Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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mercoledì 27 giugno 2012
La Turchia dichiara la Siria paese ostile
La Turchia considera ufficialmente la Siria paese ostile, viene così modificato il protocollo militare, che, presumibilmente, verrà attivato nel caso di avvicinamento alle frontiere di elementi o apparati delle forze militari siriane. Il nuovo assetto sulla linea di confine, porta la situazione tra i due paesi ad un livello molto vicino allo scontro, aggravando una stuazione, sia regionale, che internazionale, già molto compromessa, per la presenza contemporanea di diversi soggetti portatori di visioni anche estremamente opposte sulla questione siriana. La mossa di Erdogan è stata ben ponderata e dettata da tempi di reazione tutt'altro che rapidi. L'esame approfondito dei tabulati dei percorsi radar fatta dai tecnici turchi, contraddice, infatti la versione siriana. Il jet turco sarebbe stato abbattuto in acque internazionali; prende così sempre più corpo l'ipotesi che la contro aerea siriana stava testando i nuovi armamenti forniti dai russi in vista di una possibile azione militare internazionale del tipo di quella messa in atto contro il regime di Gheddafi. In questi termini la mossa turca è stata praticamente obbligata, anche per dare un chiaro segnale alla comunità internazionale, dimostrando un atteggiamento non certo passivo. Tuttavia, se l'atteggiamento turco pone le basi per immediate ritorsioni verso altri eventuali atti ostili, le vere intenzioni del governo di Ankara non sono quelle di seguire la Siria in una eventuale escalation militare. Lo dimostrano le condizioni della richiesta per la riunione dei paesi NATO, convocata non sulla base dell'articolo 4 del trattato atlantico, che dispone che le parti si consulteranno ogni volta che, nell'opinione di una di esse, l'integrità territoriale, l'indipendenza politica o la sicurezza di una delle parti fosse minacciata, ma richiamando l'articolo 5, che prevede, che un attacco contro un membro sarà considerato come un attacco contro tutti, di tenore ben diverso quindi dall'enunciazione della disposizione precedente. L'atteggiamento russo è stato da subito di moderazione, forse per essere indirettamente responsabile dell'accaduto, caldeggiando l'ipotesi della non premeditazione siriana nell'abbattimento dell'aereo turco, ed invitando a percorrere con maggiore convinzione la strada del dialogo intrapresa da Kofi Annan, che, peraltro, fino ad ora si è rivelata priva di risultati. La cautela di Mosca rivela una profonda preoccupazione per una possibile svolta della questione non gradita al Cremlino, che potrebbe mettere in ulteriore cattiva luce la politica estera intrapresa da Putin. Se così fosse potrebbe essere messa in discussione tutta l'impalcatura su cui attualmente poggia la strategia diplomatica russa, troppo esposta con regimi dubbi ed autoritari, in un rapporto troppo spesso giocato sul limite della convenienza, che esula da ragionamenti logici al di fuori di evidenti manovre di potere nel teatro internazionale.
martedì 26 giugno 2012
Le paure israeliane per il potere agli islamici in Egitto
I peggiori timori israeliani si sono avverati con l'elezione di Mohamed Morsi a Presidente dell'Egitto. Le speranze di una elezione del candidato dell'esercito sono state frustrate dalla salita al potere dell'esponente di un movimento di radicali islamici, i Fratelli musulmani, che considera lo stato di Israele un nemico. Le reazioni ufficiali a Tel Aviv sono di freddezza ed improntate su dichiarazioni di circostanza, dove si loda il progresso democratico egiziano ed il rispetto per l'esito delle elezioni, auspicando la continuazione dei buoni rapporti presenti ta i due stati. Tuttavia i sentimenti reali del paese sono di profonda inquietudine per i possibili sviluppi della situazione e per la delusione della mancata instaurazione di una democrazia pienamente laica ad Il Cairo. Questo, del resto, è stato l'errore di valutazione compiuto da tutte le cancellerie occidentali, dove si è ritenuto che una rivoluzione contro una dittatura portasse in automatico ad una democrazia scevra da influssi teocratici, caratterizzati da elementi, ed è proprio questo l'ossimoro, contenenti elementi di autoritarismo. Questione percepita dalla grande maggioranza degli egiziani, che non si è recata alle urne proprio per la mancanza di fiducia in entrambi i conendenti politici, arrivati al ballottaggio. Per Israele ora si concretizza la paura del futuro del trattato di Camp David, che ha permesso di mantenere per trenta anni una salda sicurezza sul confine meridionale del paese. Se queste condizioni dovessero mutare, per Tel Aviv si tratta di rivedere tutto l'intero assetto difensivo in vigore nel paese.
Nonostante il nuovo presidente egiziano abbia espressamente detto che non intende cambiare nulla circa i trttati in vigore con Israele, quest'ultimo ha dei Fratelli musulmani una idea che li colloca non molto distante da Al Qaeda e sostanzialmente non crede alle parole di Morsi. Lo schema che potrebbe presentarsi è quello di un mantenimento ufficiale del trattato, violato in modo non ufficiale tramite aiuti in armi ad Hamas e la riapertura della frontiera di Gaza, che permetterebbe l'ingresso di terroristi direttamente nel Sinai, aumentando la capacità operativa dei movimenti anti israeliani. Neppure le flebili speranze, che vedono l'esercito egiziano come un possibile contrappeso al potere dei Fratelli musulmani, possono concedere una qualche tranquillità agli israeliani. Paiono infatti finiti i tempi della cooperazione tra i due stati contro i movimenti islamici radicali, l'inversione di rotta ad Il Cairo fa presupporre un diverso atteggiamento, certamente più tollerante, verso i gruppi islamisti, che certo non potrà che alzare la tensione fra i due paesi. Infatti è dalla caduta di Mubarak che si assiste a ripetuti incidenti e scontri alla frontiera tra Israele ed Egitto, che possono essere soltanto il prologo di una situazione destinata a peggiorare, se non interverranno ulteriori soggetti sulla scena politica egiziana.
Nonostante il nuovo presidente egiziano abbia espressamente detto che non intende cambiare nulla circa i trttati in vigore con Israele, quest'ultimo ha dei Fratelli musulmani una idea che li colloca non molto distante da Al Qaeda e sostanzialmente non crede alle parole di Morsi. Lo schema che potrebbe presentarsi è quello di un mantenimento ufficiale del trattato, violato in modo non ufficiale tramite aiuti in armi ad Hamas e la riapertura della frontiera di Gaza, che permetterebbe l'ingresso di terroristi direttamente nel Sinai, aumentando la capacità operativa dei movimenti anti israeliani. Neppure le flebili speranze, che vedono l'esercito egiziano come un possibile contrappeso al potere dei Fratelli musulmani, possono concedere una qualche tranquillità agli israeliani. Paiono infatti finiti i tempi della cooperazione tra i due stati contro i movimenti islamici radicali, l'inversione di rotta ad Il Cairo fa presupporre un diverso atteggiamento, certamente più tollerante, verso i gruppi islamisti, che certo non potrà che alzare la tensione fra i due paesi. Infatti è dalla caduta di Mubarak che si assiste a ripetuti incidenti e scontri alla frontiera tra Israele ed Egitto, che possono essere soltanto il prologo di una situazione destinata a peggiorare, se non interverranno ulteriori soggetti sulla scena politica egiziana.
domenica 24 giugno 2012
Presenze USA in Siria e possibile sblocco della crisi
Gli USA starebbero operando direttamente nel teatro siriano attraverso personale presente nel sud della Turchia, la parte confinante con la Siria, per la distribuzione di armi alle forze di opposizione al regime di Assad. Lo scopo principale è controllare che le armi non vadano in mano a gruppi di fondamentalisti islamici, tra cui cellule di Al Qaeda, presenti anch'essi nella eterogenea composizione degli oppositori di Damasco. Vi è anche uno scopo contingente nella ragione della presenza americana, ed è quello di conoscere più a fondo la situazione per prevenire, nel caso della caduta di Assad, un deriva fondamentalista del paese. In realtà la presenza americana ufficialmente è soltanto quella necessaria alla distribuzione di materiale non bellico, tra cui strumenti di radio comunicazione ed aiuti medici e lo staff della Casa Bianca smentisce l'ipotesi degli aiuti attraverso la fonitura di materiale militare, i cui finanziamenti ufficiali provengono da Arabia Saudita, Qatar e Turchia. La strategia americana ufficiale, in Siria resta quella delle sanzioni e della via diplomatica, tuttavia resta difficile da credere, che il futuro di un paese così importante per gli assetti geopolitici della regione più delicata del mondo, non sia seguito in maniera più diretta che dalle sole control room di Washington. In quest'ottica la presenza in Turchia, l'alleato americano più importante dell'area, chiarirebbe le vere intenzioni del governo di Obama, che usa Ankara come scudo diplomatico in una situazione che interessa però fortemente entrambi gli stati. La Turchia, fin dal'inizio della questione siriana, ha assunto un atteggiamento ben preciso, contrario alla politica di Assad, ospitando sul suo territorio i numerosi profughi provenienti da oltre frontiera ed attivandosi con l'appoggio ai ribelli, prima in forma più riservata, poi in maniera più aperta. In questo quadro è significativo il caso dell'abbattimento della aereo militare turco, che sarebbe avvenuto ad opera della contro aerea siriana. Erdogan ha chiarito che se ciò verrà appurato la Turchia prendrà le adeguate contromisure. Potrebbe essere l'occasione per l'intervento militare in aiuto dei ribelli, fino ad ora risultato impraticabile. Se l'abbattimento dell'aereo turco, infatti, venisse letto, da parte della NATO, come un attacco al paese, potrebbe scattare la clausola dell'aiuto dell'organizzazione atlantica ai suoi membri vittime di attacco militare. Anche se estremizzata, tale eventualità, potrebbe lo strumento per la soluzione della crisi, contro cui Cina e Russia potrebbero opporre soltanto condanne di tipo diplomatico. La soluzione andrebbe quindi in favore dell'occidente, sia in chiave anti iran, che nell'ottica di ridimensionamento delle ambizioni russe e sopratutto potrebbe finalmente interrompere i massacri di Assad, ormai troppo frequenti.
