Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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sabato 30 luglio 2011
La rete iraniana del terrore
Gli USA accusano l’Iran di essere alleati con Al Qaeda. Arriva dal dipartimento del tesoro americano, quello che pare piu’ di un sospetto, l’avviso che Teheran sia un punto di transito delle finanze del gruppo terroristico islamico, con destinazione Pakistan. Non solo, il transito riguarderebbe anche effettivi volontari pronti a combattere sotto le insegne qaeddiste. Si tratterebbe sia di stranieri addestrati in Iran, sia di miliziani reclutati in loco. Facile immaginare la destinazione: la frontiera tra Pakistan ed Afghanistan, teatro della dura guerra, quasi di posizione, tra le milizie talebane e e le truppe NATO. Dal punto di vista teologico questa alleanza pare un paradosso, giacche’ il regime iraniano segue il ramo scita dell’islam, che Al Qaeda ha bollato come eretico, ma la valenza politica e militare ne costituisce il vero cardine; d’altro canto non e’ neppure una novita’: immediatamente dopo l’undici settembre Washington punto’ subito il dito contro Teheran, come uno dei possibili mandanti dell’attentato. Quello rilevato dal dipartimento del tesoro USA, costituisce una conferma di una rete piu’ volte identificata, che e’ la spina dorsale della politica estera iraniana, che con la sua azione sottotraccia, si muove in una rete ramificata di ambienti terroristici e governativi, che hanno come unici obiettivi gli USA stessi ed Israele. Si va, appunto dai combattenti Talebani in Afghanistan, ai servizi deviati pakistani, agli Hezbollah libanesi, al governo siriano, ai terroristi iraqeni fino ad arrivare ai palestinesi di Hamas. La condotta dell’Iran si muove attorno ad una politica fatta di aiuti militari, finanziari e logistici, che tengono in costante apprensione gli USA, non tanto per azioni eclatanti, come invece piu’ volte minacciato da Teheran, quanto per una tattica quasi di guerriglia fatta di piccole o medie azioni di disturbo capaci di influenzare concretamente e l’aspetto delle sicurezza e l’aspetto della diplomazia. Esiste una fascia di territorio, nel mondo, dove queste azioni hanno una continuita’ sia di movimento che di capacita’ politica di influenza tale da fare guadagnare consensi alla causa iraniana. Tutto questo, poi e’ contiguo ai problemi internazionali dell’Iran, connessi sia al regime di isolamento, peraltro facilmente aggirabile, sia alle sanzioni, cui Teheran e’ sottoposta per il problema nucleare. Anche per questo versante l’uso spregiudicato delle alleanze risulta conforme al ragionamento iraniano, che ne fa ragione e di disturbo e di confusione.
venerdì 29 luglio 2011
Le implicazioni politiche del debito USA
Sul debito gli USA vanno incontro alla pilatesca decisione del rinvio. Con le elezioni incombenti, vero ostacolo ad una soluzione strutturale, la strada sembra già tracciata: nonostante una serie di discussioni, anche particolarmente accese, nessuno dei due schieramenti vuole prendersi la responsabilità di prendere accordi con gli avversari, che pregiudichino il rapporto con i propri elettori. Quindi il livello del debito sarà innalzato ed il problema rimandato dopo le elezioni. La situazione è un chiaro esempio di come la politica tenga in ostaggio l'economia e come, alla fine tutto ricada sulla popolazione. Gli USA sono ora in ostaggio di un sistema sbilanciato che mette in competizione il potere legislativo con quello esecutivo, quando la maggioranza che costituisce un potere non coincide con l'altra si arriva allo stallo. Ad aggravare la situazione vi è poi la complicata situazione interna del partito repubblicano, dove il movimento del tea party rischia di fare saltare i già delicati equilibri. Formatosi in base ai sentimenti dell'america bianca più profonda il tea party all'inizio è stato usato dai vertici del partito repubblicano per evidenziare le contraddizioni di Obama. Ma la pochezza ed anche gli scarsi argomenti dei repubblicani hanno finito per fare diventare prevalente il movimento del tea party in seno al partito conservatore americano. A questo è dovuto l'irrigidimento che ha portato al rinvio. L'economia americana, in realtà non è a rischio default, se non con possibilità remote, perchè gli interessi