L'incontro a Nuova Delhi dei paesi emergenti: Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, definiti comunemente BRICS, può portare delle conseguenze importanti sul piano internazionale dal punto di vista degli equilibri geopolitici ed economici. Le cinque nazioni costituiscono la metà della popolazione mondiale ed un quinto della produzione del pianeta, sono quindi un soggetto potenzialmente molto influente e potente, che può prendere decisioni capaci di influenzare l'intero sistema sia diplomatico che finanziario mondiale. Il vertice ha evidenziato la comune necessità di riformare le Nazioni Unite nel suo organo più importante, il Consiglio di Sicurezza, regolato da un sistema elaborato alla fine del secondo dopo guerra ed ormai troppo rigido per affrontare le continue situazioni emergenti e non più rappresentativo nella sua parte fissa degli attuali equilibri mondiali. Il problema, già sollevato dalla Germania, è molto sentito da India e Brasile che ambiscono ad un seggio permanente, proprio in rappresentanza dei paesi emergenti. Per la verità già due dei BRICS, Cina e Russia, sono già membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'ONU, ma l'accresciuta importanza mondiale dei paesi emergenti può rendere legittima l'aspirazione di Brasilia e Nuova Delhi. Un'altra questione molto sentita dai cinque paesi, riguarda la lentezza della riforma del Fondo Monetario Internazionale, che va ad investire il metodo, ritenuto poco trasparente dell'elezione del Presidente e, sopratutto, lo scarso peso dei paesi emergenti, che lamentano una scarsa diffusione dei diritti di voto a loro assegnati. In realtà la riforma è già stata elaborata, ma è rallentata la sua ratifica dagli USA, fatto che viene percepito come timore di Washington di perdere influenza sull'organizzazione.
In realtà quello che preme a Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa è evitare l'eccesso di liquidità per riparare le loro economie dal processo inflattivo, vero freno della crescita. Sul piano diplomatico i cinque paesi hanno sposato una politica del dialogo, che eviti conflitti armati, anche sotto la bandiera dell'ONU, in questo, perfettamente allineati con Cina e Russia, che fanno della non interferenza armata negli affari interni di altri stati un caposaldo della loro politica estera. Questa posizione è diametralmente opposta a quella americana, che è più volte ricorsa all'intervento armato, come nei casi di Iraq ed Afghanistan, e nel caso siriano anche a quella della Lega Araba, fautrice di un intervento a favore della ribellione contro Assad. Anche sulle sanzioni all'Iran, per la questione nucleare, non vi è identità di vedute con Washington, fatto oltre politico anche di convenienza economica, dato che Cina ed India rappresentano due principali importatori del petrolio di Teheran. Ma oltre le valutazioni contingenti quello che è più interessante rilevare è che si sta delineando all'orizzonte, non la nascita perchè quella vi è già stata, ma la consapevolezza della forza di un nuovo soggetto sovranazionale, unito non da vincoli di territorio o di politica, al suo interno vi sono democrazie e dittature, ma da legami di natura economica, da cui discendono le mosse sia diplomatiche, che, eventualmente, militari, pur se non espressamente dichiarate. L'obiettivo è quello di scardinare la potenza egemonica, sopratutto in campo finanziario, non quello operativo, bensì in quello della costruzione delle regole, di USA ed Europa. La pretesa di, almeno, affiancarsi nella stanza dei bottoni non pare illegittima, il peso produttivo e la stessa capacità finanziaria dei cinque paesi giustifica un loro maggiore coinvolgimento nella elaborazione di provvedimenti che per ora ricevono già confezionati. La volontà di proseguire sulla strada di un unione che avvantaggi i cinque membri alla rincorsa di USA ed Europa, va così a costituire un elemento di novità sul mercato mondiale, che andrà a contrastare le politiche occidentali; tuttavia pare anche difficile che paesi come Cina ed India, che sono concorrenti spietati, riescano a portare avanti una politica comune in armonia, che non intralci, cioè, i loro singoli programmi. Sta di fatto che la sfida è formalmente lanciata: un nuovo attore farà sentire il suo peso nell'agone mondiale.
Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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giovedì 29 marzo 2012
mercoledì 28 marzo 2012
Le implicazioni della missione di Kofi Annan per la Siria
Mentre la Siria afferma di accettare il piano di Kofi Annan, che comprende un pacchetto in sei punti per le esigenze più immediate della popolazione, come un cessate il fuoco per permettere aiuti sanitari ed alimentari, allo stesso tempo respinge ogni iniziativa proposta dalla Lega Araba, in ragione della sospensione avvenuta in modo unilaterale di Damasco da questo organismo. La reazione siriana, invero scontata, rischia di aprire nuovi motivi di contrasto in un organismo già lacerato da profonde differenze. Va ricordato che la sospensione della Siria è avvenuta per il rifiuto di quest'ultima di di applicare, come promesso, un piano arabo per porre fine alla crisi. Questo contrasto rischia di diventare un punto forte della politica estera iraniana, ormai l'ultimo alleato di Assad. Un primo risultato è la partecipazione a Teheran dell'ex segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan, per un incontro con il governo iraniano sulla questione siriana. La necessità di Annan di incontrare i vertici dell'Iran, testimonia l'importanza della Repubblica Islamica, direttamente coinvolta nella questione e ridà visibilità ad una diplomazia appannata. L'occasione si presta, però, ad essere anche una cassa di risonanza dei soliti proclami iraniani contro gli USA, l'Europa e le monarchie arabe del Golfo, colpevoli di alimentare la rivolta contro Damasco e di praticare una politica anti iraniana. Alla base del viaggio dell'ex segretario dell'ONU vi è lo strappo sostanziale per le enormi differenze di vedute tra Iran e Turchia, che sulla Siria si trovano ormai su posizioni opposte; tuttavia è difficile che si riesca a colmare le differenze e fare rientrare in gioco la Lega Araba, proprio bloccata da questi contrasti, come organismo univoco. Per il momento tutti sembrano attendere l'esito della missione di Annan, che per altro ha già dato buoni risultati in Cina, ed ha aperto possibilità sulla variazione dell'atteggiamento russo. In questa fase anche gli USA e l'Europa stanno alla finestra, attendendo gli eventi. Devono restare in attesa, quindi, anche le monarchie del Golfo, prima fra tutte l'Arabia Saudita, che deve frenare la sua volontà di armare i ribelli siriani. Ma l'ipotesi non è scartata. Questa fase attendista da modo a tutti i contendenti di ripensare le proprie strategie ed una delle ragioni che hanno permesso che il piano di Annan venisse accettato, si sospetta che sia proprio l'esigenza di Assad di riorganizzarsi in vista del possibile annientamento della ribellione. Il Presidente siriano, d'altro canto, non ha soluzioni alternative, la sua permanenza al potere è possibile soltanto cancellando l'opposizione presente sul territorio e questa tregua conviene più a lui che ad altri proprio per elaborare una strategia definitiva. Se le esigenze geopolitiche Russe continueranno a considerare Damasco uno dei propri cardini strategici, per Assad potrebbero esserci ancora delle possibilità di rimanere al comando della Siria, viceversa, anche in ragione del mutato atteggiamento cinese, la sola alleanza con l'Iran non basterebbe a mantenerlo al potere. Quindi, se nell'immediato la missione di Annan, può portare benefici alla popolazione, in un'ottica di più lungo periodo, rischia di agevolare Assad, lasciando le ambizioni del popolo siriano di diventare una democrazia una vana speranza. Ma questo è il massimo che è riuscito a fare l'ONU bloccato dai veti incrociati nel Consiglio permanente, una prova in più della necessità più che urgente di una sua riforma.
La Tunisia non metterà la Sharia nella Costituzione
La Tunisia fa ancora da battistrada al mondo arabo. Dopo che la sua rivoluzione inaugurò la primavera araba, ora lo stato tunisino si sforza di presentarsi al mondo intero come laico, omettendo dalla nascente costituzione la tanto temuta citazione della Sharia. Tuttavia nel paese esistono profondi contrasti circa l'argomento, la crescente visibilità dei salafiti, minoranza religiosa che appoggia il governo, ha portato a crescenti differenze di vedute con i modernisti, che spingono per uno stato più laico, capace di affrontare i reali problemi del paese. In realtà il problema della Sharia è ritenuta da molta parte dell'opinione pubblica una falsa questione, giacchè la Tunisia già nell'articolo uno della Costituzione afferma che la religione dello stato è l'Islam. Quella della Sharia sarebbe una argomentazione per nascondere alla società civile le difficoltà dell'economia e la sempre più crescente disoccupazione. Ciò non è del tutto vero giacchè il programma di crescita economica del paese, che prevede un balzo del 4% ritenuto dai più troppo ottimistico, si basa maggiormente sul turismo. Diventa così essenziale arginare gli eccessi dei comportamenti da parte degli estremisti religiosi in nome di un pragmatismo sia politico, in grado cioè di presentare un paese moderno e non arroccato su posizioni troppo fondamentaliste, sia economico, per non deprimere il settore considerato trainante per l'economia, bollando come sconvenienti comportamenti, ormai quasi universalmente accettati, in special modo in paesi votati al turismo. Resta il fatto che, contrariamente ad altri paesi attraversati dalla primavera araba, la Commissione costituente ha respinto, con 59 voti contro 12, l'espressa citazione della Sharia nella legge fondamentale del paese, questo fatto, al di la di ogni considerazione di carattere accessorio, rappresenta un indubbio fattore di modernismo perchè indirizza il paese verso una democrazia di tipo laico, non contaminata da elementi estremistici fino da quella legge a cui dovranno conformarsi tutte le altre disposizioni legali elaborate dal parlamento. Si tratta, appunto, di una posizione che se farà scuola nel mondo arabo, permetterà una migliore convivenza con l'occidente, pur nel rispetto della diversa fede religiosa e consentirà ai propri cittadini una vita meno condizionata dal fattore religioso estremista. Per i paesi del Mediterraneo, sopratutto quelli europei della sponda settentrionale, si tratta di avere come interlocutore un paese che cerca di porsi non come stato teocratico ma come interlocutore laico. Questo aspetto non era scontato, ed anzi dopo i risultati elettorali che davano la vittoria ai partiti islamici moderati, vi era qualche apprensione nelle cancellerie europee, che temevano di avere come dirimpettaio un novello stato degli Imam. Le implicazioni, che potranno derivare dalla votazione della Commissione costituente Tunisina, sugli altri stati della primavera araba sono difficili da prevedere, le altre nazioni che si sono sollevate nello scorso anno sono maggiormente condizionate da formazioni islamiche a tendenza non moderata, tuttavia sullo slancio di quanto avvenuto a Tunisi non è escluso che il fatto dia un impulso maggiore alle formazioni laiche presenti nei vari paesi coinvolti nella trasformazione della forma di stato, verso una organizzazione maggiormente sganciata da vincoli religiosi.
Tra Sudan e Sud Sudan ritorna la tensione
Riprendono le tensioni tra Sudan e Sud Sudan, dopo che quest'ultimo si è staccato dal primo con un referendum popolare che ha indicato la scissione territoriale con il 99% dei consensi. La consultazione pubblica ha seguito un a guerra sanguinosa, durata oltre 50 anni, combattuta proprio con lo scopo della costruzione della nuova nazione. Nel Sud Sudan, vi sono i maggiori giacimenti petroliferi dell'intero Sudan, anche se, poi, il nuovo paese ha bisogno del vecchio per il trasporto del greggio attraverso gli oleodotti che passano sul territorio di Khartum. E' su questo sfondo che si sono verificati gli scontri tra le truppe dei due paesi, avvenuti sulla linea di confine per due giorni consecutivi e causati da un bombardamento, denunciato dall'autorità sud sudanesi, di una installazione per l'estrazione del greggio. Il problema del petrolio è comunque soltanto un aspetto della diatriba, vi sono anche circa 1.800 chilometri di frontiera contestati e la differenza religiosa, che costituisce sempre più fonte di contrasto, tra il Sud Sudan, musulmano ed il Sudan, cristiano. Malgrado la tensione in atto, fonti vicine al governo di Khartum tendono a minimizzare l'accaduto e smentiscono la ripresa di una guerra su vasta scala. Intanto, però, è stata annullata la programmata visita del Presidente sudanese Omar Hassan al Bashir, al suo omologo del Sud Sudan, Salva Kiir. La visita doveva portare nuovi elementi di distensione tra i due paesi ed è stata cancellata per la mancanza di presupposti e per il clima che si è venuto a creare dopo gli scontri. Apprensione è stata espressa dal Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), per la presenza di campi profughi, che ospitano circa 16.000 sfollati, proprio nelle zone dove sono avvenuti gli scontri militari.
martedì 27 marzo 2012
Mentre la Lega Araba si riunisce per la Siria, Cina e Russia cominciano a prendere le distanze da Assad
Era dall'invasione del Kuwait, che l'Iraq subiva l'ostracismo del mondo arabo, proseguito poi con l'invasione americana. Dopo il ritiro delle truppe USA l'ex paese di Saddam Hussein prova a riconquistare una posizione di prestigio ospitando il summit della Lega Araba. Si tratta di un incontro cruciale perchè tratterà il tema della questione siriana e la ristrutturazione della Lega Araba stessa, per dotarla di un sistema decisionale più efficace, capace di accrescerne il peso politico nel teatro delle relazioni internazionali. Per l'Iraq è l'occasione di accreditarsi di fronte agli altri paesi della Lega, come protagonista della vita diplomatica dopo anni di tutela americana. Tuttavia la sensazione maggiore è che da questo vertice non si otterranno risultati capaci di fermare il massacro siriano, i partecipanti arrivano molto divisi, immagine fedele della grande frammentazione che attraversa il mondo arabo, e già avvicinare le posizioni potrebbe essere considerato un risultato apprezzabile. In particolare sulla Siria esistono due tendenze di fondo, tra loro molto contrastanti, quella che preme per armare i ribelli, rappresentata da Arabia Saudita e Qatar, in modo da ottenere la caduta del regime di Assad, posizione non del tutto disinteressata, perchè mira a fare uscire la Siria dall'orbita iraniana, e quella che preme per un impiego ancora più massiccio della diplomazia. In ogni caso qualsiasi decisione sarà presa dalla Lega Araba, per il caso siriano occorre valutare anche altri elementi, rappresentati dalle altre diplomazie al lavoro sulla questione. La missione di Kofi Annan mira a conciliare la posizione più dura di USA ed Europa con quelle più morbide di Cina e Russia, che rifiutano un intervento militare straniero, anche sotto la bandiera dell'ONU, diretto. Ma la situazione, notevolmente aggravata dall'emergenza umanitaria a causa degli oltre 9.100 morti, ha ammorbidito l'atteggiamento delle due potenze, che starebbero premendo, secondo quello previsto dalla soluzione di Kofi Annan, per un corridoio umanitario in grado di portare aiuti alla popolazione di tipo medico ed alimentare, la fine dei bombardamenti delle forze regolari ed il rilascio dei detenuti rinchiusi in modo arbitrario. Se, da parte di Damasco, paiono esserci aperture, occorre ricordare che in più di una occasione Assad si è rivelato inaffidabile, dimostrandosi disponibile, soltanto con lo scopo di guadagnare tempo. Ma la pressione sia cinese che russa, questa volta potrebbe ottenere almeno una prima soluzione di emergenza che riguardi un cessate il fuoco in grado di permettere l'assistenza medica necessaria. Se Assad venisse abbandonato, anche solo in forma ufficiosa, da Cina e Russia avrebbe soltanto l'Iran al proprio fianco e la possibilità di caduta del regime sarebbe praticamente certa, anche se con tempi tutti da verificare.
