo con i rispettivi passi avanti nell'economia. La necessità di sempre maggiori quantitativi di materie prime ha aperto nuove occasioni di scontro, nel quadro di un allargamento di alleanze e sfere di influenza, che ha rotto equilibri ormai superati. La concorrenza tra le due potenze potrebbe essere un elemento determinante per delineare i nuovi scenari internazionali e gli equilibri che ne scaturiranno. Nel caso specifico tutto ruota attorno all'invito fatto da Pechino al Viet Nam di interrompere le perforazioni che hanno come scopo la ricerca di idrocarburi nel tratto di mare conteso. Intorno a questo episodio si sono verificati anche incidenti navali di piccola entità, che hanno visto coinvolte navi dei rispettivi paesi. I rapporti di forza tra Viet Nam e Cina sono nettamente a favore di Pechino, tuttavia esiste una joint venture tra la società indiana Oil and Natural Gas Corp ed Hanoi che potrebbe giustificare, nonostante l'India non abbia rivendicazioni territoriali nel Mare Cinese meridionale, un ingresso delle navi militari indiane a protezione delle imbarcazioni battenti la propria bandiera. La Oil and Natural Gas Corp è ritenuta dal governo indiano impresa di interesse nazionale e quindi soggetta a particolare protezione. Quello che si minaccia è un confronto di gran lunga ben più pericoloso delle dispute tra Cina e Giappone o tra Cina e Filippine, paesi comunque legati da strette collaborazioni economiche, che possono aprire con maggiore facilità canali di dialogo. Tra Cina ed India non vi sono rapporti che vadano aldilà della formalità diplomatica ed un eventuale confronto non avrebbe come uscita di sicurezza interessi comuni da tutelare. Inoltre il problema è aggravato a livello generale dalla disposizione emanata dal governo cinese, che entrerà in vigore dal primo gennaio 2013, che prevede un allargamento della propria sovranità marina, forse anche in violazione della prassi del diritto internazionale, che prevede la confisca dei mezzi navali ed il conseguente arresto dell'equipaggio di quei natanti sorpresi entro i nuovi confini. Ciò implica che la Cina intende pattugliare questi tratti acquei con mezzi militari, alzando di molto le possibilità di scontri armati. Gli USA hanno chiesto chiarimenti su questa nuova legislazione ed sicuro che la questione sarà materia di scontro tra Washington e Pechino. A conferma dello stato di agitazione che si respira nella regione il Segretario dell'Associazione dei Paesi del Sudest asiatico, Surin Pitsuwan, ha affermato che la regione sta per diventare la Palestina asiatica, un termine di paragone che autorizza la massima preoccupazione nel mondo intero, è bene infatti ricordare, che per questi tratti di mare transita la maggior parte della produzione manifatturiera mondiale, ed un eventuale allungamento delle rotte marine avrebbe riflessi sicuramente pesanti sul rialzo dei prezzi.
giovedì 6 dicembre 2012
Gli interrogativi della situazione egiziana
Dietro il deteriorarsi della situazione egiziana si agitano spettri pericolosi. L'atteggiamento di Mursi, che non ha compreso le necessità globali del paese di dotarsi di forme democratiche più avanzate, restando fermo all'esclusiva situazione derivante dal voto, che ha regalato la maggioranza alla parte più confessionale e meno progressista della nazione, evidenzia in modo chiaro l'inadeguatezza della persona a ricoprire una carica così delicata. La netta divisione in cui è caduto il paese avrebbe dovuto imporre una maggiore cautela nell'uso di leggi speciali, che hanno richiamato i tempi di Mubarak. Se è, però, difficile credere ad una ingenuità non è difficile prefigurare un progetto portato avanti in maniera precipitosa. Le rassicurazioni di Mursi sia al paese, che alla comunità internazionale, di essere il rappresentante di un islam moderato, si sono rivelate false ed infondate, rendendo così illusoria la speranza di potere vedere una forma conciliante tra islam e democrazia, il requisito tanto atteso dall'occidente per potere instaurare un dialogo con i paesi a guida musulmana su di un piano nuovo. Resta il dubbio se Mursi, che all'inizio pareva effettivamente un moderato, sia stato travolto dalla crescente influenza dei salafiti e dei fratelli musulmani, che ambiscono a cancellare le opposizioni con l'instaurazione della sharia o ne sia stato complice fin dall'inizio. In ogni caso un paese fondamentale come l'Egitto, nel delicato scacchiere regionale, crea notevole apprensione in mano a forze che sfiorano l'estremismo islamico. In questa situazione la grave accusa proveniente dai Fratelli musulmani all'opposizione, che riguarderebbe un presunto coinvolgimento israeliano in un tentativo di rovesciare il presidente egiziano, non pare troppo peregrina: effettivamente Tel Aviv, ma non solo, avrebbe tutto l'interesse che a Il Cairo sedesse al potere un governo di orientamento laico, tuttavia l'accusa è tutta da dimostrare, anche se sia per Israele che per Washington, la piega che hanno preso gli eventi non può che essere vissuta con inquietudine per la stabilità regionale. Resta veramente difficoltoso prevedere il futuro del paese, dove, al momento, non si intravedono possibilità di dialogo, per una situazione