mercoledì 20 giugno 2012
Il pericoloso atteggiamento russo sulla questione iraniana
Lo stallo dei negoziati sul nucleare iraniano, in corso a Mosca, non fa intravedere risultati positivi nello sviluppo della questione. Se l’intenzione era scongiurare il possibile attacco israeliano, va subito detto che le condizioni non sono affatto mutate. L’ostruzionismo russo, delineato dalla linea di politica estera intrapresa da Putin, contribuisce ulteriormente ad una situazione maggiormente confusa. L’impressione è che l’Iran sia strumentale alla Russia e che sia vero anche il contrario, nei confronti di USA ed Europa. Aldilà della facciata diplomatica, Mosca ha preso una via ben precisa nei confronti della questione iraniana, che si impernia nel procrastinare la decisione del gruppo composto da USA, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, Germania, in modo da dare tempo all’Iran nei suoi piani. D’altra parte se Teheran si ostina a non dare corso alle richieste di ispezione dei siti incriminati, dimostra chiaramente le sue reali intenzioni, che non possono che essere quelle che spaventano Tel Aviv. Mosca sta portando avanti un gioco pericoloso nel medio oriente, oltre che con la questione iraniana, anche i recenti sviluppi in Siria, pongono la Russia in una posizione di antitesi con l’occidente, che non può che preoccupare il panorama internazionale. Permettere all’Iran di guadagnare tempo e così aumentare la tecnologia atomica, appare come una strategia quasi incomprensibile, il rischio di provocare veramente un conflitto che da regionale può degenerare in qualcosa di più ampio, appare uno strumento di pressione nei confronti degli USA, denso di troppe incognite. Anche il rapporto che si sta creando tra la teocrazia iraniana e Mosca può andare fuori controllo in un futuro non molto lontano. Le perplessità che suscita l’atteggiamento russo devono essere comprese nell’indirizzo impartito da Putin, disposto a rischiare molto per intaccare il ruolo di potenza dominate degli Stati Uniti. Non bastano i motivi economici, forse più confacenti alla Cina, per spiegare la sterzata data in politica estera al nuovo inquilino del Cremlino. Se Mosca pensa di riguadagnare terreno nella classifica delle super potenze, con una tattica così disperata, significa che non ha molti argomenti per riproporsi all’attenzione del mondo, ma questa strategia della disperazione non può che rimarcare la pericolosità dell’orso ex sovietico, in crisi di identità emersa in tutta la sua prepotenza. Se a Mosca dovesse sfuggire il controllo, che crede di avere, sull’Iran, per il mondo gli interrogativi diventeranno veramente inquietanti.
domenica 17 giugno 2012
USA ed Europa: politiche di cittadinanza differenti
La decisione di Obama di dare la cittadinanza ad 800.000 americani nel cuore, come li ha definiti il Presidente USA, pone ancora una volta la questione della forza e dell'innovazione americana rispetto all'immobilismo europeo. Aldilà delle considerazioni di carattere partigiano, che hanno presentato i repubblicani, con argomentazioni anche valide, e delle implicazioni legali di un provvedimento che presenta vistose lacune, occorre riflettere, in questi tempi di profonda crisi economica, sull'impatto di un provvedimento del genere e della capacità di sostenerlo. La norma va ad incidere direttamente su quel lato dell'economia, che considera gli investimenti come una notizia che può fare innalzare il prodotto interno lordo di un paese. Naturalizzare 800.000 persone non può che essere visto come un atto di fiducia in una ripresa economica che stenta a decollare, ma, insieme, anche una profonda lezione all'Europa del regionalismo con le prospetive ristrette. Certo, anche in un momento particolarmente difficile gli USA hanno una forza economica in grado di sostenere un provvedimento che la UE non potrebbe neppure concepire. Ma il lato economico, pur importante, rappresenta solo una parte del problema. La chiusura di molte società europee è dovuta alla mancanza di capacità di gestione di un problema, che poteva diventare una opportunità. Istituzioni miopi non hanno saputo regolare un mercato dei clandestini, che faceva comodo a sfruttatori presenti in ogni campo, con il risultato di innalzare la temperatura rilevata nel termometro sociale. Questo ha determinato una chiusura culturale, che restringe le possibilità di naturalizzazione anche nei casi più evidenti. Dare la cittadinanza a chi è nato o anche solo cresciuto nei paesi europei non è un atto di misericordia ma un concreto investimento per la crescita della società. Non si auspica qui una apertura delle frontiere non regolata, anzi si chiede una regolazione più attenta in grdo di elaborare le giuste distinzioni. D'altra parte il fenomeno migratorio è un fatto irreversibile che non si ferma con ottuse chiusure indiscriminate. Obama ha fatto molti errori nel suo mandato, sopratutto non riuscendo a mantenere alcune promesse elettorali, ma con questo provvedimento si rivela un politica di alta classe, che in Europa non ha alcun paragone.
venerdì 15 giugno 2012
Chavez: anello di passaggio della politica estera russa ed iraniana
Quella che si sta profilando è una alleanza tra dittatori certamente da non sottovalutare. Gli incontri tra Chavez, Ahmadinejad e Lukashenko, non possono non mettere in apprensione il mondo occidentale per la creazione di rapporti che si annunciano sempre più stretti. Il punto di partenza riguarda la produzione militare di cui il Venezuela sta diventando un grande compratore. L'acquisto di droni, armi e munizioni rientrano nel piano di Chavez per difendere quella che lui definisce la sua rivoluzione. Il principale fornitore del Venezuela è proprio l'Iran, che estende il suo modello di politica estera contro gli Stati Uniti, anche nel continente sud americano. Ad accomunare Caracas e Teheran vi è una rinnovata retorica anti americana, nel momento storico caratterizzato dalla presidenza Obama, che probabilmente rappresenta il periodo meno indicato per praticare questo tipo di discorsi. Tuttavia non si può non individuare negli USA il nemico principale, contro cui Chavez intende difendersi. Alla coppia iraniano venezuelana si aggiunge Lukashenko, il dittatore della Bielorussia, paese più volte sanzionato dalla comunità internazionale, per la negazione dei diritti civili, ma sostenuto da Mosca. La visita del capo bielorusso a Caracas, rientra in una strategia dove è francamente difficile non intravedere la mano dei russi, che, appunto tramite Lukashenko, offrono l'appoggio a Chavez, che forse non possono dare in maniera più limpida. Quello che si prefigura pare un ritorno al passato delle relazioni internazionali, per Putin il piano, anche presentato come proposta elettorale, di fare diventare di nuovo la Russia una grande potenza, passa per una rinnovata rivalità con gli Stati Uniti, in quello che pare un tentativo di rivalsa per le posizioni perse con la caduta del regime sovietico. Mosca anzichè collaborare con Washington, come pareva avviata a fare negli anni novanta dello scorso secolo, si allontana sempre di più dalle istanze, non solo americane ma anche occidentali. Il caso della Siria è sintomatico, ma anche il dubbio rapporto che coltiva con Teheran, fatto di alti e bassi certo, ma senza che vi sia mai una esplicita condanna della corsa agli armamenti nucleari, non può che fare intravedere un disegno chiaro dell'azione diplomatica del Cremlino, che mette al centro le relazioni con paesi schierati principalmente contro gli USA ed in seconda battuta con l'occidente, più spesso identificato con la UE. La conquista del continente sudamericano, per le sue risorse, è un obiettivo ritenuto praticabile, con molti distinguo relativi ad i diversi paesi, dai nemici degli USA, perchè l'avversione a Washington, malgrado la situazione sia cambiata, ha radici storiche non ceerto ingiustificate. L'azione americana delgi anni settanta ed ottanta, che ha privilegiato le parti più conservatrici del paese, per asservirle agli scopi di Washington, benchè abbandonata da tempo, ha lasciato pesanti strascichi nella popolazione e negli stessi governi in carica. Anche nei paesi più ricchi, come il Brasile, vi è uno smarcamento sempre più forte dall'orbita americana; tuttavia, non sono i paesi più ricchi e nei quali vi è un processo democratico più radicato nella vita sociale ad essere oggetto delle attenzioni dei nemici degli Stati Uniti, ma, piuttosto, stati, come appunto il Venezuela, dove la componente populista è maggioritaria tra la popolazione. Ahmadinejad è bravo a comprendere in quali interstizi può penetrare per portare avanti la sua politica quasi in casa del nemico, assumendo una visibilità ormai preclusa in altre parti del globo. A ciò fa da contraltare la politica estera americana, che pare avere abbandonato alcune zone a causa della troppa concentrazione in altre, come l'Afghanistan, l'Iraq e le zone del Giappone e della Corea del SUd, ritenute strategiche per la vicinanza con la Cina. E' vero che Obama ha professato una politica estera da esercitare sottotraccia, ma estremizzare questo atteggiamento potrebbe portare consensi alle maggiori motivazioni repubblicane in campagna elettorale. Per gli USA è importante non ritirarsi troppo e chiudersi all'interno dei propri confini: gli spazi lasciati possono essere colmati facilmente da altri.