Corea del Nord: lo scomodo alleato per la Cina
L'atteggiamento Nord Coreano agita il mondo diplomatico ed in special modo il maggiore alleato di Pyongyang: Pechino. Dopo il cambio al vertice della Corea del Nord, quello che sembrava il nuovo corso, formalizzato con l'accettazione degli aiuti alimentari USA in cambio della stop al programma di armamento nucleare, è arrivata la delusione per la platea diplomatica. Il lancio di prova di un razzo partito dalla parte settentrionale della penisola coreana, ha riportato alla luce tutte le perplessità, dandone parziale conferma, che avevano accolto quello che sembrava un cambio di indirizzo nel regime. Il problema, sul piano diplomatico, riguarda in special modo Pechino, ormai unico alleato di Pyongyang, che si è fatta più volte garante per la Corea del Nord a causa delle necessità di presidiare con sicurezza la frontiera che divide i due paesi. Per la prima volta la Cina ha condannato pubblicamente la Corea del Nord, parlando di uno stato troppo isolato, che altera gli equilibri regionali con dimostrazioni di forza fine a se stesse. Più volte Pechino ha cercato di portare su di una strada che possa alleviare il profondo malessere, sopratutto economico, il paese, anche se con il duplice fine di trovare manodopera a buon mercato, ma l'atteggiamento del governo nord coreano è stato, come al solito altalenante, alternando propositi positivi ad azioni negative. Resta significativo che Pechino abbia espressamente imputato a Pyongyang lo spreco economico di un investimento considerevole per il lancio di un razzo di prova, quando la popolazione del paese vive alle soglie della denutrizione. Risulta comunque difficile stabilire la vera strategia nord coreana, che continua ad essere un paese fuori dal tempo, del quale paiono incomprensibili anche gli obiettivi. La stessa sopravvivenza dello stato, perdurando condizioni economiche così gravi, è messa in serio pericolo. Pechino ha dovuto intervenire perchè teme che possa partire una emigrazione umanitaria oltre i propri confini, dettata da una evidente carenza alimentare, ma anche perchè è stata pressata dagli USA. Alle due super potenze, in questa fase, non conviene un aggravamento della stabilità regionale che andrebbe a coinvolgere anche Corea del SUd e Giappone e proprio per questo Obama a rilevato al suo omologo cinese che l'approccio di Pechino con Pyongyang non funziona. Il rischio per la Corea del Nord è di essere abbandonata a se stessa per troppo poca affidabilità e senza gli aiuti cinesi, lo stato Nord Coreano va incontro alla dissoluzione. A questo punto ai aprirebbero due soluzioni o la continuità statale, con un cambio di regime, ma sempre sotto l'influenza cinese o l'unione con la Corea del Sud, in un unico paese. Per la Cina, quest'ultima soluzione, significherebbe perdere un valore di tipo geopolitico, ma analizzando costi e benefici, la perdita potrebbe essere superata dall'indebolimento economico della Corea del Sud, impegnata a sostenere i costi proibitivi della riunificazione. In ogni caso il fattore di destabilizzazione costituito attualmente da Pyongyang sarebbe del tutto azzerato. Ma se queste ipotesi non dovessero verificarsi, Pechino sarà comunque costretta ad agire su Pyongyang in modo di rendere la Corea del Nord un alleato più affidabile, attraverso, ad esempio, la conversione dell'economia di quello che attualmente è il paese più povero del sud est asiatico. La riduzione a più miti consigli di Pyongyang è necessaria anche per potere avere una maggiore libertà d'azione nei confronti delle pressanti richieste diplomatiche americane, che abbracciano un ventaglio molto ampio: dalla crisi iraniana a quella siriana fino ai rapporti con Pachistan ed India. Ma forse anche su questi fattori conta il regime nord coreano per influenzare Pechino con la sua politica imprevedibile.
lunedì 26 marzo 2012
Cresce la percentuale di israeliani favorevole all'intervento contro l'Iran
Lo scorso anno il quotidiano israeliano Haaretz lanciò un sondaggio avente per tema se si era d'accordo ad attaccare da parte di Tel Aviv, Teheran a causa della volontà iraniana di dotarsi di una bomba atomica. Le risposte positive furono il 50%. Trascorsi 365 giorni la percentuale di favorevoli è salita al 75%. E' un dato preoccupante, che potrebbe spingere il governo in carica a sentirsi legittimato a dare il via alle operazioni militari più volte minacciate. La campagna del governo israeliano condotta in tutte le sedi diplomatiche possibili, è solo una causa dell'aumento della percentuale favorevole all'attacco preventivo. Nella società israeliana si sta facendo strada un senso di isolamento, dovuto proprio all'atteggiamento miope del governo, che continua a gestire in modo illogico la questione palestinese e riceve continue condanne del panorama internazionale. Le due cose, infatti pur parendo slegate, sono, per certi versi complementari. Aumentando il senso di inimicizia che Israele percepisce, teme sempre di più di diventare ostaggio di un paese relativamente vicino, comunque a portata della gittata dei propri missili, senza avere più la cintura di sicurezza convinta dei paesi europei, degli USA e dell'ONU. La cattiva gestione della questione palestinese ha avuto ripercussioni evidenti, sopratutto nelle sedi degli organismi sovranazionali, dove Tel Aviv ha dovuto subire cocenti sconfitte; inoltre l'affermazione delle varie primavere arabe, specialmente quella egiziana, particolarmente temuta da Israele, ha permesso la crescita di una maggiore ostilità verso il paese della stella di David, mitigato precedentemente dai vari dittatori al governo, per motivi di convenienza sia politica che economica. Anche il rapporto con gli USA di Obama, sebbene sul piano ufficiale sia formalmente sempre di stretta alleanza, sul piano ufficioso non è allo stesso livello con le amministrazioni repubblicane. Il presidente USA, infatti, pur frenato dalla ragion di stato, che gli impone di mantenere su di una linea di continuità il rapporto tra i due paesi, preferirebbe una evoluzione positiva della soluzione dei due stati indipendenti. Peraltro anche un recente sondaggio condotto su di un vasto campione di arabi di indirizzo islamico differente, cioè sia sciita che sunnita, non proprio due gruppi che si vedono di buon occhio, diceva di preferire, nei due sensi, gli antagonisti religiosi arabi agli israeliani. Se i due terzi degli abitanti di Israele, arrivano a dire che un attacco preventivo è meglio, perchè meno pericoloso in senso assoluto, che avere l'Iran con l'arma atomica in mano, significa che lo stato di paura in cui versa il popolo di Israele, sfiora l'isteria collettiva. In sostanza gli israeliani preferiscono sopportare gli effetti immediati di una guerra, dall'esito e dalla durata incerta, piuttosto che vivere sotto la minaccia di Teheran. Ciò deriva anche da una convinzione, tutta da dimostrare, del governo israeliano, di riuscire a cancellare la minaccia atomica di Teheran con una operazione bellica. Forse sarebbe ora che in Israele cominciassero a collaborare con i palestinesi per la costruzione del loro stato autonomo, senza più bloccare il processo, ormai inevitabile, con scuse sempre meno credibili e togliere così al mondo arabo un motivo di risentimento costante nel tempo e con sempre maggiori probabilità di diventare sempre più determinante nel giudizio sullo stato ebraico. Che poi Teheran non debba avere l'arma atomica, sono i primi gli USA e di seguito l'Europa, a non volerlo, per cui forse, sarebbe meglio che Israele lasciasse andare avanti la politica di pressione internazionale delle sanzioni, per il passo militare c'è ancora tempo.
Parte il vertice di Seoul sulla sicurezza atomica
La strategia di pacificazione mondiale, che Obama sta portando avanti fin dall'inizio del suo mandato, sarà il cardine dell'azione americana al vertice di Seoul sulla prevenzione del terrorismo internazionale atomico. Il summit sud coreano, a cui parteciperanno più di 50 paesi, analizzerà le possibili azioni per limitare la minaccia atomica nel mondo. La proliferazione degli armamenti nucleari è un tema la cui soluzione ormai non è più rimandabile ed occorre trovare una via d'uscita condivisa a livello mondiale, per, almeno, limitarne la pericolosità. In questo senso il Presidente USA ha promesso una azione di riduzione delle armi nucleari americano, anche a seguito degli incontri bilaterali con il presidente russo Putin, per un disarmo congiunto degli arsenali atomici dei due paesi. Questo gesto dovrebbe rappresentare l'esempio da seguire per la comunità internazionale, al fine di ridurre al minimo i rischi di un possibile utilizzo delle armi atomiche. Tuttavia, non essendo più in regime di guerra fredda, quando gli ordigni nucleari erano detenuti soltanto dalle due super potenze di allora e di conseguenza arrivare ad accordi di limitazione era più facile perchè soltanto due erano i soggetti coinvolti, attualmente sia per l'accresciuta diffusione della tecnologia, che rende più facile la costruzione delle bombe atomiche, sia per il minore investimento necessario per disporre nel proprio arsenale di tali armamenti, la proliferazione nucleare rende necessario, ma purtroppo non sempre sufficiente, cercare di coinvolgere un sempre crescente numero di paesi a partecipare ad eventi del genere. Per Obama è ancora più importante ribadire il suo ruolo di normalizzatore del fenomeno, perchè si trova coinvolto in piena campagna elettorale e la politica estera è uno dei suoi punti di forza, anche se le vicende afghane hanno causato qualche perdita di consenso. Proprio in quest'ottica è importante per il presidente americano uscente, uscire dal vertice incassando risultati positivi, almeno sul piano delle intenzioni per il disarmo nucleare. La dimostrazione di quanto Obama punti a questo obiettivo, per certi versi molto ambizioso e difficile, è la programmazione di un progetto di cooperazione internazionale che riduca la dipendenza energetica sia dal petrolio che dall'energia nucleare, dietro la quale, spesso, si nascondono programmi militari.
Nonostante queste buone intenzioni non sarà facile convincere paesi come l'Iran, con il quale è in corso un contenzioso piuttosto problematico, l'India, il Pakistan o la Corea del Nord ha rinunciare ai propri arsenali atomici. Se per l'Iran il discorso è differente, perchè ufficialmente Teheran persegue una ricerca nucleare a fini pacifici, per gli altri possessori ufficiali di ordigni atomici, ai quali va aggiunto Israele, è difficile immaginare una moratoria dei propri arsenali. La bomba atomica oltre che ad essere uno status symbol è ormai diventato uno strumento a pieno titolo della politica estera degli stati, sopratutto in fase di dissuasione e difensiva da possibili attacchi. Ma la grande instabilità mondiale giustifica i timori di Obama, peraltro condivisi da un alto numero di uomini di stato, circa la disponibilità relativamente facile di reperire tali strumenti bellici anche da parte di gruppi terroristici, che potrebbero vedere così notevolmente accresciuto il loro potere di ricatto. Soltanto una azione comune di controllo e di, sopratutto, prevenzione coordinata a livello internazionale può limitare questo pericolo. E' chiaro che i fattori in gioco sono molteplici, fermata l'emorragia del contrabbando nucleare a seguito della dissoluzione dell'impero sovietico, ora il pericolo maggiore è la disponibilità economica di alcuni gruppi terroristici, sopratutto islamici, che possono facilmente reperire sia la tecnologia, che il materiale per la costruzione di ordigni tascabili, non usabili a grande gittata ma comunque in grado di fare danni notevoli se usati in città di medie o grandi dimensioni. Diventa così prioritario fermare sul nascere questo pericolo che innescherebbe anche il superamento del blocco psicologico dell'attentato atomico fino ad ora mai osato, rischiando di aprire un mortale pericolo di emulazione. Molto spesso da riunioni che comprendono un così vasto numero di partecipanti escono solo dichiarazioni di buone intenzioni e nulla più, l'augurio, questa volta è quello di che vanga elaborata una strategia condivisa di azione concreta, capace di oltrepassare il mero aspetto teorico.