sui titoli decennali USA restando bassi dimostrano la fiducia dei mercati. Il problema più grosso è quello sociale, Washington deve fare i conti con un numero di disoccupati che ha raggiunto la quota astronomica di 29 milioni di persone, pari al 9,2 per cento ed i 18.000 nuovi posti di lavoro di Giugno rappresentano veramente poca cosa. Con queste premesse potrebbe avvicinarsi un conflitto sociale di proporzioni enormi, senza una soluzione politica il debito americano rischia di innescare una reazione a catena sui cui effetti la Cina è l'attore maggiormente preoccupato. Pechino ha nei suoi forzieri una quota pari a 1.600 miliardi di dollari di titoli americani e quindi non ha alcun interesse a soffiare sul fuoco del debito USA, tuttavia Hillary Clinton, durante una sua recente visita a Hong Kong, si è impegnata a rassicurare le autorità cinesi. Al momento la Cina non ha problemi di liquidità, nella peggiore delle ipotesi il debito cinese, comprendendo nel conteggio oltre allo stato anche le amministrazioni locali, potrebbe toccare il 40 per cento del PIL. Le implicazioni sono però, ancora una volta politiche, i rapporti tra Cina ed USA sono costellati da frizioni, che spesso si risolvono con compromessi raggiunti a fatica, nella competizione per potenza globale ormai la partita è a due: ma la quota di debito USA in mano alla Cina costituisce una vera e propria arma puntata su Washington, il cui blocco politico interno, alla luce di ciò risulta essere una pericolosa aggravante.
giovedì 28 luglio 2011
In libia non partono i negoziati
La situazione libica, oltre che dal punto di vista militare, è sempre più difficile anche dal punto di vista diplomatico. Gheddafi non è disposto ad intavolare alcuna trattativa con la controparte, senza che siano cessati i bombardamenti NATO, inoltre una eventuale fuoriuscita dal paese e la rinuncia del potere, da parte del rais, non costituiscono materia di trattativa. Questi assunti smentiscono le possibili soluzioni ventilate nei giorni scorsi da Mosca e delineano una strategia che punta a nuove sortite militari contro i ribelli qualora si blocchi lo scudo aereo. Infatti la condizione posta per aprire i negoziati non pare sincera e viene proposta per sfruttare il vantaggio dato a Tripoli dall'artiglieria pesante e dalle forze di terra. Una tregua aerea, in una fase di stallo come l'attuale, potrebbe permettere a Gheddafi di riguadagnare posizioni. Questa evenienza si accorda perfettamente con tutta la condotta del conflitto pensata a Tripoli, che consiste nel guadagnare tempo per cristallizzare la situazione. Conscio della impossibilità di una soluzione rapida del conflitto, al contrario dei volenterosi, Gheddafi, ha impostato su questa convinzione la guerra, probabilmente dando per persa la parte orientale del paese e cercando di mantenere sotto il proprio controllo la parte occidentale, dove gode di maggiore appoggio. Più il tempo scorre, più il rais ha possibilità di evitare la Corte dell'Aja o l'esilio. Tra qualche tempo non sarà più possibile protrarre il conflitto e l'unica soluzione sarà dividere in due la Libia, entità artificiale creata dal colonialismo italiano. Questa è la strada su cui Tripoli vuole portare il conflitto, la perdita di Bengasi e dell'oriente del paese è un pegno accettabile per il mantenimento del potere. Intanto il Regno Unito ha riconosciuto come unico rappresentante del popolo libico il Consiglio nazionale transitorio ed ha espulso i funzionari legati a Tripoli; tuttavia Gheddafi insiste anche sul lato diplomatico con missioni a Tunisi ed a Il Cairo di suoi emissari, rivelando di essere tutt'altro che isolato.
Potrebbero ripartire le trattative tra le due Coree
Un incontro durante il forum regionale per la sicurezza dell'Associazione dei paesi del sud est asiatico, in Indonesia, potrebbe fare ripartire i colloqui sul nucleare tra le due Coree, interrotti da circa tre anni. Il negoziato a sei, che oltre le due Coree comprende anche USA, Cina, Giappone e Russia, mira, come fine ultimo, a bloccare la proliferazione nucleare a scopo militare perseguita dalla Corea del Nord. La diplomazia internazionale non si è lasciata sfuggire l'occasione per fare riallacciare il dialogo che può risolvere una minaccia concreta in una zona nevralgica del mondo.