giovedì 14 giugno 2012
In Egitto sciolta la camera bassa, dove i Fratelli Musulmani avevano la maggioranza
La decisione delle Corte Costituzionale egiziana, che ha sciolto la Camera bassa del parlamento formatasi dal risultato delle recenti elezioni, pone l'Egitto di nuovo in una situazione molto pericolosa. Il motivo dello scioglimento deriva dalla legge elettorale vigente, che sarebbe contraria alla costituzione. Il risultato elettorale aveva consegnato alla formazione religiosa dei Fratelli Musulmani la maggioranza del ramo del parlamento. Lo scioglimento, avviene in un momento molto delicato per il paese, alla vigilia delle elezioni presidenziali. Che la situazione sia tesa all'interno del paese lo testimonia il fatto che il Consiglio militare si sia riunito d'urgenza per controllare lo svolgimento degli avvenimenti, i quali, peraltro, non si preannunciano distesi. Mohamed Beltagui del comitato esecutivo del partito dei Fratelli Musulmani, Giustizia e Libertà, ha definito esplicitamente il provvedimento un colpo di stato, che annulla le vicende dei mesi scorsi, che hanno portato alla caduta di Mubarak ed alle prime libere elezioni svoltesi nel paese. In effetti il provvedimento della Corte Costituzionale egiziana, a prescindere dai motivi legali, appare mosso da considerazioni politiche, fondate sulla storia stessa del paese, dove le classi dominanti non hanno mai visto di buon occhio, quella che loro considerano una deriva quasi teocratica. Il risultato delle elezioni aveva scontentato parecchie anime della protesta, sopratutto quelle laiche, per il timore dell'instaurazione dei principi islamici come legge vigente. Fattore che i vincitori hanno sempre smentito, ma ciò non ha mai convinto chi auspicava una direzione più occidentale dell'Egitto e sopratutto i militari, grandi registi dietro le quinte, del passaggio di potere e della caduta di Mubarak. Probabilmente dietro la decisione della Corte, più che le opinioni dei gruppi partitici che speravano in una svolta del paese grazie all'instaurazione di una democrazia simile a quelle vigenti in occidente, vi è chi detiene effettivamente il potere nel paese: i militari. Il timore di perdere le proprie prerogative ed anche i propri privilegi, che verosimilmente verrebbero ridotti da un governo di matrice islamica, ha creato i presupposti per la decisione della Corte. Ora tutto potrebbe ritornare in gioco e ripartire dall'inizio: l'organizzazione logistica dei Fratelli Musulmani, sopravissuta nell'illegalità durante il regno di Mubarak, è capace di ricreare quel clima di protesta che ha permesso la caduta del faraone, anche se ora non dovrebbero godere dell'appoggio dei partiti laici, di cui erano alleati durante le fasi acute della ribellione, che si sono detti scontenti per il risultato delle urne, che appunto, hanno favorito le formazioni confessionali. In questa situazione di profonda incertezza sono state significative le parole di El Baradei, che ha sottolineato come l'elezione di un presidente di un paese privo della Costituzione e di un Parlamento, significa consegnare ad un individuo poteri più ampi di quelli di un dittatore. Ragionevoli, quindi le sue proposte: da un lato l'elezione di un presidente ad interim o, ancora meglio, di un consiglio presidenziale che adempia ai propri doveri insieme ad un governo di unità nazionale e la creazione di una commissione costituente in grado di redigere una legge fondamentale capace di tenere conto di tutte le istanze presenti nel paese. Resta ora da vedere se il paese e sopratutto i militari intenderanno seguire questa strada, alla quale, come alternativa esiste solo di nuovo la guerriglia e le violenze.
Gli USA accusano la Russia per gli aiuti ad Assad
La questione siriana, troppo a lungo sottovalutata, rischia di avere un impatto ben maggiore sul complesso sistema delle relazioni internazionali. L'ultima vicenda riguarda la rinnovata tensione tra USA e Russia, che pare ricalcare le cupe atmosfere della guerra fredda. Gli Stati Uniti accusano Mosca di rifornire Damasco con armi, elicotteri da combattimento e sistemi anti aerei, viceversa la Russia accusa Washington di fare altrettanto con le forze ribelli. Se entrambi negano le reciproche accuse, Mosca ammette però, di avere effettivamente inviato i sistemi di difesa aerea, facenti parte di lotti di forniture firmate precedentemente dell'inizio della guerra civile in corso, mentre gli USA hanno confermato soltanto l'invio di materiale medico ed apparati per le radio comunicazioni, smentendo in modo categorico l'invio di armamenti. Se risulta ben difficile stabilire, sopratutto adesso, la verità, l'invio dei sistemi anti aerei, peraltro confermato dai russi, va ad inquadrarsi nella strategia di Mosca di evitare che forze aeree possano bombardare le truppe di Assad. Il pensiero russo si basa sui precedenti casi della Serbia e della Libia, dove, per sfiancare i regimi in carica è stata usata l'arma aerea, che attraverso bombardamenti, che dovevano essere mirati, ha operato con lo scopo di indebolire i governi in carica ed in appoggio delle forze di terra ribelli, evitando l'impiego diretto di truppe straniere sul terreno. Anche per la Siria i piani erano questi, ricalcando un modello di azione ormai assestato. La Russia, affiancata dalla Cina, ha unito gli sforzi diplomatici con il veto nel Consiglio di sicurezza dell'ONU, con la fornitura dei sistemi anti aerei ottenendo così di blindare dall'alto il regime di Assad, anche nel caso di azioni concordate al di fuori dell'ombrello delle Nazioni Unite. Così se i sistemi anti aerei russi assicurano una copertura del cielo siriano, in concomitanza con l'impossibilità di una invasione da terra, Assad per il momento resta saldamente al suo posto, giacchè la composizione delle forze in campo può consentire ai ribelli, nella migliore delle ipotesi, soltanto il mantenimento delle zone conquistate, insomma una situazione di stasi, che, però gioca a favore del dittatore siriano, perchè gli consente di recuperare tempo prezioso per riorganizzare la riconquista sistematica dei territori a lui più lontani. L'atteggiamento russo non è però una novità, nello schema geostrategico di Mosca la Siria rappresenta una pedina fondamentale, perchè in quella nazione è ospitata l'unica base militare russa nel Mediterraneo ed un eventuale cambio al vertice del paese potrebbe creare le condizioni per uno sfratto delle navi militari ex sovietiche, sopratutto dopo il comportamento di appoggio ad Assad tenuto finora dal governo russo. La situazione particolarmente tesa tra USA e Russia impedisce qualsiasi progresso sulla via della pacificazione in Siria e l'irrigidimento delle rispettive posizioni non favorisce gli incontri bilaterali che dovevano tenersi nei prossimi giorni e che risultano ora sospesi. Il maggiore impegno della Russia a favore di Assad rischia così di diventare un pericoloso intralcio nella soluzione della questione e determina che l'unica strategia possibile sia un maggiore coinvolgimento della Cina, verso cui devono essere operate azioni di convincimento a cambiare il proprio atteggiamento nel considerare possibili alternative all'ormai fallito piano di pace di Annan. Un mutato atteggiamento cinese porterebbe la Russia ad un isolamento diplomatico sulla questione siriana difficilmente spiegabile se non con l'ammissione, per ora sempre negata, di profondi interessi in Siria, tali da permettere le carneficine praticate da Assad: una posizione difficilmente sostenibile per una nazione che aspira a riprendere il suo ruolo di super potenza, in un contesto che non è più quello degli anni della guerra fredda.