Nonostante queste buone intenzioni non sarà facile convincere paesi come l'Iran, con il quale è in corso un contenzioso piuttosto problematico, l'India, il Pakistan o la Corea del Nord ha rinunciare ai propri arsenali atomici. Se per l'Iran il discorso è differente, perchè ufficialmente Teheran persegue una ricerca nucleare a fini pacifici, per gli altri possessori ufficiali di ordigni atomici, ai quali va aggiunto Israele, è difficile immaginare una moratoria dei propri arsenali. La bomba atomica oltre che ad essere uno status symbol è ormai diventato uno strumento a pieno titolo della politica estera degli stati, sopratutto in fase di dissuasione e difensiva da possibili attacchi. Ma la grande instabilità mondiale giustifica i timori di Obama, peraltro condivisi da un alto numero di uomini di stato, circa la disponibilità relativamente facile di reperire tali strumenti bellici anche da parte di gruppi terroristici, che potrebbero vedere così notevolmente accresciuto il loro potere di ricatto. Soltanto una azione comune di controllo e di, sopratutto, prevenzione coordinata a livello internazionale può limitare questo pericolo. E' chiaro che i fattori in gioco sono molteplici, fermata l'emorragia del contrabbando nucleare a seguito della dissoluzione dell'impero sovietico, ora il pericolo maggiore è la disponibilità economica di alcuni gruppi terroristici, sopratutto islamici, che possono facilmente reperire sia la tecnologia, che il materiale per la costruzione di ordigni tascabili, non usabili a grande gittata ma comunque in grado di fare danni notevoli se usati in città di medie o grandi dimensioni. Diventa così prioritario fermare sul nascere questo pericolo che innescherebbe anche il superamento del blocco psicologico dell'attentato atomico fino ad ora mai osato, rischiando di aprire un mortale pericolo di emulazione. Molto spesso da riunioni che comprendono un così vasto numero di partecipanti escono solo dichiarazioni di buone intenzioni e nulla più, l'augurio, questa volta è quello di che vanga elaborata una strategia condivisa di azione concreta, capace di oltrepassare il mero aspetto teorico.
venerdì 23 marzo 2012
Israele sotto inchiesta per gli insediamenti nei territori
Il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite effettuerà una missione di inchiesta internazionale sulle conseguenze degli insediamenti delle colonie israeliane sul territorio palestinese. Si tratta di una grande novità nel panorama internazionale, che potrebbe cambiare la prospettiva dell'approccio al problema della nascita dello stato palestinese. La politica israeliana circa l'espansione dei propri coloni sui territori palestinesi, con il governo Netanyahu, è stata condotta in palese violazione degli accordi vigenti, senza che alcuna sanzione internazionale fermasse il processo di inclusione di territorio palestinese all'interno, di fatto, dello stato israeliano. Malgrado diverse condanne dal mondo internazionale, Tel Aviv ha condotto una politica che ha tollerato ufficialmente, ma che ha incoraggiato in maniera non ufficiale, per aumentare la propria estensione territoriale prima che la firma di un trattato metta fine all'attuale situazione non codificata in modo certo. Facendosi scudo delle continue situazioni al limite del conflitto, sopratutto con Hamas, Israele ha disconosciuto di fatto gli accordi di Camp David, in questo anche sostenuto dall'atteggiamento ambiguo ed accondiscendente degli USA, ed ha favorito la politica di espansione coloniale nei territori palestinesi, che vengono materialmente invasi da uomini in armi, in aperta violazione dei diritti umani degli abituali residenti palestinesi. Il Consiglio, formato da 47 membri, ha approvato la missione con 36 voti favorevoli, 10 astenuti ed un contrario: gli USA. Israele, che non fa parte del Consiglio, ha condannato la decisione come una vergognosa e palesemente favorevole alla causa palestinese. Tuttavia, pur essendo comprensibili le rimostranze israeliane, se viste con l'ottica della politica dell'attuale governo, peraltro osteggiata da gran parte della popolazione, l'atteggiamento di Tel Aviv appare poco lungimirante, sopratutto in questa fase di particolare tensione per lo stato ebraico, condizionato dalla questione del possibile confronto militare con l'Iran. L'impressione è che Israele punti ad ottenere tutti gli obiettivi che sta perseguendo, in un gioco molto pericoloso. Le condizioni dei palestinesi dei territori sui quali si stabiliscono le colonie israeliane, che è bene ricordarlo, sono composte quasi sempre da elementi delle fazioni ultra ortodosse e quindi assolutamente non disposte ne al diaologo ne alla convivenza, sono di totale privazione dei diritti civili, politici ed economici e subiscono confische e privazioni che creano potenziali cause di tensione con tutto il corollario che ne deriva: possibili attentati e terrorismo, in una spirale infinita che si avvita su se stessa. Queste situazioni, sopratutto non favoriscono il processo della realizzazione dei due stati, soluzione che potrebbe portare la pace nella regione e togliere argomenti al fondamentalismo islamico. In realtà Israele vuole che si verifichi questa evenienza solo a parole e comunque il più in la possibile nel tempo, per continuare la sua politica di espansione territoriale con la politica delle colonie. In questo atteggiamento vi è una colpevole arrendevolezza degli Stati Uniti, che continuano a portare avanti la manfrina dei negoziati diretti, soluzione più volte fallita proprio a causa di Tel Aviv, che ha sostenuto le scuse più diverse per rinviarli e quindi continuare la propria politica espansionistica. Le elezioni americane, poi, sono un ulteriore elemento che gioca a favore di Israele al fine di guadagnare tempo, infatti Obama, temendo qualsiasi reazione della lobby ebraica, non farà alcuna variazione sul tema, pur rendendosi conto che una rapida soluzione che vada verso la creazione dei due stati, forse, gli darebbe un aiuto enorme nella politica estera del medio oriente. La soluzione, invece, rappresenta una grande vittoria per l'Autorità Palestinese, che continua la sua battaglia pacifica all'interno delle istituzioni internazionali, sia per la decisione di inviare una missione ispettiva nei territori delle colonie, sia per quelli che saranno i probabili risultati, che dovrebbero sancire in modo inequivocabile gli abusi dei coloni israeliani sulla popolazione palestinese. D'altronde già nella risoluzione che decide l'ispezione è contenuta la richiesta allo stato ebraico di prendere le opportune misure per evitare la violenza dei coloni, mediante la confisca delle armi e l'imposizione di sanzioni penali, oltre che l'immediata cessazione della pratica del trasferimento di cittadini israeliani sul territorio palestinese occupato, definita esplicitamente occupazione straniera. Uno degli aspetti giuridici più controversi è proprio la definizione dell'insediamento delle colonie, Israele non riconoscendo la Palestina come entità statale, rifiuta la definizione di occupazione di territorio statale altrui, che potrebbe essere inquadrata come invasione, tuttavia lo status di membro osservatore ottenuto all'ONU dall'Autorità Palestinese pone come legittima la questione. Se questa fattispecie giuridica è vera, allora Israele sarebbe sanzionabile in sede internazionale. Anche se è obiettivamente difficile che si arrivi ad una determinazione del genere, è un fatto che la pressione delle organizzazioni internazionali, nonostante l'opposizione degli USA, si intensifichi su Tel Aviv, che però insiste nel proprio atteggiamento. Ma la rinnovata attenzione, sopratutto in sede internazionale, è da considerarsi un segno positivo verso la formazione dello stato Palestinese, fattore che permetterebbe la distensione nella regione ed anche un diverso atteggiamento verso Israele dei governi vicini, sempre più su posizioni di islamismo, seppure moderato.
giovedì 22 marzo 2012
La necessità di un risveglio della sinistra in Europa
Mentre negli scorsi giorni i leader dei tre principali partiti progressisti di Francia, Germania ed Italia, si sono riuniti per fare promessa sostegno reciproco, praticando una strategia comune, sia nell'ambito elettorale all'interno dei singoli paesi, che nella più ampia platea continentale, non si può fare a meno di riflettere sul comportamento dei movimenti di quella che una volta era definita sinistra politica. Una delle eredità degli anni ottanta dello scorso secolo, caratterizzati dalla spinta liberista i cui effetti negativi sono alla base delle crisi economiche attuali, è stato lo stravolgimento ideologico dei partiti che tradizionalmente rappresentavano i ceti dei lavoratori, sopratutto subordinati, in una rincorsa ad una trasversalità che non ha potuto che nuocere alla originaria idea fondativa di questi movimenti. Perso il contatto, anche storico e materiale, con la base ideologica che assicurava l'ancoraggio all'autenticità della propria missione, i partiti di sinistra hanno subito una trasformazione irreale, che ne ha determinato il distacco da quel mondo reale da dove provenivano le idee ed i valori che ne costituivano l'aspetto sia fondativo che evolutivo, perdendo così la vera e propria ragione di essere. Venutosi a determinare questo stato di cose i movimenti progressisti sono più spesso andati incontro a sconfitte che a successi, che però, non sono riuscite ad insegnare nulla a dirigenti con idee ormai inquinate. Uno degli errori più rilevanti è stato quello di rincorrere chi abitualmente stava dall'altra parte della barricata ideologica, dando per scontato l'appoggio di chi fino ad allora aveva costituito la base fedele del serbatoio elettorale. Questa rincorsa è avvenuta con aperture particolarmente generose a politiche che hanno generato perdite effettive sia di diritti che economiche, a quelle parti sociali che più si identificavano nella ragione stessa di esistere dei partiti progressisti. Ciò ha determinato una emorragia elettorale nei consensi che sono transitati verso formazioni di carattere locale o sono andate ad ingrossare le percentuali di non votanti o astenuti. Il guadagno di consensi dai ceti tradizionalmente non inquadrabili nei partiti di sinistra non ha compensato la perdita di cui sopra ed in generale la sinistra europea, tranne poche eccezioni temporali, non ha ricoperto posizioni di governo. Ma questo succedeva in condizioni economiche, che potevano essere difficili ma non di crisi generale e che gli strumenti degli stati, anche se governati da destra, potevano tamponare senza mai costringere la società a provvedimenti di urgenza. Già con l'avvento della globalizzazione il collante sociale che permetteva uno stato di relativa pace tra le diverse componenti della società ha portato ad affievolirsi le condizioni economiche dei ceti più deboli, ma con la crisi conclamata degli ultimi tempi, la coesione sociale ha subito una pericolosa incrinatura, mettendo in risalto le estreme ineguaglianze che si sono venute a creare. Questo elemento, di estrema pericolosità per la tenuta delle società occidentali, deve essere il punto di partenza per una nuova politica delle formazioni che si richiamano ai principi progressisti, che devono, per prima cosa arginare le politiche ultra liberiste che si nascondono dietro provvedimenti spacciati per risolutivi per le crisi che stiamo attraversando. I governi europei in carica enfatizzano lo scontro generazionale del lavoro, per arrivare ad un impoverimento dei più anziani scambiato con salari da fame, al posto della disoccupazione, per i più giovani. Se i partiti di sinistra avvallano queste politiche dichiarano il loro suicidio, regalando le competizioni elettorali agli avversari per abbandono della partita. Mai come ora, almeno nella storia recente, la sinistra ha l'occasione per rifare sue lotte politiche basate sui suoi principi costitutivi ed insieme rilanciare le economie occidentali nel rispetto del lavoro. L'esigenza di politiche fiscali più eque non può che coincidere anche con le esigenze di un mercato basato sulla reale produzione e non alterato da falsi valori finanziari non più ammissibili. Se l'incontro a tre dei giorni scorsi partirà da queste premesse, mettendo in conto anche sconfitte necessarie a riformare quel sostrato necessario alla ripresa necessaria della politica, non potranno che trarne vantaggio anche i partiti avversari, stimolati a produrre nuove idee e soluzioni, viceversa quello che permarrà sarà una stagnazione uniformata di basso livello, che decreterà una sempre maggiore subalternità dell'Europa.
Al Qaeda esorta alla ribellione gli afghani
L'esortazione del capo di Al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, affinchè gli afghani si ribellino agli americani, segue uno schema preciso, che sfrutta l'inadeguatezza e l'impreparazione, non tanto militare quanto sociale, dei soldati USA ad affrontare situazioni di guerra in paesi di religione musulmana. Nè le due guerre combattute in Iraq, nè l'occupazione in Afghanistan è riuscita ad inculcare, nella totalità del personale militare USA, quel rispetto che dovrebbe essere la prima misura di prevenzione per loro stessi e la maggiore fonte per evitare di pregiudicare missioni tanto pericolose. Gli episodi del più grande mancato rispetto verso i musulmani avvenuti recentemente, come avere urinato sui cadaveri dei combattenti talebani ed il rogo dei corani, che sono soltanto il seguito dei vari casi di umiliazione dei prigionieri nelle carceri militari americane, sono il peggiore fattore di destabilizzazione del programma del governo USA in Afghanistan, ed anche in Iraq, e non possono che portare all'insuccesso di campagne militari costate un gran numero di caduti ed una ingente spesa economica. Questi episodi segnalano anche, oltre la mancanza della necessaria sensibilità per operare in determinati teatri di guerra, anche un disagio sempre crescente dei militari americani, con il quale si evidenzia, purtroppo, l'assenza di contromisure. Con tali premesse risulta facile presentare i "crociati" invasori come odiati invasori, ed ottenere dalla popolazione quella sfiducia necessaria verso chi doveva affrancarli da l'integralismo, per riguadagnare il consenso perduto. Eppure nelle intenzioni di Obama, al fianco dello strumento militare, in Afghanistan doveva svilupparsi una operazione sociale, concretizzata nella costruzione di scuole ed ospedali, che aveva come scopo proprio guadagnare il consenso della società civile. Ma se un esercito che, si proclama, deve esportare democrazia non ha al suo interno la necessaria sensibilità per capire i costumi del luogo nel quale opera, resta soltanto una macchina da guerra, che non può andare oltre l'esclusivo compito militare che ha avuto in affidamento. Le crescenti difficoltà americane in Afghanistan si comprendono bene con questi episodi, che tra l'altro ridanno fiato ad una organizzazione che, almeno militarmente, sembrava molto indebolita. Tuttavia gli argomenti del capo di Al-Qaeda, gli permettono di riprendere, senz'altro dal punto di vista politico, una visibiltà che era molto diminuita. Con la crescente avversione in Afghanistan alle truppe USA, questo elemento non è da sottovalutare, l'incitazione alla sollevazione dei talebani contro gli americani, costituisce, per i combattenti integralisti, un ulteriore motivo di pericolosità per i militari, anche quelli di tutte le altre nazioni, di stanza nel paese asiatico. Il tutto si inquadra nella peggiorata situazione complessiva della missione afghana, sia dal punto di vista militare, con una situazione di stallo che appare senza sbocco, sia dal punto di vista politico diplomatico, con Karzai stretto in una morsa apparentemente senza via di uscita tra i talebani e gli stessi USA. Per l'Afghanistan il destino pare segnato: è probabile che i talebani con l'abbandono delle truppe USA, riprendano il potere, vanificando tutti gli sforzi fatti per creare una democrazia.