di forte tensione sfociata in ripetuti scontri tra le opposte fazioni. Vi è però un attore che al momento è stato in disparte limitandosi al suo ruolo strettamente istituzionale: l'esercito. Le forze armate sono, infatti, la grande incognita della questione. Nonostante i cambi al vertice i sentimenti della maggior parte degli uomini in armi restano profondamente anti confessionali e non hanno gradito fin da subito l'ascesa al potere degli islamici. Per il momento hanno protetto Mursi schierando i carri armati davanti alla residenza del presidente, ma la sensazione è che l'apparato militare sia in attesa di una qualche possibilità per esercitare il ruolo di garanzia già ricoperto con il rovesciamento di Mubarak ed il conseguente vuoto di potere. Le forze armate sono l'unico attore sul palcoscenico in grado di rovesciare gli equilibri, hanno forti contatti con gli Stati Uniti e non gradiscono la svolta impressa al paese dai vincitori delle elezioni, se la situazione dovesse ulteriormente deteriorarsi, andando ad innescare un concreto pericolo per la stabilità dello stato, un loro intervento è tutt'altro che remoto. Non è un mistero che le forze laiche ed i copti preferirebbero una soluzione del genere alla promulgazione della costituzione voluta da Mursi, ma finchè la situazione non sarà maggiormente delineata, anche con un passo indietro del presidente, le forze armate staranno in attesa di ciò che segnalerà l'evoluzione della questione.
mercoledì 5 dicembre 2012
Xi Jinping affronta la politica estera
Xi Jinping, il nuovo segretario del Partito Comunista Cinese, ha effettuato il suo primo discorso di politica estera, dopo la nomina al vertice della principale organizzazione politica della Cina; l'occasione è stato un incontro con esperti, imprenditori e studiosi sia del paese, che provenienti dall'estero. Formalmente Xi Jinping, non è ancora entrato in carica, il suo insediamento avverrà nel prossimo mese di marzo, ma data l'importanza del suo ruolo, gli osservatori di politica internazionale attendevano con trepidazione le parole del nuovo leader della seconda potenza mondiale. Il discorso è rimasto nel solco della tradizione cinese, molto generale ed infarcito di buoni propositi, quasi ecumenico nei confronti del mondo intero, anche di quelle che potranno essere le nazioni avversarie. Partendo dal punto fermo che la Cina deve raggiungere i propri obiettivi, il nuovo segretario del Partito Comunista, ha affermato che ciò non dovrà essere a discapito di altri paesi e che, anzi, sarà necessaria una maggiore apertura della Cina verso il mondo esterno. La caratteristica fondamentale dovrà essere uno sviluppo pacifico, dove la competizione economica non dovrà generare sconfitti ma creare i presupposti affinchè, nello stato di economia globale e globalizzata, sia favorita la crescita generale. Queste intenzioni si possono facilmente comprendere con le esigenze cinesi di allargare i propri mercati, creando una fase espansiva che favorisca la crescita ulteriore del paese; è facile immaginare che per fare ciò la Cina dovrà mettere mano al portafoglio ed immettere massicce dosi di liquidità nel sistema, cosa, peraltro già iniziata prima dell'avvento del nuovo segretario. In questo campo, quindi, si annuncia una continuità con la politica precedente, contraddistinta, semmai, da una maggiore spinta agli investimenti verso l'estero. Quello che appare è una volontà di affermazione morbida, non contrassegnata da proclami che il panorama internazionale possa intendere in maniera troppo spinta. Tuttavia perchè ciò sia attendibile, il nuovo segretario dovrà operare anche sul fronte interno, favorendo quelle riforme sociali necessarie a ridurre le grosse iniquità presenti sul territorio cinese. A questo riguardo, nonostante le timide aperture in fase congressuale, i veri intendimenti di Xi Jinping non si sono ancora compresi a fondo. La necessità di una riforma che riguardi i diritti fondamentali e quelli legati al lavoro sono ben chiari alla nomenclatura cinese, che si trova però ad affrontare le resistenze delle parti più conservatrici del partito e, sopratutto, della periferia della nazione, dove il potere dei potentati locali, rappresenta ancora l'ostacolo maggiore alla diffusione della ricchezza, necessaria anche all'estensione del mercato interno, finora ancora poco sfruttato. Sui temi più specificatamente di politica estera, l'atteggiamento vago del nuovo segretario fornisce la sensazione che l'atteggiamento cinese del nuovo corso, non si discosterà troppo da quello precedente, la Cina, prediligendo l'aspetto commerciale ed economico, continuerà nella politica di non ingerenza assoluta negli affari interni degli altri paesi, tuttavia per Pechino è importante assumere una nuova dimensione sulla platea internazionale: in questo senso è possibile che la Cina tenda ad intraprendere una maggiore attività di mediazione nelle questioni internazionali, presentandosi come un partner al di sopra delle parti, nei conflitti e nelle questioni tra gli stati. In quest'ottica sarà fondamentale vedere come la Repubblica Comunista Cinese intenderà usare l'enorme potere del diritto di veto nel Consiglio di sicurezza dell'ONU.