mercoledì 13 giugno 2012
Gli attentati sunniti in Iraq possono favorire la politica estera iraniana
I numerosi attentati di questi giorni in Iraq, contro gli sciti, rimettono al centro la questione dell'unità del paese, da sempre diviso tra el due principali correnti dell'islam. Il governo di Saddam Hussein aveva risolto il problema favorendo i sunniti e sottoponendo gli sciti ad una ferrea repressione; con il governo democratico e la concomitante partenza del grosso dei militari americani, il paese sembra sprofondato nell'ennesima spirale di violenza. Le conseguenze, oltre che sul piano interno, rischiano di essere molto pesanti su quello internazionale, con il solito Iran a fare la parte del guastatore. Non è un mistero, infatti, che Teheran ambisca a portare sotto la sua influenza il paese iraqeno, molto vicino ad un vuoto di potere, per allargare la sua sfera d'azione nella regione. Certamente, se non all'intero territorio, l'Iran mira alla parte meridionale del paese, dove vi è la maggiore presenza scita e vi sono diversi giacimenti petroliferi. La questione della presenza di sciti e sunniti all'interno dello stesso paese, poteva essere risolta con la divisione in due parti dello stato, nella fase del dopo Saddam, ma Washington non ha optato per questa soluzione, proprio per impedire che Teheran potesse, a quel punto, concretizzare le sue mire sulla parte scita del paese. La strategia sunnita mira a portare il paese nel terrore, con attentati kamikaze, che spesso hanno come obiettivo luoghi sacri per gli sciti, non a caso tra gli ultimi attentati hanno avuto come destinatari pellegrini sciti che si recavano alla celebrazione per la venerazione di un Imam. Come già accaduto per la repressione degli sciti nei paesi del Golfo Persico, Teheran potrebbe sfruttare questa situazione a proprio vantaggio, inglobandola nella propria politica derivante dall'auto nomina a paese protettore degli sciti nel mondo, specialmente quelli oggetto di prevaricazione da parte dei sunniti. Si tratta di una strategia che permette all'Iran di percorrere una doppia finalità: allargare la propria influenza su paesi stranieri, spesso nemici dichiarati, come l'Arabia Saudita, attraverso l'appoggio della parte scita della popolazione di quegli stati e nello stesso tempo, dare indicazioni a questi gruppi etnici e dirigerli verso ribellioni capaci di destabilizzare l'ordine interno. Non a caso proprio l'Arabia Saudita ha più volte protestato contro le ingerenze iraniane degli affari interni della propria nazione e degli alleati, come il Bahrain. Il progetto iraniano in politica estera si muove quindi su di una direttrice che possa annullare gli effetti dell'isolazionismo imposto dagli stati occidentali, per sfondare verso zone dove la presenza scita può assicurare un canale preferenziale verso chi si presenta come a loro come protettore e punto di riferimento religioso. Ciò determina una capacità di mobilitazione anche piuttosto importante all'interno di stati stranieri, che diventa quindi uno strumento concreto di pressione internazionale. Ma, allo stesso tempo , costituisce un potenziale pericolo per la stabilità regionale, in realtà uno degli obiettivi di Teheran pare muoversi proprio in quel senso, l'aiuto alla Siria di Assad, le citate ingerenze nei paesi del Golfo e l'attività nello Yemen, configurano l'insieme di una complessa strategia, anche sotto traccia, volta a diventare la risposta alle sanzioni occidentali, questo perchè senza una adeguata platea, la repubblica teocratica iraniana non può schierare il suo arsenale propagandistico, che ne costituisce una delle maggiori fonti di sopravvivenza.
martedì 12 giugno 2012
L'inutile lamentazione di Obama
Nei giorni scorsi Obama ha chiesto all'Europa di cambiare rotta, spostandosi dal rigore a provvedimenti che possano facilitare la crescita, sopratutto per non penalizzare ulteriormente i prodotti statunitensi, che stentano nelle vendite in quello che è comunque, malgrado tutto, il mercato ancora più pregiato del mondo. La richiesta, ancorchè condivisibile, muove però da più di un vizio di fondo, infatti, fatte salve le grandi responsabilità dei governi nazionali e delle istituzioni centrali europee è un fatto che la bolla immobiliare americana ha avuto una grande parte di responsabilità nello scatenare la crisi attuale, che le società di rating continuino ad esprimere giudizi pericolosi che influenzano i mercati in maniera abnorme, nonostante siano state responsabili di più di una valutazione errata che ha prodotto conseguenza nefaste, che la finanza USA, come quella inglese, sia ancora una macchina senza controllo adeguato le cui conseguenze di operazioni perlomeno avventate si riverberano inevitabilmente nella zona euro. Obama è probabilmente il migliore presidente possibile in un paese come gli Stati Uniti, viziato da anni di liberismo eccessivo, ma la sua azione, al comando della nazione più importante del mondo, quella che con il suo comportamento può influenzare gran parte degli altri stati, se inquadrata in una visuale più vasta, non è stata sufficiente. Chi sperava nella presidenza Obama per una radicale trasformazione degli assetti finanziari ed economici del pianeta, non ha potuto che subire una cocente delusione. Limitato da una congiuntura effettivamente troppo negativa e da una coabitazione con una maggioranza diversa dal suo partito nel potee legislativo, il Presidente americano ha esercitato un potere riformista timido e talvolta appiattito su necessità elettorli contingenti, che ne hanno frenato quasi da subito la ventata innovatrice. Significativo è stato il rapporto con i gruppi di Occupy Wall Street, praticamente ignorati, seppure fossero portatori di reali sentimenti presenti in una platea più vasta e che richiedevano, in modo non violento, quella riforma del sistema finanziario, individuata come necessaria per frenare la crisi e ristabilire su parti più egualitarie la redistribuzione del reddito mediante anche una tassazione profondamente rivista. Il mancato incontro con questi di gruppi spontanei, capaci di una protesta intelligente, troppo spesso soffocata in maniera anche violenta dalle forze dell'ordine, e quindi anche, in ultima analisi, da Obama stesso, rappresenta un segnale chiaro di come l'inquilino della Casa Bianca non abbia saputo cogliere quell'opportunità per tramutare in provvedimenti legali un sentimento comune, molto vasto nella nazione americana. Se tale protesta poteva dirsi partita dalla sinistra americana, a livello di idea era stata fatta propria anche da parti del partito conservatore, consci della necessità di una doverosa ristrutturazione del sistema finanziario statunitense. Occorre dire che se Obama non ha praticamente accolto questa esigenza in casa democratica, nei conservatori è stata del tutto ignorata, come hanno bene evidenziato i temi maggiormente trattati nella campagna elettorale per eleggere lo sfidante nelle prossime presidenziali. Nei repubblicani si è preferito puntare su temi come l'aborto e la supremazia americana, che fanno sempre una grande presa sul proprio elettorato, ma si è tralasciato di proposito di portare in prima linea i temi economici, lasciando inatatta la dottrina del partito, improntata al liberismo, ma senza urlarlo troppo. Insomma dagli Stati Uniti, in entrambi i maggiori partiti si è avuto un atteggiamento di contrita sottomissione alle ragioni della finanza. Ma ciò non autorizza, specialmente chi ricopre la massima autorità USA ha fare prediche, che paiono soltanto fuori luogo. Gli USA sono la massima potenza finanziaria del mondo, ogni movimento, positivo o negativo, comporta inevitabilmente delle ricadute sul resto dei mercati. Se si appura la necessità di una regolazione del sistema finanziario americano e poi questo non avviene la colpa non è certo dell'Europa, che anche per questo motivo non può più permettersi i prodotti americani.
E' possibile una guerra tra Israele e la Siria?