mercoledì 21 marzo 2012
La Birmania invita gli osservatori alle prossime elezioni
In occasione delle elezioni parlamentari del primo aprile, la Birmania ha invitato osservatori stranieri ad assistere alle operazioni di voto. Per primi sono stati invitati gli osservatori dell'Associazione del Sud-Est Asiatico, della quale la Birmania fa parte, poi l'invito è stato esteso anche ad osservatori provenienti da USA, UE ed anche osservatori per conto dell'ONU. L'operazione viene valutata positivamente dal mondo diplomatico, anche se restano perplessità per lo svolgimento della campagna elettorale, dove il partito della premio Nobel Aung San Suu Kyi, la Lega Nazionale per la Democrazia, ha lamentato pressioni ed irregolarità finanziarie degli avversari. Tuttavia l'attuale campagna elettorale si svolge in maniera più libera per i partiti di opposizione e la stessa premio Nobel è libera di condurre il suo giro elettorale per il paese. Non sono passi avanti da poco in un paese che costituiva una rigida dittatura militare, per la quale è ancora sottoposto a sanzioni. Proprio l'intento di diminuire o addirittura mettere fine alle sanzioni economiche potrebbe essere il motivo della decisione di aprire ad osservatori stranieri le porte del paese per il controllo delle operazioni di voto, anche se questo invito giunge obiettivamente in ritardo, tanto da non potere essere accolto dalla UE, per la mancanza di tempo necessario, valutato in circa sei mesi, per la preparazione degli osservatori. Nelle precedenti elezioni, considerate una farsa, avvenute nel 2010, però Aung San Suu Ky era agli arresti domiciliari e non erano stati invitati gli osservatori; questo cambiamento di rotta viene valutato positivamente dalle cancellerie occidentali e risponde alle intenzioni del governo birmano, che vuole accreditarsi come riformatore.
Ancora sull'anomalia italiana
Grecia ed Italia, rappresentano, ormai, due evidenti anomalie politiche nel cuore dell'Europa. Se ad Atene si sono imposti, anche con la forza, i dettami della Germania, che di fatto hanno limitato la sovranità del paese, a Roma, il governo cosidetto tecnico, instaurato dalle banche e dal mondo della finanza con modalità più morbide, sta perseguendo obiettivi analoghi a quelli subiti dal popolo ellenico. Occorre ricordare che il governo italiano in carica non è stato scelto dal corpo elettorale, ma è al potere con il consenso dei principali partiti, di solito schierati su posizioni diametralmente opposte. Questo ne legittima, secondo la legge, la vita e l'azione, ma ne fa una situazione anomala, se guardata dal lato del processo democratico. In queste ore in Italia infuria la battaglia sulla riforma del lavoro, che riguarda tutti i lavoratori italiani, ed è, perlomeno, strano, che ha decidere su di un tema così fondamentale non sia un esecutivo passato per il giudizio elettorale. Non è questo l'unico episodio cui questo governo è stato chiamato a decidere: la riforma delle pensioni e l'introduzione di nuove tasse, che hanno notevolmente abbassato la qualità della vita dei cittadini in maniera simile a quella dei greci, parlano chiaramente di una azione penalizzante verso una sola parte sociale, senza azione alcuna contro quel mondo bancario e finanziario, che a detta di molti è responsabile della crisi economica acuta che vive il paese italiano. Nella giornata di ieri un episodio di ulteriore gravità è accaduto in un ramo del parlamento italiano, la Camera dei deputati, dove il rappresentante del governo si è permesso di non rispondere nulla alle domande dei deputati, fatto già molto grave se inquadrato nel normale processo democratico, sulla mancata copertura finaziaria di una legge in discussione, cosa in palese contrasto con la legge fondamentale italiana, la Costituzione della Repubblica, e quindi al di fuori della legalità stessa rappresentando un ossimoro, generando la reprimenda del Presidente dell'assemblea. Il fatto di cui sopra rappresenta una duplice valenza che dimostra come l'esecutivo italiano sia al di fuori della democrazia e continui a rappresentare un pericoloso precedente per il normale svolgimento della vita democratica di uno dei paesi principali dell'Unione Europea. Non esistono le prove materiali che questo governo sia, come da più parti affermato, l'espressione delle banche e della finanza e che quindi agisca, in ultima analisi in loro favore, a parte prove indiziarie rappresentate da diversi provvedimenti che paiono andare in quella direzione, ma non è questo il punto centrale di questa riflessione. Qualunque provenienza abbia il governo italiano in carica ciò che importa è che non proviene dalle urne e questo basta ad identificarlo come un vuoto pericoloso per il processo democratico. Se questa prassi dovesse prendere campo, a livello europeo, non solo greco o italiano, in ogni caso di crisi economica, ci troveremmo davanti alla morte dell'esercizio democratico in nome di una emergenza che potrebbe anche non essere vera, si pensi a come ciò potrebbe essere possibile con la manipolazione dei mass media, giustificando la sospensione dei diritti fondamentali per qualunque esigenza finanziaria. Questa convinzione, che potrebbe sembrare una estremizzazione, pone dei quesiti concreti al fine di evitare anche tentativi di alcuni stati, più potenti economicamente, di limitare la sovranità di altri più deboli. Sono fattispecie che si stanno purtroppo verificando, instaurando un colonialismo modernissimo di matrice diversa da quello tradizionale, oltretutto in un ambito, come l'Unione Europea, che dovrebbe essere costituito da alleati. Se i paesi più deboli pagano la loro gracilità economica, Bruxelles, in quanto istituzione centrale, paga la propria debolezza politica, frutto di un processo unificatore incompiuto, che non permette all'intero sistema di avere persi e contrappesi in grado di bilanciare queste nuove casistiche che la crisi economica sta generando. Il mancato controllo sulle banche e sulla finanza genera dei mostri giuridici come il governo italiano, senza che l'ente sovranazionale possa opporsi in nome dell'esercizio democratico. Tutto ciò rappresenta una evoluzione inattesa e spiacevolmente presente, dei sistemi politici occidentali, quelli che dovrebbero esportare la democrazia nel mondo.
martedì 20 marzo 2012
La diffidenza dell'euro è anche diffidenza politica
La nascita della moneta unica europea, l'Euro, doveva essere un fattore trainante per l'unione politica del vecchio continente. Ma mentre si è dato corso velocemente alla divisa comune, non si è proceduto di pari passo con l'integrazione sia normativa che politica. E' stato un errore sulla tempistica del progetto completo che riguardava l'assetto dell'Unione Europea e la corsa in avanti della parte monetaria ha generato squilibri, che hanno indebolito la maggior parte delle economie dei singoli stati dell'Unione. Su ventisette paesi soltanto diciasette hanno adottato la moneta comune, chi per propria scelta, che per mancanza dei requisiti allora previsti. Al momento una seria riflessione imporrebbe, forse una revisione di tali requisiti con la possibilità di uscita, sia volontaria che coercitiva; ma tali vie d'uscita non sono state previste ed i contraccolpi sia economici che politici che deriverebbero da una uscita dalla moneta unica da parte di uno stato membro sono stati valutati molto pesanti, come insegna il caso greco, dove è stato fatto tutto il possibile per mantenere Atene entro l'area dell'euro. La rigidità imposta della Germania alle regole interne degli stati nazionali, ha ora creato un rallentamento del processo inclusivo nella moneta unica. In effetti se si può comprendere la necessità di mettere dei paletti ben definiti alla politica economica degli stati, per evitare pericolosi accumuli di debito e fenomeni connessi, come l'inflazione, si può altrettanto capire chi è restio a rinunciare ai propri margini di azione nella politica monetaria e finanziaria. Il caso più eclatante è il Regno Unito, che non ha voluto rinunciare a regole più rigide in materia di finanza, un settore trainante dell'economia inglese, ed ha così continuato a restare fuori dall'euro. Il paese più popoloso, dopo il Regno Unito, fuori dalla moneta unica è la Polonia, che sta godendo di una buona crescita economica ottenuta anche grazie agli ampi margini di manovra sulla leva monetaria che i suoi governanti hanno usato. Questo fattore ha fatto aumentare i detrattori dell'euro, che temono di vedere diminuire la crescita ed agitato lo spettro di Atene sulla società polacca. Londra e Varsavia non sono le sole, anche se per motivi differenti gli altri quindici paesi fuori dalla moneta unica europea, vedono raffreddare le proprie convinzioni ed assumono un atteggiamento, se non proprio ostile, tale da rallentare il processo di accettazione della divisa comune. Nonostante questi dati oggettivi e la pressione italiana per approvare dispositivi che consentano una maggiore crescita economica, pur entro gli steccati previsti, la Germania non sembra derogare dalla linea intrapresa. Questo atteggiamento tedesco porta soltanto uno stop al processo di unificazione europea, giacchè per il momento l'euro è il solo fattore concreto di unità. D'altra parte questa situazione genera una immobilità da cui è sempre più necessario uscire alla svelta, perchè un processo a metà non serve all'Europa. Affinchè il vecchio continente torni ad essere protagonista occorre rivedere da subito i vincoli di bilancio, per permettere all'economia la necessaria ripresa, ma fatto ciò è inammissibile che esista una parte di UE dentro l'euro ed una parte fuori.
Quella attuale è infatti una Unione a metà, dove non tutti i membri condividono le impostazioni di base e sono, di fatto, soci di comodo. Serve uno slancio di coraggio dei governanti e sopratutto delle istituzioni centrali di Bruxelles per riaffermare i principi costituenti ed insistere su di una normativa che porti a compimento l'effettiva unità. Chi è scettico stia fuori e non intralci il lavoro di chi è convintamente europeista.
Quella attuale è infatti una Unione a metà, dove non tutti i membri condividono le impostazioni di base e sono, di fatto, soci di comodo. Serve uno slancio di coraggio dei governanti e sopratutto delle istituzioni centrali di Bruxelles per riaffermare i principi costituenti ed insistere su di una normativa che porti a compimento l'effettiva unità. Chi è scettico stia fuori e non intralci il lavoro di chi è convintamente europeista.
lunedì 19 marzo 2012
Nel mondo sale la spesa per gli armamenti
Nel mondo cresce il commercio e quindi la produzione delle armi. Quello militare si rivela ancora un mercato florido grazie ad un incremento del 24% nel periodo tra il 2007 ed il 2011. I movimenti dei prodotti bellici
offrono una lettura della situazione geopolitica che si sta sviluppando. Mentre i maggiori esportatori, USA, Russia, Germania, Francia e Regno Unito, mantengono invariate le loro posizioni, tra gli acquirenti si registra la notevole attività dell'India, che è la nazione che più ha investito in armamenti. Resta sempre singolare come paesi che hanno problemi di alimentazione, in India vi è il più alto tasso di denutrizione tra i bambini, impieghino gran parte del loro bilancio per scopi militari. Ma il caso indiano è particolare, perchè denota una volontà di dotarsi di una forza armata particolarmente equipaggiata, non certo per farne sfoggio in parate, ma per prepararsi a scenari futuri che potranno essere potenzialmente pericolosi. La crescente rivalità economica con la Cina si riflette anche sul piano delle alleanze diplomatiche, i contatti sempre più frequenti tra Pechino ed Islamabad, preoccupano non poco Nuova Delhi. Peraltro la stessa Cina continua la sua politica di armamenti, compiendo addirittura un salto di qualità da paese compratore ad esportatore, arrivando addirittura a diventare la sesta nazione al mondo nella classifica dei venditori di armi. Uno dei motivi dell'escalation cinese è proprio lo speciale rapporto che la lega al Pachistan, diventato il primo cliente di Pechino nel mercato bellico. Si tratta, quindi, di segnali pericolosi per l'India, che risponde con un investimento capace di creare un potere di dissuasione per evitare che eventuali nemici possano attaccarla. Quello che si sta creando nella regione è una sorta di equilibrio del terrore tra le due più grandi potenze emergenti. Analizzando invece la direzione, verso Corea del Sud, Australia ed Emirati Arabi Uniti, degli armamenti, che gli USA producono, si evince la volontà americana di rafforzare la propria strategia di protezione dei propri alleati e delle vie di comunicazione di Oceania, penisola coreana e Giappone e consolidare la propria presenza nel Golfo Persico, dove si è anche registrata una vendita massiccia di aerei da combattimento all'Arabia Saudita.