L'attivismo degli USA, che con Hillary Clinton ha trattato il tema con i più alti vertici cinesi, dimostra quanto Washington tenga alla risoluzione della vicenda, ponendo come condizione per la ripresa formale dei negoziati, il miglioramento delle relazioni tra le due nazioni della penisola coreana. In special modo a Pyongyang viene chiesto un cambio nel comportamento verso Seul e la fine delle provocazioni, come il bombardamento del territorio e l'affondamento della corvetta sud coreana avvenute nel 2010, quando, in seguito a questi fatti, si è più volte sfiorato il conflitto armato. Quello a cui mirano gli USA è una distensione a tutti gli effetti, che possa favorire il dialogo verso una definizione positiva, per la quale sono ritenuti essenziali presupposti chiari e lineari. Non è, purtroppo ancora così: la Corea del Nord starebbe preparando manovre militari, proprio nella zona calda del Mar Giallo ed inoltre è stato scoperto un sito per l'arricchimento dell'uranio, tuttavia per usi pacifici. Va anche ricordato che il regime di Pyongyang dal 2009 impedisce agli ispettori dell'AIEA di effettuare sopralluoghi ai siti nucleari. Nonostante questi presupposti negativi, i quattro paesi che partecipano ai negoziati non intendono lasciarsi sfuggire l'occasione per tenere in vita la speranza della risoluzione del problema, anche in forza delle sempre più difficili condizioni interne della Corea del Sud, dove la popolazione continua a patire le gravi condizioni economiche. Uno sblocco delle trattative potrebbe dirottare i fondi per la ricerca nucleare verso il miglioramento delle condizioni di vita dei nordcoreani, anche se questa opzione è ritenuta remota dagli stessi negoziatori.
L'attivismo degli USA, che con Hillary Clinton ha trattato il tema con i più alti vertici cinesi, dimostra quanto Washington tenga alla risoluzione della vicenda, ponendo come condizione per la ripresa formale dei negoziati, il miglioramento delle relazioni tra le due nazioni della penisola coreana. In special modo a Pyongyang viene chiesto un cambio nel comportamento verso Seul e la fine delle provocazioni, come il bombardamento del territorio e l'affondamento della corvetta sud coreana avvenute nel 2010, quando, in seguito a questi fatti, si è più volte sfiorato il conflitto armato. Quello a cui mirano gli USA è una distensione a tutti gli effetti, che possa favorire il dialogo verso una definizione positiva, per la quale sono ritenuti essenziali presupposti chiari e lineari. Non è, purtroppo ancora così: la Corea del Nord starebbe preparando manovre militari, proprio nella zona calda del Mar Giallo ed inoltre è stato scoperto un sito per l'arricchimento dell'uranio, tuttavia per usi pacifici. Va anche ricordato che il regime di Pyongyang dal 2009 impedisce agli ispettori dell'AIEA di effettuare sopralluoghi ai siti nucleari. Nonostante questi presupposti negativi, i quattro paesi che partecipano ai negoziati non intendono lasciarsi sfuggire l'occasione per tenere in vita la speranza della risoluzione del problema, anche in forza delle sempre più difficili condizioni interne della Corea del Sud, dove la popolazione continua a patire le gravi condizioni economiche. Uno sblocco delle trattative potrebbe dirottare i fondi per la ricerca nucleare verso il miglioramento delle condizioni di vita dei nordcoreani, anche se questa opzione è ritenuta remota dagli stessi negoziatori.