Nella speranza di vedere, almeno, indebolita la grande minaccia iraniana, Israele rinuncia alla propria neutralità nei confronti delle diatribe del mondo arabo, e si pronuncia a favore dei ribelli siriani. Si tratta di un cambiamento profondo nel panorama diplomatico regionale, sebbene, per ora senza ricadute efficaci, aldilà dell'appoggio formale agli insorti contro Assad. Con il presidente siriano, fino ad ora, il rapporto, ufficialmente di inimicizia, è stato in realtà improntato alla non aggressione reciproca, tanto che la frontiera con la Siria, per Israele, era quella ritenuta meno pericolosa dall'esercito di Tel Aviv. Ufficialmente la pronuncia israeliana è dovuta alla crudele repressione attuata dal governo di Damasco contro i civili, in realtà la dichiarazione a favore dei ribelli non è venuta sull'onda dell'emozione di quanto visto da tutto il mondo, ma è frutto di una profonda riflessione maturata con ponderazione nel tempo. Lo sviluppo che hanno preso i rapporti, sempre più stretti, tra Damasco e Teheran è alla base del ragionamento israeliano: Assad non è più ritenuto un vicino affidabile, ed anzi la piega che ha preso la guerra civile nel suo paese, ne fa un personaggio ormai imprevedibile, capace, per distogliere l'attenzione dalla sua politica di repressione, di azioni diversive molto pericolose, che potrebbero riguardare anche Israele. Damasco possiede un grande arsenale di armi chimiche, che potrebbero essere girate verso il territorio israeliano o direttamente dalle forze regolari siriane o girate agli Hezbollah che potrebbero usarle dal Libano. Si tratta di uno scenario estremo ma potenzialmente verificabile, Assad potrebbe guidare tutta la rabbia dell'estremismo islamico, contro un nemico facile, capace di aggregare forze più disparate. La mossa consentirebbe, insieme al sempre più incomprensibile atteggiamento cinese e russo, di guadagnare tempo prezioso, da investire in ulteriori repressioni degli oppositori, che continuano a combattere con il solo conforto di aiuti matriali esterni. Va anche detto che l'oggetto maggiore a cui sono indirizzate le azioni militari governative siriane è la parte di popolazione sunnita, la meno determinata contro Israele, al contrario di quella scita, pesantemente influenzata dalla teocrazia di Teheran e più favorevole al mantenimento di Assad al potere. Si sono così riposte le antiche speranze di Israele di vedere la Siria avvicinarsi ai paesi sunniti più moderati per abbracciare, ormai totalmente l'alleanza con l'Iran. Questo elemento è fondamentale per valutare la sicurezza futura del paese della stella di David: una condivisione della politica estera iraniana, da parte di Damasco, non può non comprendere Israele come principale nemico. In questa ottica una permanenza al potere di Assad, potrebbe fornire a Teheran basi per i propri missili, anche nucleari, particolarmente vicini allo stato israeliano, che diventerebbe sotto minaccia costante. E' una considerazione che apre la possibilità, per Israele, della valutazione di un attacco diretto alla Siria. Per i ribelli si tratterebbe del più inaspettato degli aiuti, ma anche del più controverso, a non tutte le correnti, spesso in contrasto tra di loro, che formano l'opposizione ad Assad, questo aiuto sarebbe gradito. Ma la misura porterebbe strategicamente Israele più vicino all'Iran, nel quadro di un possibile attacco preventivo ai centri di produzione dell'atomica. Si tratterebbe anche si una situazione nella quale gli USA, non potrebbero esimersi dall'intervento, magari insieme a partner europei, coperto da evidenti ragioni umanitarie. Questo scenario amplia così le possibilità di un conflitto in medio oriente, dietro cui le ragioni fondamentali sono costituite dall'irresponsabilità della politica estera iraniana, reale minaccia alla pace nella regione.
lunedì 11 giugno 2012
La decisione sbagliata di aiutare le banche spagnole
La decisione di cento miliardi di aiuti alle banche spagnole deve imporre una seria riflessione. Intanto sulla facilità con la quale l'aiuto è stato concesso è bene dire che nelle banche spagnole vi sono cospicui investimenti tedeschi, quindi tutta la retorica a favore dell'unità dell'Europa del governo di Berlino è del tutto fuori luogo, perchè la Germania è la prima ad essere interessata a che le banche iberiche non falliscano. Ma, esclusa questa doverosa introduzione, che può offrire ulteriori spunti per sviluppare domande sulla sincerità dell'europeismo di tanti statisti e statiste impegnati in discorsi che paiono costruttivi, la domanda centrale non può che essere se è giusto finanziare gli istituti di credito, in forza del criterio grazie al quale vengono considerati canali privilegiati per ridare impulso alle economie. Si sta parlando di banche indebitate per operazioni sbagliate ed oltretutto spesso non in buona fede, alle quali vengono accordati prestiti a tassi molto agevolati, che utilizzano il denaro ricevuto, oltre che per ripianare i propri debiti, anche lucrando sui tassi di interesse che impongono, per mettere in circolo questi aiuti. Viene così ad instaurarsi un circuito perverso che premia due volte chi ha operato in modo pessimo, portando al dissesto istituti bancari impegnati in attività al di fuori di quelle istituzionalmente previste. Il ragionamento di fondo degli eurocrati è che portare al fallimento le banche può innescare guai ancora peggiori della situazione attuale, ma è giusto fare ricadere sui cittadini, il costo di manovre errate? Non sarebbe più opportuno finanziare il debito degli stati, i quali, a loro volta, dovrebbero impegnarsi in prima persona nella circolazione degli aiuti, saltando così soggetti che si sono dimostrati, per lo meno, incapaci della gestione di capitali? La risposta sarebbe logica se non ci trovassimo, ormai è assodato, in una spirale perversa del rapporto tra banche, governi nazionali ed istituzioni centrali. Le negative esperienze degli ultimi anni, dove le banche non hanno praticamente più fatto il loro lavoro, spingendo sempre più a fondo l'acceleratore del facile guadagno, rivelatosi poi per quello che doveva essere: bolle speculative incapaci di mantenere le promesse fatte, dovrebbe fare radicalmente cambiare l'assetto del credito per vie legali, nel senso che i parlamenti dovrebbero impegnarsi più a fondo per la costruzione di una legislazione che tuteli maggiormente l'investitore ed assieme garantisca una maggiore circolazione del denaro, prevedendo sanzioni pesanti per chi non adempie al proprio mandato. Viceversa ci troviamo in una situazione, dove non solo non vi sono provvedimenti, anche estremi, per chi sbaglia, ma, anzi, si prendono iniziative quasi premianti, che consentono alle banche di sopravvivere in una situazione che sarebbe di fallimento per qualsiasi altra azienda. Senza una nuova legislazione, che riguardi almeno l'intera area euro, che innovi la materia in senso punitivo per chi sceglie gli investimenti facili, non si può pensare di sbloccare una situazione che rischia di protrarsi a lungo nel tempo. Le tasse dei cittadini non possono essere impiegate per salvare banche, ma anche aziende, che hanno dilapidato ingenti patrimoni per rincorrere speculazioni evidenti. Quella che deve essere cambiata è la mentalità della banca come unico canale creditizio, se il sistema bancario di un paese non è affidabile si lascia andare al suo destino e lo stato lo sostituisce, fintanto che il sistema non recupera la sua affidabilità. D'altronde questo provvedimento non sarebbe altro che l'applicazione di una teoria effettivamente liberista, mentre non è liberista chi specula, anche in nome del mercato, e poi accetta gli aiuti di stato. Un provvedimento come quello di questi giorni che impegna ben cento miliardi di euro per salvare un sistema bancario deficitario è soltanto il chiaro segnale di una classe politica che o non vuole trovare alternative o non sa trovarle, in entrambi i casi si tratta dell'ennesimo segno del declino comune.
venerdì 8 giugno 2012
Quale soluzione per la Siria?
La tenace resistenza di Cina e Russia all'interno del Consiglio di sicurezza dell'ONU determina l'impossibilità di un intervento armato in Siria sotto l'egida dell'ONU. Assad è conscio che le due super potenze, per ragioni comuni ma anche differenti, non toglieranno mai il veto ad una azione militare nei confronti di Damasco; del resto le occasioni per autorizzare l'intervento di una forza multinazionale sono state, purtroppo, molteplici. Non è bastata la feroce repressione che è sfociata in una tragica guerra civile, dove si sono verificati diversi massacri, anche di bambini. Eppure niente è servito a fare cambiare idea a Mosca e Pechino, che continuano imperterriti su di una linea che prevede sterili trattative, che hanno il solo effetto di fare guadagnare tempo al dittatore siriano. Il quale, malgrado l'entità delle sanzioni a cui è sottoposto il suo regime, è tutto tranne che isolato. Proprio i contatti con i governi cinese e russo e con quello iraniano, gli consentono ancora di godere di una platea internazionale che gli permette di continuare la feroce repressione in atto. Neppure le minacce dei paesi del Golfo hanno spaventato il presidente siriano, tuttavia è impossibile non chiedersi come sarà l'evoluzione della situazione, non potendo Assad eliminare fisicamente la gran massa di oppositori, tra l'altro destinata a crescere, presente nel paese. Difficile elaborare previsioni, la situazione è troppo caotica per un'analisi che consenta di formulare qualsiasi ipotesi. Occorre però fare alcune considerazioni, basandosi, ad esempio sulla fine del rais libico Gheddafi. Anche in quel caso il mondo si è trovato di fronte ad una carneficina operata per imbrigliare il dissenso, ma le analogie finiscono qui. Gheddafi è rimasto totalmente isolato nella platea internazionale a differenza di Assad, che può giocare sulla sicurezza del veto in sede di Consiglio di sicurezza. Nell'occasione libica sia la Cina che la Russia alla fine si astennero e ciò determinò l'invio di forze armate, essenzialmente aeree ma poi seguite anche da piccoli contingenti di terra, che si rivelarono determinanti per la caduta del regime di Tripoli. Gli insorti godevano già di aiuti materiali provenienti dall'estero, ma senza l'intervento esterno, la capacità militare delle forze armate fedeli a Gheddafi avrebbe avuto la meglio. I ribelli siriani si trovano in una situazione analoga a quella libica prima degli aiuti militari, possono contare su rifornimenti di armi da parte di paesi amici ma ciò non è sufficiente per rovesciare un esercito meglio armato e preparato come quello leale ad Assad. Questo anche se interi reparti hanno disertato e si sono schierati al fianco degli insorti. Quello che fa Assad è una guerra repressiva di forte logoramento, che si basa sia su di un annientamento fisico degli avversari, sia su quello psicologico operando massacri sui civili inermi delle zone dove la ribellione è più forte e radicata. La particolare crudeltà di Assad proviene in parte anche dalla sensazione di impunità derivante dalla sicurezza, che, per lo meno, la Russia non toglierà mai il veto nel Consiglio di sicurezza, ad un intervento militare, perchè ritiene la Siria, questa Siria governata da Assad, particolarmente strategica per i propri interessi (si deve ricordare che l'unica base navale russa nel Mediterraneo è in Siria). Diversi analisti ritengono così, fortemente improbabile una azione militare al di fuori dell'ombrello ONU da parte di altre potenze, come ad esempio la Francia, come minacciato da Hollande appena eletto, minacce a cui, per ora, non ha fatto seguito alcun passo pratico significativo. Inoltre Assad ha un'altra arma in mano, che ha minacciato più volte di usare e cioè fare in modo di allargare il conflitto al Libano, gettando la regione in una pericolosa instabilità. Difficile dire se questa minaccia possa avere un seguito reale, in quel caso Damasco andrebbe al centro di una situazione oltre i propri confini, creando una eventualità da gestire al di fuori del proprio controllo, tenendo conto anche della pericolosa vicinanza degli israeliani, già fortemente allarmati per la questione iraniana. In ogni caso per i ribelli l'unica possibilità è continuare la propria guerra contando solamente sugli aiuti in armi e materiale provenienti dall'estero. Si tratta di resistere e temporeggiare per un tempo praticamente non quantificabile, ne prevedibile, ed in attesa dell'insorgenza di una eventualità che intervenga a modificare in qualche modo la situazione presente. Se è impossibile, come abbiamo visto, contare su di una variazione dell'atteggiamento russo, per la Cina la questione potrebbe essere differente, non a caso è una delle nazioni che si è spesa di più nel tentativo di risolvere la situazione attraverso le trattative diplomatiche. Inoltre il veto cinese è motivato dalla dottrina internazionale che Pechino si è data e che vieta l'ingerenza negli affari interni degli altri stati. E' però pur vero che il no cinese ad un intervento militare ha anche motivi di ordine diplomatico nei confronti degli Stati Uniti e dell'Europa, di cui non vuole apparire succube. Tuttavia un ammorbidimento, anche non ufficiale, nei confronti delle ragioni dei ribelli, comprendendo la necessità anche di apparire non complice sul piano internazionale, di chi è l'autore di veri e propri massacri, potrebbe costituire quella novità in grado di non fare pendere più la bilancia a favore di Assad. Se si vuole convincere la Cina a cambiare atteggiamento occorre renderla protagonista del proprio cambio di indirizzo senza forzare la mano, ma il tempo per un cambiamento di rotta pare sempre più urgente.