Particolarmente significativo è l'aumento degli acquisti di armamenti nei paesi attraversati dalla primavera araba, un mercato dove gli USA sono molto attivi, quasi che il risveglio democratico abbia sollecitato la volontà di dotarsi di adeguati strumenti per difenderlo. Ma anche in aree che sembrano più tranquille si è registrato l'incremento della spesa militare; infatti nei paesi sudamericani, in special modo Cile, Venezuela e Brasile l'importazione degli armamenti si è impennata in modo considerevole. In una valutazione globale occorre rilevare che non esistono, alla fine, grandi differenze tra paesi che si avviano a standard più elevati, come la Cina, il Brasile e la stessa India, che grazie alle loro economie hanno compiuto passi da gigante e stati che restano arretrati, su tutti il Pachistan, nei capitoli di bilancio destinati alle spese militari. L'importo della spesa è sempre molto ingente ed il fatto non può che confermare che la pace nel mondo non sia così stabile come si può credere, ma che anzi, si basi proprio sull'equilibrio degli armamenti, che hanno sostanzialmente una funzione dissuasoria dell'atto bellico attivo. Questo fattore rappresenta una estensione di quello che già succedeva negli anni della guerra fredda, con la variazione sostanziale che gli attori coinvolti nel processo non sono più soltanto due. Ciò crea una situazione di maggiore incertezza perchè lo scenario militare si è allargato, comprendendo anche stati dove il meccanismo di potere e quindi di esercizio della forza, non è più così sicuro e codificato come per USA ed URSS. Di fronte a questo proliferare pericoloso degli armamenti, occorrerebbe una moratoria internazionale gestita dall'ONU, ma il grande movimento di denaro generato dall'industria bellica rende vana questa speranza.
offrono una lettura della situazione geopolitica che si sta sviluppando. Mentre i maggiori esportatori, USA, Russia, Germania, Francia e Regno Unito, mantengono invariate le loro posizioni, tra gli acquirenti si registra la notevole attività dell'India, che è la nazione che più ha investito in armamenti. Resta sempre singolare come paesi che hanno problemi di alimentazione, in India vi è il più alto tasso di denutrizione tra i bambini, impieghino gran parte del loro bilancio per scopi militari. Ma il caso indiano è particolare, perchè denota una volontà di dotarsi di una forza armata particolarmente equipaggiata, non certo per farne sfoggio in parate, ma per prepararsi a scenari futuri che potranno essere potenzialmente pericolosi. La crescente rivalità economica con la Cina si riflette anche sul piano delle alleanze diplomatiche, i contatti sempre più frequenti tra Pechino ed Islamabad, preoccupano non poco Nuova Delhi. Peraltro la stessa Cina continua la sua politica di armamenti, compiendo addirittura un salto di qualità da paese compratore ad esportatore, arrivando addirittura a diventare la sesta nazione al mondo nella classifica dei venditori di armi. Uno dei motivi dell'escalation cinese è proprio lo speciale rapporto che la lega al Pachistan, diventato il primo cliente di Pechino nel mercato bellico. Si tratta, quindi, di segnali pericolosi per l'India, che risponde con un investimento capace di creare un potere di dissuasione per evitare che eventuali nemici possano attaccarla. Quello che si sta creando nella regione è una sorta di equilibrio del terrore tra le due più grandi potenze emergenti. Analizzando invece la direzione, verso Corea del Sud, Australia ed Emirati Arabi Uniti, degli armamenti, che gli USA producono, si evince la volontà americana di rafforzare la propria strategia di protezione dei propri alleati e delle vie di comunicazione di Oceania, penisola coreana e Giappone e consolidare la propria presenza nel Golfo Persico, dove si è anche registrata una vendita massiccia di aerei da combattimento all'Arabia Saudita.
Particolarmente significativo è l'aumento degli acquisti di armamenti nei paesi attraversati dalla primavera araba, un mercato dove gli USA sono molto attivi, quasi che il risveglio democratico abbia sollecitato la volontà di dotarsi di adeguati strumenti per difenderlo. Ma anche in aree che sembrano più tranquille si è registrato l'incremento della spesa militare; infatti nei paesi sudamericani, in special modo Cile, Venezuela e Brasile l'importazione degli armamenti si è impennata in modo considerevole. In una valutazione globale occorre rilevare che non esistono, alla fine, grandi differenze tra paesi che si avviano a standard più elevati, come la Cina, il Brasile e la stessa India, che grazie alle loro economie hanno compiuto passi da gigante e stati che restano arretrati, su tutti il Pachistan, nei capitoli di bilancio destinati alle spese militari. L'importo della spesa è sempre molto ingente ed il fatto non può che confermare che la pace nel mondo non sia così stabile come si può credere, ma che anzi, si basi proprio sull'equilibrio degli armamenti, che hanno sostanzialmente una funzione dissuasoria dell'atto bellico attivo. Questo fattore rappresenta una estensione di quello che già succedeva negli anni della guerra fredda, con la variazione sostanziale che gli attori coinvolti nel processo non sono più soltanto due. Ciò crea una situazione di maggiore incertezza perchè lo scenario militare si è allargato, comprendendo anche stati dove il meccanismo di potere e quindi di esercizio della forza, non è più così sicuro e codificato come per USA ed URSS. Di fronte a questo proliferare pericoloso degli armamenti, occorrerebbe una moratoria internazionale gestita dall'ONU, ma il grande movimento di denaro generato dall'industria bellica rende vana questa speranza.
sabato 17 marzo 2012
Afghanistan: errori ed evoluzione della politica estera USA
La situazione afghana rischia di arrivare ad un punto di non ritorno, che potrebbe mettere in seria difficoltà sia Obama, che Karzai. Il tragico avvenimento della strage dei civili da parte di un militare americano, inquadrato nella fredda contabilità dei rapporti internazionali, rappresenta soltanto un ulteriore elemento a favore di chi spinge per il ritorno del paese ad una situazione simile a quella vigente con i talebani al governo. D'altronde la sequenza temporale dell'abbandono del tavolo delle trattative in Qatar da parte proprio dei talebani, appena dopo la strage, non fa altro che dimostrare che essi non attendessero un qualunque pretesto per lasciare l'approccio diplomatico. Ma con i talebani svincolati dal processo di pace la prima conseguenza oggettiva è il fallimento della politica di Obama e di Karzai e quindi per l'Afghanistan il destino è quello di ritornare nel caos più completo. Sopratutto a perdere è la politica estera americana, ma non soltanto quella di Obama, anche quella precedente; infatti l'approccio essenzialmente militare, stemperato soltanto negli ultimi tempi da Obama, nal lungo periodo si è rivelato perdente perchè non ha saputo dare al paese asiatico la necessaria stabilità politica attraverso il presidio del territorio. Proprio su questo versante è stata la mancanza più grossa: puntare sull'esclusiva azione bellica, sopratutto nella prima fase, non ha permesso di debellare le formazioni talebane, molto radicate nel territorio, che sono rimaste a presidiare zone chiave da cui fare ripartire l'offensiva. Occorre riconoscere la suprema difficoltà che si erano dati gli USA fin dall'inizio delle operazioni militari: storicamente nessuno è mai riuscito vincitore dal confronto militare con le popolazioni afghane, ma proprio questo assunto doveva fare impostare diversamente la strategia, che doveva essere accompagnata fin dalla partenza da azioni alternative, sia dal punto di vista sociale che diplomatico. Non è azzardato dire che se Obama avesse avuto il comando dall'inizio i risultati potevano essere differenti, ma avendo ereditato una situazione da subito compromessa abbia operato aggiustamenti risultati insufficienti. Nel conto occorre mettere anche l'atteggiamento del Pachistan, che ha ondeggiato troppo spesso tra collaborazione ed ostruzionismo, praticando un doppio gioco che ha favorito essenzialmente le milizie talebane. Ciò a beneficio di quei settori politici presenti ad Islamabad che nutrono ambizioni di portare Kabul entro la propria sfera di influenza. In questo la diplomazia americana ha fatto diversi errori di valutazione, dovuti alla convinzione, in parte giustificata da necessità di equilibri di geopolitica, che il Pachistan fosse l'alleato chiave nella questione afghana. Su questa convinzione assoluta si è basata l'azione della politica estera USA, che non ha saputo elaborare strategie alternative in grado di potere praticare altre vie, ciò neppure quando è stato palese che Islamabad non era affidabile perchè tollerava sul suo territorio Bin Laden. Ben peggiore, però del fatto di avere il massimo simbolo del terrorismo internazionale all'interno dei propri confini, è la protezione che il Pachistan offre alle basi delle milizie talebane, dalle quali partono gli attacchi verso le truppe NATO. Di fronte a questa serie di fattori lo stesso Karzai, per non perdere consensi in patria, si deve dimostrare ostile agli americani, pressato da un lato dall'indignazione popolare, peraltro montata ad arte dagli estremisti islamici, e dall'altro lato, della sempre crescente influenza ed importanza dei talebani. Si inquadra nell'attuale scenario, che deriva da questi presupposti, la necessità della richiesta di tenere le truppe USA all'interno delle proprie caserme in Afghanistan, praticamente soltanto pronte ad essere impiegate in situazioni di emergenza. Se questo nuovo elemento può favorire il piano di rientro elaborato da Obama, nel contempo, ne fa registrare l'ennesimo sintomo del fallimento americano. Per analizzare obiettivamente la situazione che si è creata, occorre stabilire se l'Afghanistan può ancora rappresentare un problema sul palcoscenico del terrorismo internazionale, innazitutto per il mondo occidentale ed in ultima istanza per gli USA. La risposta è complessa perchè deve tenere conto di più elementi difficilmente prevedibili, che non riguardano soltanto l'aspetto essenzialmente del terrorismo, ma anche l'evoluzione delle nuove alleanze economiche che si stanno delineando nella regione. Se si può, se non considerare conclusa, almeno fortemente ridimensionata la minaccia di Al Qaeda, che poteva partire dalle zone afghane, non bisogna dimenticare che intorno a queste zone c'è sempre in ballo il difficile rapporto tra Pachistan ed India, con la Cina che sta percorrendo una strategia di incremento della propria influenza. Perdere il controllo per gli USA potrebbe volere dire abdicare all'uso di un potere di indirizzo che, inevitabilmente, andrebbe a beneficio di qualche altra grande potenza. Senza contare che venendo a mancare l'effetto stabilizzatore di Washington, pur con tutte le sue lacune, potrebbero aprirsi nuovi fronti capaci, con i loro effetti, di portare conseguenze destabilizzanti, ben oltre la regione. Il grande elemento che blocca una soluzione di qualsiasi tipo sono le incombenti elezioni americane, che obbligano Obama a temporeggiare, senza intraprendere soluzioni più drastiche per non causare risultati inattesi in grado di cambiare la percezione della politica estera del Presidente uscente sul corpo elettorale USA. Per ora la politica estera, rappresenta un punto di forza, ma le troppe questioni in bilico rischiano di invertire la rotta, con conseguenze negative per il voto a favore di Obama. Tuttavia la tattica eccessivamente temporeggiatrice del Presidente USA in Afghanistan rischia di essere deleteria per l'equilibrio del paese, senza una scossa che permetta a Karzai di riaffermare la propria autorevolezza, anni di guerra con vittime e notevoli costi economici potrebbero essere stati inutili.
giovedì 15 marzo 2012
Per Pechino la necessità di riformare il proprio sistema politico
Per il sistema poltico cinese è arrivata la resa dei conti? La storia potrebbe presentare per la prima volta la riforma di un sistema politico di tipo rigido, come è il regime di Pechino, non con una rivoluzione violenta, ma per ragioni di economia. Il grande slancio economico cinese, con percentuali di crescita altissime, è nato dall'abbondanza di manodopera a basso prezzo, che ha favorito la delocalizzazione di industrie europee, americane e giapponesi, unito alla grande abbondanza di infrastrutture. Va anche detto che, l'assenza di molte regole sindacali, che potevano rallentare i processi produttivi in patria, ha rappresentato una ragione altrettanto valida per spostare la produzione sul territorio cinese. Tuttavia queste ragioni stanno venendo sempre meno, da un lato la grande crisi economica rallenta la produzione per mancanza di ordini, dall'altro la necessità di alzare il livello della merce prodotta impone un cambio di rotta, che prevede non solo un produzione orientata alla quantità ma necessita anche di aumentare il livello qualitativo dei beni. La Cina ha bisogno di non rallentare la crescita per non avvitarsi su se stessa e per non incorrere in una diminuzione della capacità di acquisto dei cinesi, fattore che ha contribuito non poco a contenere il senso di disagio già di per se elevato. Uno dei punti di debolezza del sistema economico cinese è la troppo elevata partecipazione statale nelle imprese, che blocca la concorrenza ed alimenta il pericoloso divario di diseguaglianza tra città e campagna, fonte di pericolosa instabilità sociale. Per fare ciò è però necessaria una fase di riforme politiche che permetta alla crescita economica di proseguire. In questo senso sembra andare il discorso del premier cinese Wen Jiabao, che ha ammesso la necessità e l'urgenza di riforme politiche. Occorre però non dimenticare che si parla pur sempre della Cina, e quindi le riforme annunciate non possono riguardare un completo sovvertimento dell'ordine presente. Tuttavia le esigenze dell'economia, aggravate dallo stato di crisi internazionale, premono per maggiori liberalizzazioni in senso strettamente politico, sarà quindi per i dirigenti cinesi un vero e proprio esercizio di equlibrismo, elaborare nuove soluzioni che si concilino con il partito unico e la necessità di dare maggiore concorrenza al mercato. Il premier cinese, d'altronde è un fautore di una trasformazione dei meccanismi elettorali interni al partito ed una soluzione sarebbe sottoporre al vaglio del corpo elettorale diversi candidati, di orientamento differente, sempre sotto il simbolo unico del Partito Comunista. Sarebbe già un avanzamento epocale per la rigida struttura di potere cinese, segnata da procedure ferree. Ma forse ciò andrebbe a costituire una variazione troppo traumatica per la stessa maggioranza dei cinesi, non abituati ad esercitare scelte del genere. Forse è più probabile, nell'immediato, un allargamento dei delegati chiamati ad esprimersi su un ventaglio più ampio di questioni, sarebbe una scelta più in linea con i comportamenti del potere cinese, anche se ciò rischia di essere insufficiente per ridare slancio all'economia. In ogni caso queste riforme non riguarderanno i dissidenti, che Pechino ha sempre il medesimo interesse a limitare: troppa libertà non aiuterebbe comunque la crescita economica.