mercoledì 27 luglio 2011
Tendenze attuali e possibili sviluppi dell'economia tedesca nella UE
La rigidità della Germania nei confronti dei paesi in difficoltà della zona euro, non è soltanto dettata dalla previdenza per il corso futuro dell'economia europea. In realtà uno dei fattori che concorrono a questa politica è dato anche dallo sviluppo dell'economia tedesca, che sta spostando sempre di più il baricentro lontano dal continente europeo. Per ora il fenomeno è in crescita, ma non rappresenta ancora l'aspetto maggioritario dell'andamento e la zona euro rappresenta ancora il mercato centrale per Berlino. Ma i dati indicano che in futuro questa centralità potrebbe cambiare, portando la Germania a concentrarsi in maggior misura oltre i confini europei. La tendenza è confermata dagli investimenti che la locomotiva europea, che ha ripreso a viaggiare in modo sostenuto, sta effettuando nei paesi che ritiene più stategici: Russia, Cina, India e Brasile, a discapito di Italia, Francia e Regno Unito. Anche politicamente non manca il sostegno di Angela Merkel, che è impegnata costantemente in prima persona a rappresentare gli sforzi del governo a favore dell'economia tedesca, sia in patria che all'estero. Quello che la Germania sta facendo è prepararsi al futuro, per superare la stagnazione dei mercati maturi per aggredire le opportunità offerte dai paesi in via di sviluppo. Se questa tendenza dovesse confermarsi si aprirebbero scenari futuri pieni di incognite sia per l'Unione Europea che, in misura maggiore la moneta unica. Pensare ad una UE senza la Germania appare poco probabile, il paese è sempre stato europeista convinto, tuttavia i travagli dell'euro hanno generato dubbi molto forti sulla convenienza della moneta unica. D'altro canto, oramai, pensare ad una forma di unione politica senza l'euro appare sostanzialmente difficile. Prima o poi il problema dovrà porsi, la Germania avrà sempre più potere economico per pretendere di avere sempre più peso nelle scelte economiche dell'Unione, a quel punto la suscettibilità di Francia e Gran Bretagna sarà senz'altro colpita e si può ragionevolmente prevedere che il processo decisionale avrà delle battute d'arresto. Spetta agli eurocrati prevenire questo intoppo, che come risoluzione presenta uno spettro di possibiltà negative che vanno dalla tutela tedesca su tutta l'economia della UE, fino ad una non augurabile uscita della Germania. Gli antidoti a queste possibilità sono una crescita, se non uniforme a quella tedesca, almeno sufficientemente grande per arrivare al tavolo delle trattative con argomenti che possano smorzare il potere tedesco; è una eventualità di difficile attuazione in questo momento economico, anche perchè l'industria europea, con tutti i distinguo del caso, non sta attuando la politica finanziaria e di marketing che può permettersi Berlino. Quale futuro allora? Appare più facile raggiungere intese sulla politica comunitaria e su aspetti quali la politica estera e la difesa che sugli aspetti economici, che saranno il vero nodo futuro sul quale si giocherà l'aggregazione europea. Se la Germania continuerà ad essere il motore economico europeo, sarà necessità di tutti gli stati membri che essa resti all'interno del recinto dell'Unione, cedendo quote di sovranità per quanto riguarda il governo dell'economia; stante così le cose il processo è irreversibile ed irrefrenabile, l'economia e la finanza della UE saranno affare tedesco, per gli altri membri si tratterà o meno di adeguarsi.
Xenofobia: Nord Europa sotto scacco
La tragedia di Oslo non ha colpito soltanto la Norvegia, improvvisamente si è destato il sentimento di paura in tutti i paesi nordici. Cultura e costumi simili, basati sulla tolleranza e su leggi ritenute avanzate si scontrano con il successo, comune a tutto il nord Europa dei gruppi dell'estrema destra, che incentrano la loro politica sull'esaltazione dei presunti valori cristiani, sono profondamente contrari all'immigrazione ed identificano il loro nemico principale nell'islam, visto come invasore ed inquinatore della cultura nazionale. Il fenomeno ha sviluppato caratteristiche simili in tutta la fascia dei paesi scandinavi, dove si è verificato il successo elettorale delle formazioni xenofobe. Ma la facilità con la quale l'attentatore di Oslo ha portato a compimento il suo piano, ha posto delle pesanti riflessioni, sia politiche, sia legislative che organizzative agli apparati statali del nord Europa. Il pericolo concreto di una legge lassista è diventato realtà in Danimarca, l'apertura tradizionale verso gli immigrati si è rivelata un boomerang per gli stessi cittadini danesi, vittime dell'avversione alla stessa legge che pareva preservarli, grazie a politiche di integrazione, dai fenomeni migratori distorti. Soltanto che la legge non ha previsto la falla creata all'interno del sistema. E' questo il grosso errore delle democrazie nordiche, non avere prefigurato che la corrosione partisse dall'interno del sistema. Nell'immediato si correrà ai ripari con norme tampone, come la regolamentazione della vendita dei fertilizzanti chimici, da cui ricavare facilmente ordigni potenti, ma la sensazione è di estremo spaesamento in tutta l'area nordica. La paura di una ripetizione di Oslo sembra avere paralizzato gli stessi apparati statali, inconsapevoli di sedere su di un potenziale esplosivo enorme. D'altronde la difficoltà di intervenire con normative più organiche è data dal fatto che in molte compagini governative sono presenti le stesse organizzazioni di estrema destra, che ostacolano materialmente il processo legislativo quando ravvisano aperture, secondo loro, lesive dell'identità nazionale. Il rischio è di una spaccatura insanabile all'interno delle società scandinave, che pare già avviata. La radicalizzazione delle posizioni di estrema destra, connotate dalla forte xenofobia appare incociliabile con il resto della società, tuttavia il clima di terrore, strategia comune nell'estrema destra di tutto il mondo, potrebbe generare nuovi e pericolosi equilibri.