martedì 4 dicembre 2012
La NATO schiera i Patriot al confine tra Turchia e Siria
La pressione della Turchia sulla NATO, nonostante l'incontro con la Russia, ha dato il via libera da parte dell'Alleanza Atlantica alla dislocazione dei missili Patriot sul territorio di Ankara, per proteggere il paese da eventuali attacchi siriani. Il territorio turco era già stato colpito dall'artiglieria siriana in almeno due occasioni e la NATO si era riunita d'urgenza, come previsto dal protocollo in caso di aggressione di un proprio membro. La possibile evoluzione del conflitto siriano, che secondo fonti di intelligence, potrebbe vedere impiegate le tanto temute armi chimiche, da parte dell'esercito di Assad, ha costretto la NATO a compiere un passo praticamente obbligato, ma che è destinato a provocare delle reazioni nel mondo diplomatico. Infatti, nonostante le smentite del quartier generale di Bruxelles, che prevedono un impiego puramente difensivo dei missili Patriot, non è difficile prevedere che questa misura sarà interpretata come il primo passo per un intervento esterno nella guerra in corso in Siria. Le prime reazioni negative sono venute proprio da Mosca, che vede nel dispiegamento dei missili NATO, un elemento potenzialmente capace di generare ulteriore tensione in un'area già particolarmente provata, rischiando di innescare un conflitto anzichè evitarlo. Le ragioni della Russia sono comprensibili, se guardate alla luce degli interessi del Cremlino, ma allo stato delle cose, Mosca, all'interno delle grandi potenze, pare ormai essere rimasta sola ad opporre una resistenza più solida alle iniziative della NATO. In questa ottica il silenzio cinese pare abbastanza eloquente, il che non significa che Pechino potrebbe approvare un attacco della NATO, sopratutto in sede di Consiglio di sicurezza dell'ONU, tuttavia sembra evidente che l'atteggiamento generale del panorama internazionale, con le ovvie eccezioni di alcuni paesi musulmani, primo fra tutti l'Iran, dovrebbe essere oramai orientato a dare una svolta decisiva ad un conflitto sempre più pericoloso in un'area fortemente instabile. Con questa lettura, che si fonda soltanto su di una interpretazione della successione dei fatti, l'esclusiva ragione difensiva dello schieramento dei Patriot è fortemente in discussione. Del resto vi è anche una serie di fatti che sembrano andare in questa direzione: la Turchia, prima di tutto, non gradisce una guerra ai suoi confini, per i problemi dei profughi e delle implicazioni della vicenda curda, fin dai primi momenti del conflitto l'atteggiamento turco è stato sfavorevole per Damasco, su queste perplessità si innesta la volontà americana di disinnescare la possibilità di un pericoloso allargamento del conflitto, che potrebbe riguardare Israele. Inoltre i regni sunniti del golfo Persico, che si sono impegnati da subito nel sostegno dei ribelli, premono per evitare che Teheran riesca ad aumentare la sua influenza nell'area. Vi è anche un'altro elemento che potrebbe avere accelerato lo schieramento dei missili sul suolo turco: malgrado la stasi sostanziale del conflitto, la forza dei ribelli pare attenuarsi negli ultimi giorni ed il pericolo di una ripresa delle forze governative è reale, ed è questo anche uno dei motivi che avrebbe indotto Assad ad usare l'arsenale chimico, per dare una soluzione a lui favorevole più veloce. Quindi per la NATO ci sarebbe il motivo per una rappresaglia ed un intervento diretto sul territorio siriano. Dal punto di vista strategico, quindi, i Patriot lanciati da basi contigue alla Siria, potrebbero ottenere un effetto maggiore e dare una svolta al conflitto. Resta da vedere quale sarà l'atteggiamento di Assad, che se ha già colpito la Turchia, apparentemente senza motivo, potrebbe reagire all'eventuale lancio di missili con una risposta particolarmente violenta. Questo elemento è quello che dovrebbe frenare maggiormente una azione preventiva con partenza dalla Turchia, ma la situazione è in continua evoluzione e non è da escludere che altri elementi di valutazione potranno aggiungersi alle decisioni prese sia sul campo che sul terreno diplomatico.