lunedì 12 marzo 2012
I paesi del Golfo Persico di fronte alla possibilità di un conflitto Israele-Iran
La possibile guerra tra Israele ed Iran agita tutto il mondo arabo. Specialmente tra i paesi del Golfo Persico, che si affacciano sulla sponda opposta alla costa iraniana, la preoccupazione è palpabile. Il pericolo di essere trascinati in una guerra santa all'interno dell'Islam, tra i rappresentanti delle due principali dottrine, sciti e sunniti, è concreto, come è concreta la volontà di di costringere l'Iran a rinunciare alla bomba atomica, ma le posizioni rispetto a Teheran non sono omogenee. Malgrado il pensiero comune è che una guerra avrebbe conseguenze catastrofiche, per alcuni paesi potrebbe essere l'occasione per sbarazzarsi di un vicino scomodo per l'equilibrio geopolitico della regione, cancellandone la pericolosa influenza. E' questo il pensiero dei governi di Arabia Saudita, Bahrain e Kuwait, mentre l'atteggiamento di Emirati Arabi Uniti ed Oman resta più cauto, rispettivamente, infatti, i due paesi hanno un approccio più morbido verso l'Iran, che vede gli Emirati Arabi Uniti propendere per le sanzioni, come mezzo di dissuasione, mentre l'Oman è totalmente contrario ad un impegno bellico. L'atteggiamento più duro è quello dell'Arabia Saudita perchè coinvolge motivazioni religiose, geopolitiche ed anche economiche. Dal punto di vista religioso tra i due paesi si gioca la partita più dura per la supremazia religiosa all'interno della religione islamica, la teocrazia nata dalla fine del dominio dello Scià, ha messo in discussione l'autorità religiosa saudita sui luoghi santi de la Mecca e di Medina ed ha usato questo confronto ripetutamente per influenzare le minoranze scite presenti nella sponda del Golfo Persico prospiciente alla costa iraniana. Secondo i sauditi sarebbe stato infatti l'Iran ha fomentare le rivolte scite che si verificate nello scorso anno in corrispondenza della fase più acuta della primavera araba, nei paesi confinanti con Riyad, che hanno determinato l'invio di truppe dell'esercito dell'Arabia Saudita per proteggere la monarchia del Bahrain. Si arriva così al paradosso che l'Arabia Saudita e lo stesso Bahrain, vedrebbero favorevolmente un attacco israeliano capace di indebolire l'Iran, tuttavia i due stati, per ora stanno alla finestra perchè la sicura risposta iraniana viene valutata come elemento capace di coinvolgere direttamente i due paesi in una ritorsione militare, sopratutto per la presenza di basi americane sui loro territori. Tuttavia l'atteggiamento dei due paesi, pur restando di attesa, è chiaramente ostile a Teheran, lo dimostra anche il fatto dell'attività saudita nel caso siriano, dove Riyad sarebbe favorevole ad un intervento militare, che non viene però appoggiato dagli altri paesi del Golfo e quindi opta per un rifornimento continuo di armi ai ribelli schierati contro Assad. Non si deve pensare che l'Arabia Saudita, stato dove vige un regime profondamente illiberale, faccia questo per favorire un processo democratico a Damasco, la ragione riguarda esclusivamente valutazioni geopolitiche, infatti lo scopo è togliere dall'influenza iraniana il territorio chiave siriano. Ma gli altri paesi del Golfo hanno un atteggiamento più prudente, perchè devono valutare l'impatto di un eventuale confronto con l'Iran che ripercussioni avrebbe sulle minoranze scite, che compongono il loro stato sociale e che sono fondamentali per il funzionamento delle loro economie. Fornire un nuovo pretesto di agitazione sociale, non è il massimo per i governi di Oman ed Emirati Arabi Uniti. Anche l'aspetto economico non è secondario: una guerra altererebbe la produzione del greggio con evidenti ripercussioni sulle economie dei paesi produttori, oltre che dei consumatori. Ma esiste un ulteriore aspetto da non sottovalutare: le posizioni più o meno radicali contro l'Iran dei governi non sono condivise dalla popolazione, che vedono Israele e gli USA come una minaccia per il mondo arabo, al contrario di una piccola minoranza che invece percepisce Teheran pericoloso. E' pur vero che non siamo in paesi dove vige la democrazia, ma se anche i sunniti continuano a vedere meno pericolosi gli sciti, perchè in fondo di questo si tratta, rispetto agli israeliani, cosa forse scontata, ma anche agli americani, fattore non del tutto ovvio per le lunghe alleanze sia politiche che militari presenti, la valutazione che devono fare i governi contro l'Iran, deve tenere necessariamente conto di questa tendenza. In ogni caso con questa analisi, alla questione si aggiungono ulteriori elementi di incertezza, che ancora meno consentono previsioni precise sugli sviluppi futuri.
Gli scenari possibili di un attacco di Israele all’Iran
Se si analizzano le opzioni militari per un eventuale attacco israeliano all’Iran, occorre partire dalla assoluta mancanza del fattore sorpresa, spesso determinante per l’esito di una azione bellica. Ciò non è da ritenere una mancanza dello stato maggiore di Tel Aviv, ma una precisa strategia politica elaborata per tenere sotto pressione, con le sanzioni americane ed europee lo stato iraniano. Tuttavia i progressi della ricerca nucleare di Teheran sono stati solo rallentati ma non fermati. Secondo alcuni analisti se l’Iran doveva essere colpito, il momento era intorno al 2002 o 2003, quando il programma nucleare era all’inizio, per stroncarlo sul nascere. Adesso la situazione è peggiorata perchè i dieci anni trascorsi hanno dato tempo a Teheran, oltre che per procedere con la ricerca, anche di organizzarsi nascondendo i suoi siti ed evolvere la propria strategia di difesa. Per Israele la minaccia è però insostenibile e all’interno dello stato cresce la volontà di azione, sopratutto nel governo. Guardando alla dotazione aerea israeliana, l’arma con cui Tel Aviv intende agire contro l’Iran, si evince la difficoltà di portare avanti questo progetto da solo come ha più volte minacciato Benjamin Netanyahu. L’aviazione militare israeliana, infatti è dotata di velivoli pensati per un conflitto di difesa e non di attacco, che non hanno la grande autonomia di volo necessaria per coprire i 1.600 chilometri che separano Israele dall’Iran. Oltre il fattore distanza, è da prendere in considerazione che il volo dei bombardieri con la stella di David non sarebbe lineare sull’obiettivo, in quanto la forza aerea iraniana opporrebbe una resistenza capace di impedire l’accesso ai cieli di Teheran. La necessità del rifornimento in volo diventa fondamentale, senza i grandi aerei cisterna, di cui Israele non disporrebbe, l’attacco aereo rimane una minaccia impraticabile. Per superare questa difficoltà tecnica insormontabile, esistono diverse opzioni, la prima delle quali è la partecipazione degli USA al conflitto. Con gli Stati Uniti impegnati con i propri mezzi, almeno nella fase logistica, per Israele il problema sarebbe superato, ma per il momento Obama non vuole forzare la mano, almeno prima di arrivare alle elezioni, ed anche un impiego obbligato delle forza armate americane, dettato da un’entrata in guerra di Israele non concordata, avrebbe delle ricadute diplomatiche tra i due stati con conseguenze fortemente negative. Per ovviare a questa causa ostativa, se Israele continuasse nel suo proposito di attaccare da solo potrebbero aprirsi nuovi scenari. Il coinvolgimento della Giordania, dove sono appena state costruite installazioni missilistiche in grado di proteggere Israele, potrebbe essere una opzione, ma occorre valutare una ritorsione iraniana contro un paese sunnita, il che potrebbe innescare una guerra santa in seno all’Islam, un regolamento di conti più volte minacciato tra sciti e sunniti, con l’Arabia Saudita in prima fila contro Teheran. Si tratta di un’opzione terribile per le conseguenze possibili e probabili, che gli USA, verosimilmente avversano, temendo un coinvolgimento in grande scala del proprio esercito. Un’altra possibilità è il passaggio degli aerei israeliani da altri paesi per potere effettuare percorsi più brevi. Una possibilità è offerta dall’Iraq, che non è dotato di difese antiaeree, ma che non darebbe mai il benestare al passaggio per bombardare un paese scita, con cui sta intessendo rapporti. Il sorvolo non autorizzato verrebbe condannato dall’opinione pubblica internazionale, perchè effettuato in dispregio del diritto internazionale. Vi sono ancora due opzioni, una è usare basi turche, ma i pessimi rapporti attuali tra i due stati non danno la minima possibilità a questa evenienza e neppure pare possibile convincere uno stato confinante con l’Iran dal lato europeo come Gerogia o Armenia ad ospitare le basi degli attacchi, per non essere coinvolto in una spirale di guerra e terrorismo che ne potrebbe minare la stabilità. Se queste considerazioni sono vere l’attacco israeliano in solitaria appare soltanto una minaccia impossibile da portare a termine se non con l’aiuto USA, ma il sentimento di paura crescente potrebbe portare a pessime determinazioni. Tuttavia nell’attesa della fine delle elezioni americane, quello che sembra più probabile è la ripresa in grande scala della guerra segreta, che Tel Aviv sembra avere interrotto. Per il momento è l’unica strada praticabile per contrastare la ricerca nucleare iraniana.
venerdì 9 marzo 2012
Siria: le ragioni del non intervento
Mentre continuano i massacri della repressione siriana, è lecito interrogarsi sul perchè del mancato intervento internazionale, come accaduto ad esempio in Libia. Pur essendo vero il fatto che in questa occasione Cina e Russia tengono bloccata, con il loro veto in sede di Consiglio di Sicurezza, una possibile azione della Nazioni Unite, risulta essere altrettanto veritiero il fatto che nessuna nazione osa mettersi contro il regime di Assad, come fu fatto con Gheddafi, quando Francia ed Inghilterra iniziarono i bombardamenti su Tripoli in anticipo sulla decisione dall'ONU. Per ora la tendenza di USA ed UE, i soggetti che più probabilmente potrebbero agire in difesa della popolazione siriana, è di esercitare una pressione diplomatica sempre più forte su Damasco, tramite sanzioni che stanno diventando sempre più aspre, ma che non ottengono alcun risultato. La ragione principale dell'immobilità occidentale, in special modo americana, è il rischio di un'accelerazione del conflitto con l'Iran, sul quale Obama sta prendendo tempo. Questa motivazione gioca a favore di Assad, ben conscio che se la Siria fosse messa sotto attacco, Teheran non esiterebbe a rispondere in sua difesa. Anche il belligerante atteggiamento israeliano, tenuto a freno a stento da Washington, gioca a favore del regime siriano, perchè alza la temperatura nella regione e costituisce un elemento di distrazione dalla repressione. Per Obama, forse più che per gli USA, il momento è il meno propizio per imbarcarsi in una nuova operazione militare, alla vigilia delle elezioni, infatti, un nuovo impegno bellico potrebbe spostare un buon numero di voti da uno schieramento all'altro. In quest'ottica va forse letta la dichiarazione del senatore Mc Cain, sfidante repubblicano di Obama alle scorse elezioni presidenziali, in favore di bombardamenti dal cielo sulle forze regolari siriane per fermare i massacri. Va però detto che le difese militari di cui dispone la Siria sono ben più avanzate di quelle di Gheddafi ed in un'azione contro Damasco va messo in conto un potenziale numero di perdite maggiore. Resta il fatto che secondo le Nazioni Unite il numero di morti oltrepassa le 7500 unità ed il mondo non può continuare ad ignorare una qualche forma di intervento ben più pesante delle sanzioni. I paesi arabi, dal canto loro continuano a perseguire l'idea di armare i ribelli, soluzione però già manifestamente insufficiente per la forza e la qualità delle truppe siriane, che, inoltre, dispongono dell'appoggio di milizie iraniane ed Hezbollah; inoltre l'estrema divisione dell'opposizione siriana, che abbraccia un vasto panorama che va da movimenti democratici ad integralisti islamici, non facilita il compito di trovare un interlocutore univoco per un'eventuale operazione militare. Anche trovare una sponda favorita da eventuali defezioni dall'apparato di regime, per combatterlo dal suo interno, risulta molto difficile per la ramificazione estesa fin dentro i più piccoli centri di potere, costruita dalla setta alawita di Assad. Tuttavia ormai il presidente siriano risulta ormai non più presentabile agli occhi del mondo, anche per i pochi alleati importanti che gli sono rimasti. La stessa Russia, pur mantenendosi ferma nelle proprie posizioni, ha più volte richiesto, non ascoltata, la fine della repressione, segno di profondo disagio di fronte al panorama internazionale. Soltanto Ahmadinejad continua ad appoggiare Assad ed a sposarne le tesi che giustificano la repressione, come legittima difesa contro attacchi terroristici. Ma l'isolamento del mondo e la sua avversione, per il momento non consentono una caduta rapida e la fine delle violenze. In queste condizioni pur potendo prevedere anche una certa resistenza, la vittoria finale sullo scenario siriano è tutta per Assad, anche se le previsioni sulla sua permanenza al potere sul lungo periodo non possono che essere negative. Intanto occorre stare a vedere cosa farà Israele: se dovesse attaccare l'Iran, per la Siria verrebbe meno una delle ragioni che gli hanno permesso di agire impunemente con la repressione. Se l'intenzione sarà di cancellare il regime iraniano, anche per quello siriano sarebbe la fine, perchè a quel punto sarebbe più facile intervenire anche per altri paesi. Ma anche senza conflitti non pare praticabile una permanenza di Assad al potere, la situazione è irrimediabilmente compromessa e non è peregrina la possibilità di una incriminazione alla Corte dell'Aja, in quel caso una via di uscita potrebbe essere un esilio dorato in Russia per il dittatore ed il suo gruppo di potere.