martedì 26 luglio 2011
La xenofobia sintomo dell'occidente
L'attentao di Oslo e' solo l'ultima avvisaglia del pericolo xenofobia che mette a repentaglio l'intero globo. Stiamo vivendo in una epoca sempre piu' contrassegnata dallo sviluppo, a vari stadi, dall'esasperazione dei conflitti relativi alle differenze. Ci sono tante cause dietro questa situazione esplosa essenzialmente per ragioni economiche, ma che dietro ha un accumulo di tensioni, troppo sottovalutate. Fin che è stato valido l'equilibrio del terrore, basato sulla contrapposizione dei due blocchi est-ovest, detentori della forza atomica, tensioni di questo genere sono state soffocate da altri tipi di tensioni, prime fra tutte quelle politiche. Sono passati pochi anni, ma in realtà politicamente e socialmente è come se fosse trascorsa un'era geologica. Assetti ed equilibri ben definiti non erano incrinati da potenze emergenti, perchè di fatto assenti, e la stessa vita diplomatica correva entro binari già definiti e tracciati. Il problema migratorio era spesso contenuto entro confini di norma segnati da accordi internazionali, la durezza delle condizioni di vita era mitigata da forme di tutela che, pur nella loro freddezza, cercavano di assicurare le minime garanzie. Non che il razzismo e la xenofobia erano assenti, ma non erano certo organizzate in partiti, e meno che mai al governo. Uno degli effetti della caduta del muro di Berlino, poco indagato dagli specialisti è stata la relazione tra questo fatto ed il crollo dei partiti politici tradizionali, che con tutti i loro difetti, assicuravano un controllo nei confronti di eventuali sbandamenti dei loro iscritti, mantenendo anche un potere di indirizzo sui loro elettori. Anche dal punto di vista degli ordinamenti statali si è fatto ben poco per prevenire lo scenario attuale, senza intuire la portata degli effetti che poteva avere la sottovalutazione e la successiva mancata regolamentazione del fenomeno. In altre parole non si è dotata la società degli anticorpi necessari, mediante leggi e sufficienti ammortizzatori sociali, cioè un mix di misure di tipo politico e pratico, per prevenire la deriva verso una frammentazione sociale basata su territorio, religione ed in molti casi censo. L'assenza di norme, agli albori dei fenomeni migratori, che sapessero regolamentare gli accessi e l'integrazione ha poi rotto definitivamente il piccolo diaframma che collegava i nascenti movimenti localistici alla società nazionale. L'affermazione di questi movimenti, che si incentrano sul rifiuto dell'integrazione e del diverso, ha spesso inglobato elementi culturali estremi, giustificanti visioni di razzismo e xenofobia, molto pericolosi dal punto di vista sociale. Quello accaduto ad Oslo è sicuramente una delle punte massime che possano accadere, ma sottovalutarne l'impatto ed anche la possibile emulazione sarebbe da incoscenti. Oltre all'innalzamento dei dispositivi di polizia, occorre produrre una radicale conversione delle coscenze attraverso tutti le possibili strade, trascurate fino ad ora. E' ormai improcrastinabile una azione degli enti nazionali e sovranazionali che regolino con normative ad hoc e programmi di sostegno adeguati che determino la scomparsa, o almeno l'attenuazione delle cause della proliferazione dei fenomeni che costituiscono l'incubazione della xenofobia.