UE: i propositi di unità politica non bastano se non sono sostenuti da azioni forti
Dopo avere chiesto espressamente un maggiore sforzo di tutti i paesi europei per raggiungere l'unità politica dell'Europa, la cancelliera Merkel ha indicato una via alternativa per raggiugere questo scopo: l'Europa a due velocità. Appare quanto meno singolare come possa concretizzarsi una unione effettiva ed efficace tra un gruppo di paesi regolato in una maniera con un altro gruppo regolato in maniera differente. Sostanzialmente la tesi della Merkel è che già ora vi siano forme di integrazione diverse, da una parte la zona Euro e dall'altra nazioni come il Regno Unito e la Danimarca, che pur essendo nella UE, non aderiscono alla moneta unica. E' fin troppo facile obiettare che è già molto difficile definire integrazione quella di Londra e Copenaghen con il resto dell'Europa, si tratta di una integrazione poco più che nominale, una forma di adesione nettamente euro scettica tesa più che altro a prendere i vantaggi e le opportunità offerte dall'Unione Europea, senza che queste siano bilanciate da un impegno forte e convinto nelle istituzioni europee. La Gran Bretagna e la Danimarca non costituiscono un grande esempio di europeismo ed occorrerebbero politici coraggiosi che ammettessero il fatto senza mezze misure, con tutte le possibili conseguenze del caso, anche quelle più estreme, come l'espulsione dalla UE. Una delle cause della debolezza politica dell'Unione Europea è, infatti, la scarsa capacità di imporsi come istituzione centrale a livello politico, da cui discende anche la capacità coercitiva inesistente. Ciò è il frutto di avanzamenti troppo poco convinti del processo di integrazione europea, che non è stato capace di elaborare strategie di esclusione dei paesi troppo tiepidi; anzi è avvenuto il contrario: una corsa ad ammettere quasi tutti quelli che ne facevano richiesta, tranne la Turchia, senza la necessaria valutazione politica dei requisiti della reale convinzione sul tema centrale dell'unità politica. Si sono così disperse risorse economiche importanti a favore di stati che hanno acquisito diritti tali da intralciare il processo di unificazione, quello per il quale prima la Comunità Europea e poi l'Unione Europea sono state create. Questo tradimento degli elementi fondativi dell'istituzione sovranazionale è avvenuto soltanto per favorire la parte economica, la finanza, senza avere tenuto dell'adeguato conto, che ciò ostacolava invece il processo politico. Tale visione miope pare continuare ancora oggi, nel pieno di una crisi economica violenta. Se la Germania ha l'ambizione di essere il paese capofila della UE, deve esprimere politici di livello capaci di dichiarazioni forti perchè la sola forza economica non è sufficiente, sul lungo periodo, per imporre politiche di sacrificio agli altri paesi. L'atteggiamento della Merkel, in questo senso non pare adeguatamente convinto, quale apporto possono portare Londra, che fa della speculazione finanziaria esasperata e quindi dannosa per il resto dell'Europa la sua principale industria, e la scettica Copenaghen, ad una unità politica europea auspicata dalla stessa cancelliera della Germania? L'Europa ha bisogno di statisti che dicano senza mezzi termini chiaramente che a chi non vanno bene determinate regole debbano uscire dalla casa comune europea, senza timori di creare casi diplomatici o di perdere chi sa quale alleato già di per se poco affidabile. La UE deve ripartire da quei paesi pienamente convinti delle opportunità offerte da una unione politica transnazionale e sopratutto sovranazionale, che metta il continente in condizione di gareggiare e pesare sul piano dei rapporti internazionali alla pari di USA e Cina. Il timore è quindi che Angela Merkel o sia poco convinta di ciò che dice o sia prigioniera del timore elettorale circa la consultazione politica del prossimo anno. Ed è questo il vero problema europeo che ne limita gli orizzonti e quindi il raggio di azione: una visione a breve termine troppo spesso condizionata da fattori alla fine esterni al bene comune.
giovedì 7 giugno 2012
Gli USA avvertono il Pachistan
Gli USA sono in difficoltà a continuare a gestire il loro rapporto con il Pakistan. Ufficialmente i due stati sono alleati contro i fondamentalisti islamici, che dalle zone montuose al confine con l'Afghanistan attaccano Kabul e costituiscono il principale ostacolo al processo di pacificazione del paese di Karzai. E' questo il motivo fondamentale degli attriti tra Washington ed Islamabad, l'assoluta inaffidabilità pachistana nella lotta al terrorismo, che si concreta, appunto, nella tolleranza continua che Islamabad concede alle basi talebane. In realtà si tratta di una tolleranza che confina con la connivenza, in un gioco pericoloso dove rientrano i servizi segreti pachistani, più volte sospettati di doppio gioco alle spalle degli Stati Uniti. In questo clima, particolarmente teso, rientra la dichiarazione ufficiale del segretario alla difesa USA, Leon Panetta, rilasciata a Kabul nel corso di una visita di stato. Panetta ha chiaramente dichiarato che la pazienza americana è agli sgoccioli, parole particolarmente gradite al presidente afghano Karzai, che da diverso tempo accusa lo stato confinante di offrire protezione ai nemici del suo governo. La presa di posizione di Washington fa seguito a diversi tentativi, che si sono succeduti nel tempo, di trovare un accordo con il governo pachistano per la gestione dei rifugi talebani presenti nelle zone di confine. Si tratta di valli spesso inaccessibili, che offrono rifugi sicuri, anche all'assalto dei droni, dai quali i talebani operano azioni di guerriglia molto efficaci, la cui ritorsione si sta rivelando sempre più problematica senza l'appoggio di forze armate del luogo. Non solo la commistione dei servizi segreti pachistani con gli stessi talebani, rende praticamente impossibili azioni la cui riuscita dipende in gran parte sull'effetto sorpresa. La dichiarazione di Panetta, mai avvenuta con tali toni, è anche il chiaro segnale di una situazione difficilmente colmabile dalle due parti, che paiono ormai troppo distanti. Il problema reale è che senza un rapporto leale con il Pachistan, la soluzione del problema afghano, per gli USA è praticamente impossibile, perlomeno cercando di mantenere il programma di ritiro previsto da Obama. La forza e l'abilità dei Talebani all'interno del proprio territorio, con in più una protezione, più o meno estesa, da parte del Pachistan, rende la situazione di stallo, finchè gli USA assicurano una presenza massiccia sul territorio, ma nel momento in cui il programma di ritiro farà sentire la carenza numerica degli effettivi, lasciando all'inesperto esercito afghano, la situazione andrà a vantaggio dei fondamentalisti islamici, che potrebbero prendere il sopravvento e rendere così vani anni di combattimento portati avanti dell'esercito a stelle e strisce. Probabilmente per gli Stati Uniti è venuto il momento di compiere scelte drastiche come intensificare gli attacchi in territorio pachistano, prestando così il fianco sia a censure diplomatiche, che ad avere Islamabad come avversario diretto, piuttosto che falso alleato. E' uno scenario estremo, ma che ha sempre maggiori probabilità di verificarsi. Certo anche se ciò dovesse accadere, il ritiro delle truppe non dovrebbe subire variazioni, sopratutto in campagna elettorale, più probabile l'intensificazione dell'uso dei droni ed il mantenimento sul terreno di esperti sia di guerra elettronica, che di intelligence. Ma ancora più pericolose potrebbero essere le conseguenze sul piano diplomatico, con il Pachistan che già usufruisce dell'aiuto cinese specialmente in chiave anti indiana, infatti su questo terreno Pechino ed Islamabad hanno delle particolari assonanze in chiave di rivalità con Nuova Delhi, i primi per tradizionali ragioni storiche, i secondi per più prosaiche ragioni di concorrenza economica. Se Washington interrompesse i rapporti con il Pachistan, la Cina ne potrebbe diventare il maggiore alleato, con conseguenze imprevedibili sul piano degli equilibri regionali, peraltro già molto instabili.