lunedì 3 dicembre 2012
Per Israele si profila una crisi diplomatica
La principale misura di ritorsione studiata dal governo israeliano, per il riconoscimento della Palestina, come stato osservatore all'ONU, rischia di provocare un incidente diplomatico senza precedenti. L'intenzione di Netanyahu è quella di dare il via alla costruzione di circa tremila case nel territorio della West Bank, in piena Cisgiordania; ma fin qui niente di nuovo, non è la prima volta che Tel Aviv infrange la legge internazionale, grazie all'uso della forza ed al silenzio degli stati occidentali, USA in testa. La differenza, sostanziale, è che i nuovi insediamenti andrebbero ad interrompere la continuità territoriale del futuro stato palestinese, essendo costruiti nella zona denominata E1. Israele non ha mai osato tanto per l'esplicito divieto degli Stati Uniti, ma il tanto temuto riconoscimento palestinese all'ONU pare avere fatto saltare ogni prudenza e cautela all'amministrazione di Tel Aviv. La mossa, oltre che oltremodo avventata, rischia di innescare una serie di situazioni che questa volta porrebbero Israele in un isolamento ancora più forte. Probabilmente Tel Aviv contava sul fatto che la divisione politica tra Hamas ed ANP, ottenuta con la pace dopo i bombardamenti di Gaza, fosse sufficiente per mettere in atto qualsiasi decisione con la solita impunità; ma questa volta ad essere colpita, oltre i palestinesi, è il potere di esercitare la propria sovranità delle nazioni occidentali, sanzionate con un atto che mette in pericolo ogni futuro processo di pace in medio oriente. Se Madrid ha espresso il proprio "disgusto" per l'operazione ed ha convocato l'ambasciatore israeliano, il Regno Unito e la Francia potrebbero ritirare i propri ambasciatori da Tel Aviv, peraltro già richiamati in patria per consultazioni ufficiali sull'argomento. Anche Stoccolma ha convocato il rappresentante diplomatico di Israele, mentre la Germania ha reso pubblica la propria preoccupazione per la decisione di Netanyahu. ul territorio israeliano, tuttavia, credono remote le possibilità di un ritiro definitivo degli ambasciatori dei paesi occidentali, forse perchè increduli ad una variazione così drastica di un comportamento che gli ha garantito, fino ad ora, una libertà di azione senza sanzione alcuna. Perfino Washington, che non ha, per ora, fatto nessun passo ufficiale, ha manifestato la sua opposizione al piano israeliano, pare con enfasi differente rispetto al passato. Se Israele voleva manifestare il proprio dissenso sulla decisione dell'ONU, con un atto particolarmente forte, vi è senz'altro riuscita, il problema ora è cosa seguirà. Netanyahu non vuole apparire debole di fronte al mondo e, sopratutto, di fronte agli elettori con l'imminente votazione in arrivo; in questo momento più della platea internazionale il capo del governo di Tel Aviv pare preoccuparsi della platea interna, tuttavia questo equilibrio alterato può portare il paese in una difficile situazione diplomatica. Nonostante il problema della sicurezza, che peraltro con questo progetto viene notevolmente messa in discussione, alla sensibilità dei cittadini israeliani non può sfuggire che una pessima politica estera, sopratutto per un paese atipico come Israele, è un biglietto da visita non propriamente positivo all'interno della cabina elettorale. Netanyahu pare non capire che il voto favorevole alla Palestina, non inficia il rapporto che gli stati occidentali intendono mantenere con Israele, ed anzichè provare a capire le ragioni di questa scelta, opta per una risposta dura aldilà di ogni ragionevolezza. Ma la natura dello stato israeliano non può prescindere dal rapporto con gli stati occidentali ed europei in particolare; se questi hanno una visione differente da quella del capo del governo di Tel Aviv e, magari, forse, pensano, che l'ingresso della Palestina alle Nazioni Unite, possa essere un elemento che potrebbe favorire il processo di pace, Israele ha, prima di tutto, il dovere di rispettare tale scelta, e poi di cercare di comprenderne le ragioni, anzichè attaccare a testa bassa. Uno stato israeliano senza gli ambasciatori dei principali paesi europei, sembrerà una nazione decapitata dei rapporti più funzionali alla sua stessa sopravvivenza, dove il passo immediatemente successivo potrebbe essere quello delle sanzioni. A quel punto Tel Aviv potrebbe andare sullo stesso piano di Teheran, la capitale di uno stato pericoloso per la pace del mondo.