I fatti del Kerala, pericoloso precedente per il diritto internazionale
Il fatto dei soldati italiani, impegnati come scorta contro la pirateria in mare di una nave mercantile, imprigionati in India con l'accusa di avere ucciso due pescatori, rischia di creare un pericoloso precedente nel diritto internazionale. I fatti si sono svolti nel mare di fronte allo stato del Kerala, in una zona di passaggio delle navi mercantili ma anche dove operano, con le loro reti, i pescherecci indiani; una pratica di questi pescherecci è di deviare la rotta delle grandi navi cargo, per evitare che queste rompano le reti da pesca durante il loro passaggio. Questa pratica viene attuata avvicinando le navi con piccole barche, la pratica ricorda l'azione dei pirati, che usano mezzi piccoli e veloci per abbordare i grandi mercantili e prenderli in ostaggio. Dopo i ripetuti casi di pirateria, che hanno obbligato diversi stati a schierare navi militari nelle acque internazionali del Mare Arabico, gli armatori civili hanno scelto di ingaggiare militari professionisti, con l'avvallo del proprio stato, a bordo delle navi per difenderle dagli attacchi. Se nell'episodio di cui si parla si sia trattato di tragico errore o di effettivo attacco di pirati, non è ancora stato chiarito del tutto, anche perchè le autorità indiane hanno immediatamente cremato i corpi delle vittime, senza neppure effettuare l'autopsia di rito. Quello che importa è che il fatto sarebbe avvenuto in acque internazionali, come stabilito dalle misurazioni effettuate attraverso i satelliti. Nel Kerala, stato dove sono imminenti le elezioni, si registra una ampia ostilità verso l'Italia, dovuta alle origini di Sonia Gandhi, leader del Congresso Nazionale Indiano, uno dei principali partiti del paese. In questo stato, come in altre zone dell'India non è mai stato accettato che una straniera diventasse una delle figure più potenti del paese, cosa che si può anche comprendere in una nazione che è uscita in tempi relativamente recenti dalla dominazione coloniale. Ma questa è una questione interna, che va ad interferire con le norme che regolano il diritto tra gli stati. Un caso del genere è destinato a fare da scuola per il diritto internazionale e forse anche creare un pericoloso precedente in grado di generare questioni, conflitti e ritorsioni in una materia che deve essere, al contrario sempre più sicura ed affidabile. La prassi dice che per un fatto del genere, cioè l'episodio potenzialmente delittuoso, accaduto in acque internazionali, la giurisdizione spetta al paese per il quale batte bandiera la nave. Lo stato del Kerala, facendo intervenire le proprie forze armate e facendo pressione sull'armatore, con il ricatto di vietare alle sue navi l'approdo nei porti dello stato, ha interrotto questa norma riconosciuta dal diritto internazionale, soltanto per una questione interna, riguardante la propria competizione elettorale. Se i militari italiani, ora detenuti nelle carceri dello stato indiano, dovessero essere anche solo giudicati, cosa che in parte è già avvenuta, dalla corte del Kerala si verrebbe a creare un precedente pericolosissimo in grado di bloccare, potenzialmente, i commerci marittimi. E' singolare che intorno alla questione la disputa continui ad essere circoscritta alle diplomazie di Italia ed India, senza che dall'ONU si levi voce alcuna. Quello che appare è che non si voglia disturbare una potenza emergente come l'India anche in presenza di una violazione palese del diritto internazionale per cui, anzi, dovrebbe essere sanzionata. La speranza è che tutto si chiuda dopo le elezioni del Kerala e si arrivi ad una ricomposizione della questione. Tuttavia quello accaduto segnala una pericolosa deriva verso cui si muove il mondo. Ancora una volta particolari interessi locali vanno oltre l'applicazione delle regole comuni sovranazionali, esercizio necessario necessario per governare un mondo dove i confini nazionali vengono sempre più superati, sia per fattori economici, che tecnologici, che politici. Il nuovo assetto mondiale ha bisogno sempre più di leggi sovra statali il più possibile condivise, che tutelino l'universalità dei rapporti. Purtroppo il fatto del Kerala è l'ennesima spia di una tendenza sempre più presente che cerca di anteporre l'interesse particolare al generale, anche quando questo interesse è palesemente interesse di parte, distorcendo così la visione del rapporto internazionale stesso.
giovedì 8 marzo 2012
Hamas garantirà l'appoggio all'Iran in caso di conflitto
La notizia riportata dalla BBC, dove si affermava che Hamas non avrebbe preso parte ad una ritorsione armata contro Israele, nel caso quest'ultimo avesse attaccato l'Iran è priva di fondamento. D'altronde non pareva possibile, nonostante le speranze, che uno dei maggiori alleati iraniani, geograficamente posizionato in modo strategico, nel caso di un conflitto fra Tel Aviv e Teheran, negasse il proprio aiuto dopo anni di collaborazione ed aiuti. Quello che mancava era solo l'ufficialità ma l'appoggio era dato per scontato dall'inizio della questione; anche se si pensava che non fosse un appoggio così esplicito ed impegnativo. Così le parole di smentita su quanto detto dalla BBC, pronunciate da Mahmoud al-Zahar, fondatore di Hamas, non sono giunte inattese, ma hanno destato comunque una grande sorpresa negli ambienti diplomatici. Hamas oltre a ribadire il suo appoggio al fianco dell'Iran ha anche dato la sua disponibilità a combattere anche contro chi affiancherà Israele. E' una minaccia diretta agli USA, che pur tentando tutte le vie diplomatiche possibili, saranno sicuramente al fianco di Tel Aviv nel sempre più probabile confronto militare. Se non bastavano le previsioni di una profonda destabilizzazione della regione, la dichiarazione di Hamas coinvolge direttamente la questione palestinese nel confronto con l'Iran
ed azzera i tentativi portati avanti da diverse parti per la creazione di uno stato autonomo della Palestina. Ciò fornisce anche ad Israele la giustificazione di portare avanti i metodi repressivi e la colonizzazione condannata dagli stessi USA. Quella di Hamas è una posizione ingenua che vanifica anni di sforzi e di negoziati e rende anche più debole l'OLP, che a questo punto non potrà che smarcarsi dall'avversario politico, con il quale aveva firmato una tregua, per portare avanti le trattative sia con l'ONU che con Israele. La scontata rottura tra hamas ed OLP che seguirà questa dichiarazione di appoggio all'Iran, potrebbe portare come estrema conseguenza il distacco della Striscia di Gaza, dove Hamas ha la maggioranza, dal progetto della creazione dello stato palestinese e comunque comporta un indebolimento sostanziale di tutto il movimento palestinese. Anche se, come sperato, non dovesse esserci il confitto la posizione di Hamas, con queste dichiarazioni, risulta definitivamente compromessa e ne fa un interlocutore ormai inattendibile. Difficile interpretare una dichiarazione di tale portata effettuata in questo momento, anche se non è possibile che tale presa di posizione, troppo esplicita, non sia stata studiata nei tempi e nei modi nei quali è avvenuta. Potrebbe esserci Teheran dietro la minaccia di Hamas, che, forse, nei pensieri iraniani, può costituire un elemento di pressione, certamente di ulteriore caos nel divenire della situazione, ma certamente per l'Iran la dichiarazione di Hamas ha più un impatto mediatico da riscuotere nel mondo arabo, dove la questione palestinese gode sempre di una grande presa.
Militarmente Hamas può poco contro l'esercito israeliano, ma può, mediante i suoi kamikaze, mettere Israele nel più completo terrore ed incertezza, attraverso l'uso intensivo di attentati. Non è poco se unito ad una situazione di guerra come potrebbe essere quello che accadrebbe in caso di conflitto con l'Iran, con la popolazione civile in ostaggio di uno stato permanente di paura. Inoltre risorse militari israeliane potrebbero essere impegnate ancor più stabilmente contro la striscia di Gaza, sottraendole dal conflitto. Ma forse l'effetto maggiormente cercato è di chiamare a raccolta tutto il mondo arabo, perlomeno la parte più oltranzista, per trasformare il conflitto in guerra santa definitiva contro l'invasore sionista, probabilmente con l'appoggio di religiosi islamici più radicali. Se questo aspetto è vero non è da escludere una deriva non limitata al teatro regionale, ma estesa, anche con azioni spettacolari, come attentati in luoghi simbolo, in paesi alleati di USA ed Israele, in modo da coinvolgere più stati possibili nel clima del conflitto.
ed azzera i tentativi portati avanti da diverse parti per la creazione di uno stato autonomo della Palestina. Ciò fornisce anche ad Israele la giustificazione di portare avanti i metodi repressivi e la colonizzazione condannata dagli stessi USA. Quella di Hamas è una posizione ingenua che vanifica anni di sforzi e di negoziati e rende anche più debole l'OLP, che a questo punto non potrà che smarcarsi dall'avversario politico, con il quale aveva firmato una tregua, per portare avanti le trattative sia con l'ONU che con Israele. La scontata rottura tra hamas ed OLP che seguirà questa dichiarazione di appoggio all'Iran, potrebbe portare come estrema conseguenza il distacco della Striscia di Gaza, dove Hamas ha la maggioranza, dal progetto della creazione dello stato palestinese e comunque comporta un indebolimento sostanziale di tutto il movimento palestinese. Anche se, come sperato, non dovesse esserci il confitto la posizione di Hamas, con queste dichiarazioni, risulta definitivamente compromessa e ne fa un interlocutore ormai inattendibile. Difficile interpretare una dichiarazione di tale portata effettuata in questo momento, anche se non è possibile che tale presa di posizione, troppo esplicita, non sia stata studiata nei tempi e nei modi nei quali è avvenuta. Potrebbe esserci Teheran dietro la minaccia di Hamas, che, forse, nei pensieri iraniani, può costituire un elemento di pressione, certamente di ulteriore caos nel divenire della situazione, ma certamente per l'Iran la dichiarazione di Hamas ha più un impatto mediatico da riscuotere nel mondo arabo, dove la questione palestinese gode sempre di una grande presa.
Militarmente Hamas può poco contro l'esercito israeliano, ma può, mediante i suoi kamikaze, mettere Israele nel più completo terrore ed incertezza, attraverso l'uso intensivo di attentati. Non è poco se unito ad una situazione di guerra come potrebbe essere quello che accadrebbe in caso di conflitto con l'Iran, con la popolazione civile in ostaggio di uno stato permanente di paura. Inoltre risorse militari israeliane potrebbero essere impegnate ancor più stabilmente contro la striscia di Gaza, sottraendole dal conflitto. Ma forse l'effetto maggiormente cercato è di chiamare a raccolta tutto il mondo arabo, perlomeno la parte più oltranzista, per trasformare il conflitto in guerra santa definitiva contro l'invasore sionista, probabilmente con l'appoggio di religiosi islamici più radicali. Se questo aspetto è vero non è da escludere una deriva non limitata al teatro regionale, ma estesa, anche con azioni spettacolari, come attentati in luoghi simbolo, in paesi alleati di USA ed Israele, in modo da coinvolgere più stati possibili nel clima del conflitto.
La richiesta ingiusta di pagare il debito pubblico generato dalla speculazione
Mentre quello che affligge l'economia è il debito pubblico delle nazioni, sempre maggiore è la domanda di quanto sia legittimo fare ricadere sulla totalità della popolazione di uno stato questo costo. Se può essere giusto contribuire alla copertura del prestito per la costruzione di opere sociali, come le infrastrutture, che migliorano la vita della comunità, pare evidentemente assurdo caricare su contribuenti già tassati pesantemente, la rifusione per debiti contratti per scopi oscuri o peggio deleteri. Il meccanismo della democrazia, che prevede nel mandato elettorale la piena e libera azione governativa degli eletti di maggioranza, ha, in questo particolare caso, quello che gli informatici chiamerebbero un buco di sistema. In Italia, ad esempio, si è cercato di tamponare la falla mettendo al governo un gruppo di cosidetti tecnici, sommando un errore all'altro. Il mancato rapporto con il corpo elettorale ha creato un mostro giuridico che governa senza che il suo programma sia stato vagliato ed eventualmente approvato con il voto. Ma anche questa è un'obiezione facile sa smentire: in nessuna parte dl mondo alcuna forza partitica presenta presenta un programma così dettagliato da potere essere contestato nei particolari, che, però, fanno spesso la differenza. Inoltre non esiste una forma sanzionatoria, in nessuna nazione, per quei governanti che non raggiungono gli obiettivi proposti. Se questo è vero a livello politico, cioè quando le decisioni non sono ancora entrate nei confini dell'operatività pura, con tutte le conseguenze relative, nel momento in cui si deve fare un consuntivo, numeri alla mano, ogni responsabilità è assente. Questo fatto è intimamente legato al problema del debito pubblico, che viene caricato sulla collettività e spesso addirittura sulle generazioni future, senza che vi sia una sanzione per chi ha contratto questo impegno economico senza che vi sia almeno un beneficio tangibile. Impossibile non fare rientrare nel discorso la deriva partita dagli anni ottanta, quando si è cominciato a virtualizzare il valore, spostandolo da quello reale a quello fittizio, rispondendo alla richiesta del mondo della finanza e delle banche. Non è un caso che proprio a quegli anni, caratterizzati dalla premier inglese detta la Lady di ferro e dall'attore presidente degli USA, si sia iniziato a cumulare il debito pubblico che ora non è più sostenibile, per i mutati assetti produttivi e geopolitici. L'affermazione della concezione ultra liberista ha spostato gli obiettivi dell'azione di governo che sono diventati non più a lungo periodo ma si sono stabilizzati su obiettivi di breve e brevissimo periodo, con la conseguenza di elaborazione di politiche che necessitavano di sempre maggiore denaro da spendere velocemente. L'abuso di queste pratiche ha favorito, accrescendone a dismisura l'importanza, istituzioni finanziarie e creditizie, non più operanti per il bene collettivo, con il giusto guadagno si intende, ma che hanno incentrato la loro azione sulla più totale speculazione. Oggi siamo al paradosso che una azienda che possiede brevetti, impianti e prodotti reali, è spesso quotata con minore valore di una start up senza alcun bene materiale. L'ingresso nel mondo produttivo di paesi in grado di portare una manodopera a basso costo ha abbassato verso il basso la qualità del lavoro e della vita dei lavoratori, generando differenze sociali ormai non più colmabili e la globalizzazione ha fatto il resto. Spesso si è parlato della globalizzazione come evento non evitabile, dato dal fatto nell'ingresso del mondo industriale di nuovi soggetti, con appunto grande disponibilità di manodopera, ma ciò è stato solo una conseguenza non il motivo scatenante, perchè la globalizzazione è il sovvertimento studiato a tavolino per favorire la speculazione. Torniamo così all'inizio: è legittimo chiedere alla totalità della popolazione di pagare debiti contratti in questa maniera? Se si guarda all'evoluzione degli ultimi trenta anni non è possibile accettare questa imposizione. Se si pensa alla Grecia, che rappresenta un possibile futuro di diversi paesi europei, dove si è addirittura persa la sovranità nazionale e si è ridotto un intero popolo in povertà, non si può che essere mossi da indignazione. Le ripercussioni sociali potenziali tremende ed i disordini sociali fin qui accaduti non sono che poca cosa di fronte a ciò che potrebbe accadere potenzialmente. I governi hanno scelto di difendere le banche, quali detentrici e dispensatrici ormai istituzionali del credito, il ragionamento è coerente fintanto che si vuole mantenere gli istituti bancari al centro del sistema economico, appunto come collettori del credito attraverso il quale favorire la crescita. Ma le banche sono uno dei massimi punti deboli del sistema, in quanto hanno operato, salvo poche eccezioni, per il proprio esclusivo guadagno, speculando con l'acquisto e la rivendita di titoli spazzatura ed accumulando un credito molte volte non più esigibile, proprio per avere messo nel portafogli titoli che nel brevissimo periodo assicuravano dividendi vertiginosi.