La Merkel auspica maggiore unione politica nella UE
La cancelliera Merkel, bersagliata da più parti come responsabile della mancata crescita europea, gioca la carta del rafforzamento dell'unione politica. Si è detto più volte che l'euro è nato senza il dovuto sostegno di un apparato politico in grado di intervenire in caso di difficoltà, ma la diffidenza dei singoli governi verso provvedimenti che ne potessero limitare il raggio d'azione ed il crescente successo degli ultimi anni di partiti e movimenti territoriali, hanno sempre impedito il regolare corso del processo di unificazione europea, che è un processo essenzialmente politico, anzichè economico. Quello che sembrava una conquista, la moneta unica europea, si è rivelato un fallimento proprio perchè doveva essere il passo successivo e non quello iniziale, da dove partire per l'effettiva unificazione del vecchio continente. Gli ultimi avvenimenti di natura economico finanziaria hanno messo in luce tutta la debolezza dell'Euro, causata proprio dal mancato sostegno istituzionale; infatti le misure sia di natura fiscale, che creditizia, che finanziarie, messe in campo, sia dai singoli stati, che dalle istituzioni centrali, sono apparse fin da subito provvedimenti slegati e mancanti di un indirizzo politico unitario e concreto, che li caratterizzasse sui mercati, in modo tale da garantire un indirizzo preciso tale da dare sia ai mercati, che agli speculatori un segnale forte ed inequivocabile. Ora finalmente anche il governo del paese più importante, l'azionista numero uno della UE, si rende conto, aldilà delle necessità elettorali e dei gradimenti dei sondaggi, che iniziare a pensare concretamente all'ipotesi della creazione di strumenti volti a dare una politica unitaria, non è più procrastinabile. Tuttavia siamo già in ritardo e l'urgenza necessaria a sveltire il processo sarà tutt'altro che garantita. Il punto di partenza, ancora una volta non è corretto, infatti anzichè partire dalla creazione di istituzioni politiche comuni con a disposizione strumenti efficaci, si vuole iniziare dall'unione fiscale da attuare con maggiore coordinamento delle politiche di bilancio. Ciò significa, tecnicamente, sempre tempi lunghi a cui sottoporre i programmi elaborati dai singoli stati, sempre poco propensi a perdere autonomia. Il pericolo concreto è di trovarsi di fronte a trattative sfiancanti, quando il requisito della velocità è, di questi tempi, il più essenziale per contrastare le ondate speculative. La Merkel conosce il problema e probabilmente ritiene il suo approccio l'unico possibile: un avanzamento graduale dove il risultato ultimo è l'unione politica. La cancelliera tedesca infatti prospetta diversi vertici per arrivare ad un risultato conclusivo che soddisfi il criterio dell'unicità dell'indirizzo politico. Se teoricamente e, purtroppo anche praticamente, la Merkel ha ragione, non si può non imputare alla classe politica europea la responsabiltà del ritardo con il quale continua a muoversi: questi punti dovevano essere affrontati e risolti molto tempo prima ed è ben triste che soltanto una crisi profonda come quella attuale costringa finalmente a muoversi verso quei provvedimenti la cui utilità appariva chiara già da diversi periodi.
mercoledì 6 giugno 2012
Elezioni egiziane e questione palestinese: futuro legato a filo doppio
Il risultato elettorale egiziano non avrà effetti diretti soltanto in patria, ma, si teme, che andrà ad influire, inevitabilmente sul processo di pace tra israeliani e palestinesi. Se Mubarak consentiva un controllo ferreo dei possibili fiancheggiatori di Hamas provenienti dalla nazione delle piramidi, e per questo Israele ha sempre guardato con diffidenza alla primavera araba egiziana, è anche vero che il suo ruolo aveva una sorta di funzione stabilizzatrice tra le due anime del movimento della liberazione della Palestina, appunto il più estremista Hamas, leader nella striscia di Gaza e l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, più forte nella West Bank. Una eventuale vittoria del Fratelli Musulmani, favoriti nei sondaggi, rispetto al concorrente, uomo dell'apparato dell'ex leader condannato all'ergastolo, potrebbe provocare problemi sia al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che al presidente palestinese Mahmoud Abbas. Per il primo potrebbero aprirsi le porte di una eventuale revisione del trattato di pace tra Israele ed Egitto sul piano ufficiale, mentre sul piano informale l'eventualità di favorire elementi a contatto con l'area terroristica islamica contraria allo stato di Tel Aviv direttamente da parte del governo egiziano, potrebbe diventare una dura realtà con la quale fare i conti. E' una minaccia che preoccupa molto Israele, che dovrebbe rivedere, come già in parte è accaduto, la disposizione delle forze armate ai suoi confini, andando appunto a rafforzare la presenza sulla frontiera con l'Egitto. Ed anche sul piano diplomatico, eventuali aiuti diretti da uno stato sovrano ad Hamas andrebbero a costituire fonte continua di lavoro per la politica estera di Tel Aviv, andando a distogliere, quindi, forze sia militari che diplomatiche da altri fronti. In sostanza potrebbe aprirsi una sorta di falla nel sistema difensivo israeliano, che per essere coperta necessiterebbe di diminuire risorse da altre zone comunque delicate per la sopravvivenza dello stato. Nonostante le risorse israeliane siano ingenti non sono illimitate, sopratutto nell'eventualità di un conflitto con l'Iran per la questione atomica. Non tutti in Israele sono pessimisti riguardo ad una vittoria dei Fratelli Musulmani, alcuni analisti, infatti, considerano altamente improbabile un cambiamento di rotta dello stato egiziano anche in caso della temuta vittoria delle forze politiche confessionali; sono in gioco elementi fondamentali per la disastrata economia dell'Egitto: gli aiuti americani ed il turismo, senza i quali il bilancio del paese non è in grado di sostenere le spese necessarie. All'OLP si respira altrettanta apprensione, l'esito temuto da Tel Aviv è altrettanto temuto in Cisgiordania dove si pensa ad un possibile sbilanciamento dell'Egitto nei confronti di Hamas: questo fattore potrebbe portare a due conseguenze, entrambi in grado di dividere i due schieramenti e favorire però Israele che avrebbe un avversario non più unito. Nel primo caso gli aiuti del Cairo potrebbero favorire Hamas, ma soltanto nella striscia di Gaza determinando una possibile richiesta di autonomia di quel territorio sganciata dalla panoramica più ampia dell'intera Palestina, compromettendo anni di sforzi, nel secondo caso, invece, l'appoggio egiziano determinerebbe un sopravvento di Hamas sull'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, indirizzando la lotta ad un maggiore radicalismo contro Israele. Insomma per chi come Abbas ha sempre tentato la via diplomatica sarebbe comunque la sconfitta. Ma tra le due parti, Israele ed OLP, in apprensione chi starebbe peggio in caso di vittoria dei Fratelli Musulmani è sicuramente il secondo perchè potrebbe andare incontro ad una sconfitta politica non mitigabile, almeno non come Tel Aviv, dal taglio degli aiuti americani. Resta da vedere, comunque, come i Fratelli Musulmani potranno gestire al loro interno, che non è monolitico, la questione palestinese da una posizione di responsabilità, riuscendo a conciliare le varie anime e le diverse idee che compongono il movimento.