Tra Russia e Turchia un vertice per la Siria
Sul vertice tra la Russia e la Turchia si fonda ancora qualche labile speranza di trovare una qualche soluzione per la crisi siriana. I due paesi sono su fronti opposti, rispetto ai contendenti: la Turchia appoggia le forze ribelli ed è stata più volte vicina ad intraprendere azioni militari contro Damasco a seguito dei bombardamenti, effettuati per errore secondo le forze di Assad, di cui è stato fatto oggetto il suo territorio. La Russia è l'unico alleato occidentale che resta legato alla Siria, una alleanza fondamentale perchè dispone del diritto di voto all'interno del Consiglio di sicurezza dell'ONU, che gli permette di bloccare qualsiasi iniziativa presa in nome delle Nazioni Unite. L'interesse russo è dato dalla concessione siriana alla marina ex sovietica dell'uso dell'unica base navale di cui la flotta di Mosca dispone nel Mediterraneo, concessione difficilmente ripetibile con un nuovo governo al posto di quello di Assad. Ma tra Ankara e Mosca vi sono state anche recentemente frizioni diplomatiche di non poco conto in ragione dell'intercettazione, da parte della forza aerea militare turca, di un aereo siriano partito dal territorio russo, sospettato di trasportare materiale militare di provenienza proprio russa e destinato a rinforzare le truppe leali al dittatore Assad. Malgrado la smentita del Cremlino, che asseriva che il materiale in questione fosse costituito da apparecchiature radar non vietate dalle convenzioni internazionali in vigore, la tensione tra i due paesi è aumentata. Proprio questo stato di precarietà nelle relazioni tra i due paesi, paradossalmente, se sostenuto da una reciproca volontà di miglioramento può costituire una base di partenza per un conseguente sbocco positivo della guerra civile siriana. D'altro canto pare ormai assodato che lo stallo della situazione non possa risolversi attraverso la contesa militare a favore di uno dei due contendenti; con la possibilità di intervento esterno praticamente inesistente i ribelli non hanno la forza sufficiente per sconfiggere le forze armate ufficiali, che, tuttavia, stanno patendo il logoramento del conflitto e la sempre maggiore distanza dalla popolazione, pagata con le ripetute diserzioni. Il fatto, quindi, che due potenze così distanti, accettino di incontrarsi può essere letto come argomento incoraggiante, almeno come partenza per un maggiore coinvolgimento di altri attori, indispensabili ad entrare in scena per la soluzione diplomatica, che sebbene appaia tutt'altro che rapida, rappresenta al momento l'unica via di uscita. Uno dei timori russi è che la Turchia riesca a coinvolgere l'Alleanza Atlantica nella vicenda siriana, sbilanciando l'equilibrio precario tra le fazioni in lotta, creatosi con le armi. Gli argomenti di Mosca sono il possibile allargamento del conflitto in una escalation che potrebbe coinvolgere tutta la regione del medio oriente, già in pericoloso subbuglio, sia per la questione libanese, che per quella palestinese, con Israele sempre in stato di perenne allarme. In effetti tale pericolo è una possibilità concreta, tenendo conto anche dell'atteggiamento iraniano, sempre provocatorio e pronto a sfruttare ogni minima occasione per avvantaggiarsi delle situazioni contingenti.
Ma saranno anche altre le questioni sul tavolo: il problema della striscia di Gaza, che può essere inquadrato in una visione più ampia del problema mediorientale, di cui la Siria costituisce comunque l'argomento centrale, ed anche le questioni relative al necessario sviluppo della cooperazione internazionale, fattore sempre più determinante a cui ricorrere per la risoluzione delle crisi, da quelle regionali a quelle su scala più ampia. Nonostante le divergenze politiche i due stati hanno comunque mantenuto una intensa e fitta rete di rapporti commerciali, che le divergenze internazionali non hanno intaccato: si tratta della cooperazione nei settori dell'energia e del commercio, che ha permesso di di tenere sempre vicini i governi dei due paesi, che ora dovrebbero sviluppare nuovi accordi nei settori della finanza e del credito bancario.
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