Per sopravvivere le banche devono ricevere aiuto dalle banche centrali, ma non assolvono più il loro ruolo istituzionale e non forniscono credito all'economia che non può crescere, perchè il denaro ricevuto serve esclusivamente a coprire i loro debiti e quindi la loro sopravvivenza. Ma il sistema economico attuale è fondato sulla crescita, senza di questa manca il gettito fiscale e lo stato è costretto a nuovi debiti da contrarre soltanto per sopravvivere, senza più dare quei servizi che dovrebbero essere forniti grazie al pagamanto delle imposte. A questo punto il cerchio è chiuso ed il sistema economico si avvita su se stesso in una spirale sempre più stretta che non può che concludersi con il fallimento. Perchè non saranno certo gli interventi tampone dei diversi governi a risolvere la questione, ma soltanto a prolungarne l'agonia. Una soluzione sarebbe una moratoria di una gran parte, almeno, del debito pubblico totale di uno stato, cioè di quella parte sicuramente legata a speculazioni che nulla hanno avuto a che fare con il benessere della collettività, sarebbe un modo di ripianare enormi differenze sociali create con la speculazione, che hanno penalizzato il lavoro e sopratutto sarebbe una nuova partenza per un sistema più equo. Se questa soluzione sembra utopica, e per certi versi lo è senz'altro, si pensi all'alternativa che si potrà presentare quando intere nazioni saranno messe sull'orlo della miseria per assenza di provvedimenti efficaci: a quel punto sarà compromessa ogni stabilità sociale, nazionale e sovranazionale e si sfiorerà una nuova età della pietra.
Per sopravvivere le banche devono ricevere aiuto dalle banche centrali, ma non assolvono più il loro ruolo istituzionale e non forniscono credito all'economia che non può crescere, perchè il denaro ricevuto serve esclusivamente a coprire i loro debiti e quindi la loro sopravvivenza. Ma il sistema economico attuale è fondato sulla crescita, senza di questa manca il gettito fiscale e lo stato è costretto a nuovi debiti da contrarre soltanto per sopravvivere, senza più dare quei servizi che dovrebbero essere forniti grazie al pagamanto delle imposte. A questo punto il cerchio è chiuso ed il sistema economico si avvita su se stesso in una spirale sempre più stretta che non può che concludersi con il fallimento. Perchè non saranno certo gli interventi tampone dei diversi governi a risolvere la questione, ma soltanto a prolungarne l'agonia. Una soluzione sarebbe una moratoria di una gran parte, almeno, del debito pubblico totale di uno stato, cioè di quella parte sicuramente legata a speculazioni che nulla hanno avuto a che fare con il benessere della collettività, sarebbe un modo di ripianare enormi differenze sociali create con la speculazione, che hanno penalizzato il lavoro e sopratutto sarebbe una nuova partenza per un sistema più equo. Se questa soluzione sembra utopica, e per certi versi lo è senz'altro, si pensi all'alternativa che si potrà presentare quando intere nazioni saranno messe sull'orlo della miseria per assenza di provvedimenti efficaci: a quel punto sarà compromessa ogni stabilità sociale, nazionale e sovranazionale e si sfiorerà una nuova età della pietra.
mercoledì 7 marzo 2012
La Cirenaica si dichiara autonoma: Libia verso lo stato federale
Iniziato già prima della fine di Gheddafi, per la Libia si acuisce il problema della divisione territoriale e tribale, che mina alle fondamenta il già precario equilibrio dello stato. Per quanto riguarda l'organizzazione territoriale dello stato si confrontano due visioni diametralmente opposte: stato unitario e federalismo, quest'ultimo è stato abbandonato nel 1963 e comprendeva tre regioni amministrative: Cirenaica (est), la Tripolitania (ovest) e Fezzan (sud). Il governo di Gheddafi ha sempre discriminato la Cirenaica a favore delle altre regioni, in special modo la Tripolitania, ed infatti proprio da Bengasi, capitale della parte est del paese, è partita la rivolta che ha rovesciato il regime. Le pulsioni autonomiste sono state sempre motivo di repressione da parte delle forze di Gheddafi nella Cirenaica ed il sentimento indipendentista non si è mai sopito nella maggioranza della popolazione. Nella giornata del 6 marzo 2012 a Bengasi è stata ratificata, indipendentemente dalla volontà del Consiglio Nazionale di Transizione, con una cerimonia ufficiale, alla presenza di comandanti delle milizie e rappresentanti delle tribù, l'indipendenza della regione dalla Libia anche attraverso la creazione di un congresso regionale indipendente e di una propria forza armata. Tale decisione non disconosce l'autorità nazionale del Consiglio Nazionale di Transizione, a cui è riconosciuta la guida della nazione, ma ratifica la creazione di uno stato autonomo unito alla Libia in maniera sostanzialmente federale. Tripoli, anche nella nuova veste di capitale libica sede del Consiglio Nazionale di Transizione, è sempre stata contraria ad una ripartizione federale dello stato, preferendo una nazione maggiormente unita; nella capitale si è consci che favorire un processo in senso federativo dei territori sia la potenziale anticamera della disgregazione nazionale. Del resto storicamente la Libia non è mai esistita e non è stato certo il governo di Gheddafi a sviluppare un sentimento nazionale unitario in una società arcaica dove tuttora l'elemento tribale, non certo fattore aggregativo, è l'unico organismo sociale presente di un certo rilievo. Ma se Gheddafi aveva interesse a mantenere uno stato diviso in modo da avere maggiore facilità a dominarlo, l'interesse dei politici del Consiglio Nazionale di Transizione va nella direzione opposta. Nella loro visone, molto comprensibile, soltanto una forte unità dello stato può permettere la costruzione di una nazione stabile. In questa fase storica, dare spazio a tendenze separatiste può effettivamente portare alla divisione dello stato ben oltre l'assetto federativo. La regione è ben chiara lo stato libico, come è ora sistemato, poggia su fondamenta tutt'altro che solide, proprio per la totale assenza di spirito nazionale nei diversi clan tribali, che è bene sottolinearlo ancora, restano l'elemento fondante della struttura sociale libica. Anche il fatto che non si è voluto dare da subito una costruzione di tipo federale allo stato, fin dalla sconfitta di Gheddafi, significa che tale soluzione è stata scartata perchè troppo destabilizzante per il processo post bellico che stava per intraprendere il paese. Tuttavia queste differenze sostanziali esistono e sono le fessure che possono permettere ad agenti stranieri di infiltrarsi nella costruzione della nuova Libia. E' quanto ha espressamente dichiarato Moustapha Abdeljalil, capo del Consiglio Nazionale di Transizione, accusando i paesi arabi di alimentare la volontà indipendentista della Cirenaica, regione notoriamente petrolifera e quindi dotata di una ricchezza fondamentale per il nascente stato libico. Se ciò fosse vero l'ingerenza potrebbe giustificare la volontà di dividere un potente concorrente economico nel mercato del greggio. Del resto i finanziamenti ai ribelli provenienti dai paesi arabi sono stati ingenti, anche se pare obiettivamente difficile che siano stati pianificati per arrivare ad un tale risultato. Questo elemento, rappresentato dalla creazione di una entità autonoma nella Cirenaica, rappresenta un ulteriore elemento di disturbo nel cammino della formazione dello stato, che nonostante la scomparsa di Gheddafi, presenta numerosi segnali contrari al percorso democratico, come le ripetute segnalazioni da parte delle organizzazioni dei diritti umani per episodi di violenze perpetrate dalle milizie ai danni dei presunti seguaci del colonnello, che vanificano la pacificazione nazionale necessaria per stabilire un clima sereno nel paese. Risulta difficile ipotizzare le conseguenze del gesto dei dirigenti di Bengasi, ora il Comitato Nazionale di Transizione deve fare in modo di fare cambiare idea alla Cirenaica, impresa che pare difficile, in modo diplomatico e non pare possibile che Tripoli intraprenda una azione militare a guerra appena conclusa. Del resto l'atteggiamento di Bengasi, che riconosce sia la Libia unita, che l'autorità del Comitato Nazionale di Transizione chiude la porta ad azioni violente, che aprirebbero, allora si, la creazione di una entità statale separata. Più facile che Tripoli accetti la decisione di Bengasi e modifichi, anche se di malavoglia, i propri convincimenti sull'assetto dello stato verso la forma federale. Del resto questa è la tendenza dominante nel mondo, la valorizzazione delle piccole patrie, attraverso distacchi dall'organismo centrale di tipo morbido ed entro binari comunque ben definiti, se succede in Europa può accadere anche in Africa.
martedì 6 marzo 2012
La vittoria di Putin, nonostante i brogli
E' lo stesso vincitore delle elezioni presidenziali russe Vladimir Putin che riconosce anomalie ed irregolarità avvenute durante il voto che lo ha portato alla vittoria. Putin è diventato nuovamente Presidente della Federazione Russa con il 63,3% dei voti, una percentuale largamente prevista dai sondaggi, un vantaggio ben oltre la soglia che richiedeva il turno di ballottaggio, un vantaggio che gli consente tranquillamente di ammettere le irregolarità avvenute in fase di scrutinio, ma che garantisce anche un margine di consensi talmente ampio da fare rientrare i brogli denunciati in una quota quasi fisiologica del sistema, comunque non in grado di intaccare il largo successo ottenuto. Putin, forte di questo calcolo, apre così alle opposizioni e si mette in regola con la denuncia del capo degli osservatori dell'OCSE, che ha espressamente affermato la presenza di elementi di slealtà nella conta dei voti. L'auspicio del nuovo Presidente russo, che siano gli organi competenti ad investigare sui presunti brogli suona come l'ennesimo mancato rispetto delle procedure elettorali e fanno della Russia una democrazia incompiuta, dove vige il potere oligarchico. Tuttavia l'ammissione di Putin in altri tempi sarebbe stata impensabile, le grandi proteste di questi giorni che hanno coinvolto un gran numero di persone indicano, che determinati comportamenti non passano più sotto silenzio e dimostrano la formazione di una coscienza collettiva, che seppur minoritaria, scuote un mondo ancora condizionato dal rapporto col potere tipico dell'era sovietica. Putin, pur con la grande maggioranza di voti, regolari o no, acquisiti, dovrà per forza cambiare il rapporto con le altre parti sociali, che hanno rinunciato alla accettazione passiva delle direttive dall'alto per portare in piazza le proprie istanze in modo chiaro. Certamente la grande divisione delle forze di opposizione gioca in suo favore, ma non è detto che con il tempo non possa evolversi una intesa che consenta di formare alternative al gruppo di potere che guida la Russia da tempo. Per ora Putin può limitarsi a bollare il disaccordo delle altre forze politiche sulla correttezza del voto, come mezzo di azione politica, che non rispetta il risultato delle urne. Politicamente, poi, la mossa di presiedere la Commissione elettorale centrale, avente il compito di indagare sulla regolarità del voto sembra più che altro una via di mezzo tra provocazione e sfacciataggine, comunque sicuramente non un buon punto di partenza per stabilire un corretto rapporto con le forze di opposizione. La manovra appare come un vecchio rimasuglio dell'era sovietica, dalla quale Putin non si è mai affrancato del tutto. La questione non è irrilevante, giacchè vede minata dalla base la possibilità per il paese di scrollarsi di dosso vecchie usanze, mai abbandonate, che hanno ben poco a che fare con la democrazia. Nonostante il risultato fosse atteso la delusione che serpeggia tra gli oppositori è notevole, con la speranza di un voto regolare potevano ambire almeno ad un ballottaggio, dal quale, però, sarebbero usciti difficilmente vincitori. L'apparato messo in piedi da Putin, vecchio colonnello del KGB, è praticamente imbattibile per penetrazione della società russa, che alla fine si è fidata di una figura non completamente distaccata dall'Unione Sovietica, malgrado la distribuzione fortemente ineguale di ricchezza, sviluppata sotto i suoi precedenti governi. Per la maggioranza dei russi Putin incarna una sorta di classe media che pur abbracciando le novità del nuovo stato, non ha completamente abbandonato i vecchi costumi, rappresentando così una sorta di garanzia di una transizione che non si vuole del tutto completa. Resta però il dubbio della presenza dei brogli elettorali, che sul piano diplomatico, inficiano il successo del nuovo Presidente, malgrado il potere riconquistato, con tali dubbi, per Putin non sarà facile agire da primo attore, per lo meno nel breve periodo, sulla scena internazionale. Non è un handicap da sottovalutare per le sfide mondiali che attendono la Russia e che Putin vuole ritorni ad avere un rilievo di grande potenza.
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