L'importanza del summit del Gruppo di Shangai
Il summit della Shanghai Cooperation Organization (SCO), si presenta come un appuntamento chiave per il futuro sviluppo delle relazioni internazionali da inquadrare in un raggio ben più ampio di quello dello spazio fisico dei paesi aderenti all'organizzazione. La presenza dell'Iran, seppure come osservatore, mette in rilievo, innazitutto, la possibilità per il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad di avere a disposizione una tribuna di eccezionale rilevanza, sia mediatica, che più strettamente operativa. Per Teheran si tratta di una occasione fondamentale per uscire dall'angolo dell'isolamento diplomatico in cui le sanzioni di USA ed UE lo hanno relegato a causa del problema atomico. La capacità e l'astuzia politica del capo del governo di Teheran, potrebbe sfruttare, a proprio vantaggio, la crescente sintonia tra Cina e Russia sul piano della politica internazionale, con possibili sviluppi in chiave anti americana. Nella questione siriana, malgrado le condanne più o meno dure dei due colossi, le posizioni all'interno del Consiglio di sicurezza dell'ONU, restano ferme: Mosca e Pechino non intendono cambiare il loro atteggiamento nell'imporre il veto ad azioni militari sotto l'egida delle Nazioni Unite. In questa situazione l'Iran cerca di inserirsi per portare acqua al proprio mulino per riguadagnare posizioni nell'agone internazionale. Sia Mosca che Teheran hanno interesse che Assad resti al potere, anche per ragioni simili, e non è pertanto da escludere una possibile alleanza, sebbene sotto banco, Ahmadinejad non è comunque molto presentabile, tra i due paesi. Nel gioco dei delicati equilibri mondiali, la Russia patisce da tempo gli Stati Uniti ed ambisce a ritornare al livello di potenza di primo livello che aveva al tempo sovietico, in questa ottica il programma di riarmo previsto da Putin nel suo programma elettorale costituiva già più di un indizio, e cerca quindi ogni possibile sponda per contrastare la politica estera di Washington. Tuttavia l'Iran può essere un alleato pericoloso, sopratutto con una bomba atomica in mano all'interno dello scenario regionale comune, proprio per questa ragione la politica russa pare più che mai azzardata e foriera di pericolosi sviluppi. Ma il vertice del Gruppo di Shangai è destinato a fare salire di importanza l'organizzazione per una serie di accordi di natura economica e commerciale che verranno firmati. Si tratta di cooperazioni all'interno di un'area strategica per l'economia mondiale, con tassi di crescita elevati ed ottime potenzialità economiche grazie alle materie prime presenti. Il ruolo futuro della Shanghai Cooperation Organization è quindi destinato a salire ed a diventare una organizzazione internazionale con la quale l'occidente non potrà non confrontarsi in maniera continua e di collaborazione. Ma aldilà degli accordi economici, ed oltre alle questioni di politica internazionale trattate in modo non ufficiale, nell'agenda dell'incontro vi è un tema cruciale per gli equilibri mondiali: la possibilità di accettare la Turchia come interlocutore dell'organizzazione. Per Ankara, in chiave economica, si tratta di un passo quasi obbligato, ma la Turchia è un membro della NATO, di cui è bene ricordare le attuali difficili relazioni con Israele, ed uno dei temi sul tappeto del summit riguarda proprio le implicazioni della strategia di difesa missilistica del Patto Atlantico in Europa, specie nella parte orientale cioè proprio quella al confine con diversi membri del Gruppo di Shangai. Non si può non leggere in questo coinvolgimento della Turchia un tentativo di incrinare la fedeltà di Ankara, magari non tanto verso la NATO, almeno per ora, ma piuttosto di aumentare le antipatie verso una UE, che ne ha escluso l'ammissione al proprio interno. Certo anche le difficili relazioni con Israele possono costituire una base di partenza per trovare una intesa possibile. Giocare sulla Turchia, quindi, non può non essere visto come un tentativo di minare la sicurezza sia dell'Unione Europea sia, in ultima analisi, della NATO. Alle spalle di questi progetti vi è l'alleanza tra Cina e Russia, che si sta facendo sempre più stretta, se per i primi si tratta, al momento di questioni prettamente economiche, per i secondi gli aspetti geopolitici paiono preponderanti, nel medio periodo Mosca intende ritornare a dialogare con Washington alla pari, ma non considera che per Pechino è già così. Per la Cina la Russia, attualmente è un buon strumento per indebolire la leadership mondiale americana, già appannata rispetto al passato, potrebbe trattarsi del classico caso che trai due litiganti il terzo gode.
venerdì 1 giugno 2012
Israele alle prese con la paura della bomba iraniana
In Israele non si smorza il dibattito su di un possibile attacco preventivo all'Iran, al fine di contenere la progressione di Teheran verso l'acquisizione definitiva della tecnologia per la costruzione della bomba atomica. Il paese vive in uno stato di agitazione che si sta allargando a macchia d'olio, non solo più tra i vertici militari, ma anche nella popolazione civile. Le sanzioni cui l'Iran è sottoposto sono percepite come una misura insufficiente e facilmente aggirabile dal governo iraniano ed il fatto contribuisce ad aumentare nella sfiducia verso la soluzione diplomatica. Per gli israeliani, Teheran, di fronte alla pressione diplomatica, starebbe soltanto guadagnando tempo per raggiungere il proprio obiettivo. L'opzione militare torna così prepotentemente di attualità a causa del crescente nervosismo della società di Israele. L'impatto emotivo, che riveste il fatto di una minaccia atomica concreta, è una novità per la popolazione israeliana, abituata si a situazioni di tensione forti ed anche prolungate, ma comunque limitate sopratutto in uno spazio fisico ben definito e mai riguardanti la totalità del territorio dello stato. Anche la consapevolezza della forza militare dell'esercito israeliano, in una fase di attacco atomico, perde di peso di fronte ad una minaccia così rilevante. Certo Israele possiede una capacità di risposta analoga e maggiore per intensità ad un attacco atomico, ma ciò significherebbe soltanto una ecatombe nella regione, che metterebbe a rischio l'esistenza stessa dello stato. Anche l'atteggiamento USA, il maggiore alleato di Israele, improntato alla cautela, costituisce un ulteriore fattore destabilizzante per la società israeliana, nella cui maggior parte non viene compresa la ritrosia statunitense ad un attacco preventivo, giudicato ormai il minore dei mali. Quello che si teme concretamente in Israele è arrivare ad un punto in cui sarà troppo tardi per una azione capace di impedire in tempo all'Iran di sviluppare la bomba atomica. Per come è costruito lo stato israeliano e per come è organizzata la sua società, sempre allerta per le minacce provenienti dall'esterno e con il complesso di essere, molte volte non a torto, un bersaglio troppo importante per una parte consistente del mondo, questa situazione di stallo è oggettivamente difficile da sostenere. Il dilemma tra avere uno stato che chiama Israele entità sionista, ed usa questa propaganda in modo massiccio per avere sempre maggior presa sul mondo arabo, in possesso della bomba atomica ed esercitare una opzione militare che stronchi questa possibilità, pende chiaramente per la seconda soluzione. Inoltre lo scorrere del tempo non aiuta: il Vice Primo Ministro Moshe Yaalon è convinto che all'inizio del prossimo anno, senza azioni che ne impediscano i progressi, l'Iran avrà la sua bomba nucleare. Quindi tensione e fretta rischiano di fare precipitare la tensione, anche se le osservazioni dell'ex capo del Mossad Meir Dagan, una delle poche voci contrarie all'azione militare, pone delle osservazioni, che dal punto di vista diplomatico e strategico sono molto difficili da non considerare. Secondo Dagan infatti un attacco israeliano permetterebbe una forte coalizione del mondo arabo contro Tel Aviv, che al momento non è così coesa, inoltre i dubbi dell'ex capo del Mossad sono anche di natura prettamente militare perchè non ritiene che Israele abbia le complete capacità logistiche per attuare il bombardamento preventivo, sopratutto senza l'appoggio materiale degli USA, che al momento non è garantito. In effetti le forze armate israeliane sono costruite su di un modello di difesa del territorio, che non prevede grandi mezzi per operazioni al di fuori dei propri confini. Tuttavia in una situazione fortemente condizionata dalla paura, una azione singola, addirittura con concordata con Washington, non è da scartare a priori; d'altra parte è se i progressi iraniani sono veritieri è anche comprensibile la voglia di azione israeliana. In tutto questo clima di profonda incertezza, sempre che la situazione non precipiti in maniera irreparabile, la diplomazia mondiale, anche tra chi non è alleato o non intrattiene rapporti al di là della cortesia internazionale, dovrebbe attivarsi tutta per scongiurare una eventualità i cui effetti non sembrano essere soppesati in maniera adeguata. Oltre l'ONU devono essere le potenze del Consiglio di sicurezza, la UE, la Lega Araba e tutti quei soggetti sovranazionali il cui impegno di approntare una strategia comune è, quanto meno, doverosa. Con la Siria già alle prese con una guerra civile sanguinosa, un ulteriore conflitto regionale, inquadrato in una situazione di instabilità politica anche degli stati circostanti, rischierebbe di trascinare soggetti apparentemente lontani, come l'Europa, in una situazione di pericolo molto lunga e dannosa. Occorrono al più presto elementi nuovi in grado di contenere la paura israeliana, mentre sul medio termine l'inizio di una moratoria efficace degli ordigni nucleari, da bandire nel maggior numero possibile sui tempi lunghi.
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