India e Pakistan riprendono i negoziati di pace
Sostenuti dalla spinta degli USA, l'India ed il Pakistan riprendono i colloqui di pace. L'interesse americano è motivato dalla necessità di una pace che dia stabilità alla regione, che permetta in sostanza di contare su due paesi alleati a Washington, ma anche in uno stato di buoni rapporti duraturo tra di loro. La particolarità della ripresa delle trattative è che saranno condotte da due donne: Nirupama Rao per l'India e la nuova ministro degli esteri pakistana, Hina Rabbani Khar, di 34 anni, recentemente nominata e prima donna a ricoprire la carica nel Pakistan. I due paesi, tradizionalmente avversari, detengono entrambi l'arma atomica e questo aspetto è una ulteriore causa di preoccupazione non solo per gli USA, ma per il mondo intero e che pone con ancora maggiore urgenza l'esplicazione del processo di pace. Le richieste che l'India inoltra con maggiore pressione sono la lotta al terrorismo, per evitare sconfinamenti ed azioni con tro il proprio territorio. Una richiesta che accomuna il paese indiano con gli USA, il cui livello di scontro con il Pakistan, proprio su questo argomento è recentemente salito, fino ai livelli di guardia. Importante anche la questione del Cachemire, territorio diviso tra i due paesi, spesso fonte di scontri. La via intrapresa per superare gli ostacoli e le diverse visioni tra i due paesi, oltre al dialogo è costituita da uno scambio commerciale sempre più da incrementare. Diversi opinionisti ritengono che i colloqui potranno avere uno sviluppo positivo, sia per la spinta americana, che per la necessità di entrambi i paesi di trovare una stabilità con il vicino, che metta fine ad annosi contrasti.
lunedì 25 luglio 2011
India e Corea del Sud sempre più legate
Seul e Nuova Delhi firmano un accordo che apre all'esportazione della tecnologia per la produzionedi energia atomica, dalla Corea del Sud verso l'India. L'economia indiana sta correndo veloce ed il bisogno di energia è sempre maggiore, al momento sono già 20 i reattori nucleari in funzione ed altri sei sono in costruzione ma il know-how ha costantemente bisogno di tecnologia. L'incidente giapponese non ha apportato cambiamenti alle convinzioni indiane sull'utilizzo dell'energia nucleare ritenuta indispensabile per sostenere lo sviluppo dell'economia. L'accordo riveste anche una valenza geopolitica, infatti l'India è uno dei principali avversari dell'economia cinese, mentre la Corea del Sud non attraversa una fase di buoni rapporti con la Corea del Nord, che come unico alleato annovera proprio la Cina. Questa alleanza va, quindi, contro Pechino e crea un asse tecnologico importante nella regione rinforzando i contatti già allacciati nei settori della sicurezza e della difesa. Tra i due paesi è già in vigore un trattato per il libero scambio commerciale dal passato gennaio, ed i due governi stanno per chiudere altri importanti accordi riguardanti l'aviazione ed il trasporto marittimo rinforzando il legame ormai saldamente instaurato.
La Cina alla conquista della Grecia
La crisi greca apre opportunità nuove per chi, come la Cina, dispone di una elevata liquidità. Per rientrare del forte debito saranno diversi i settori che dovranno essere privatizzati. Le opportunità commerciali riguarderanno i settori dell'energia, dei trasporti e dei servizi essenziali. La Cina è già presente con sue imprese sul territorio di Atene ed ha espresso felicitazioni per il secondo salvataggio, operato dalle istituzioni europee, manifestando interesse ad entrare sempre di più nel mercato greco, grazie ad un piano di grandi investimenti nei settori pubblici che saranno privatizzati. Particolare attenzione al settore portuale, dove la Cina ha già investito somme ingenti e che nel proprio programma vuole portare il porto del Pireo al primo posto per movimentazione container. La politica di espansione commerciale cinese sta puntando sempre più verso l'Europa, considerato ancora un mercato appetibile, nonostante sia giudicato da molti un mercato saturo. Il gigante cinese non può perdere alcuna opportunità per dare sfogo alla propria produzione, che sta crescendo a ritmi sempre elevati. L'insufficienza del mercato interno e la mancata crescita di alcune zone individuate come in espansione, ma non abbastanza, determina comunque la necessità di investire in altri mercati. La mossa di acquisire il porto greco del Pireo significa la reale intenzione di creare una base per aumentare le esportazioni verso l'europa, considerarata, comunque, un mercato affidabile.
sabato 23 luglio 2011
La vicenda del debito USA ed una provocazione
Il dibattito intorno al debito pubblico americano è in realtà lo scontro tra due visioni di amministrare lo stato. La vittoria elettorale di Obama è arrivata grazie ad un programma imperniato sulla spesa pubblica orientata, in special modo, verso il welfare. Si è trattato della ricerca di un cambio della mentalità nel sistema americano, spostando ingenti voci del capitolo di bilancio verso aspetti prima tradizionalmente trascurati. L'aumento del volume di spesa, giunto alla difficile congiuntura economica, ha messo in grossa difficoltà le casse degli Stati Uniti ed Obama si è trovato a dovere gestire un programma non realizzato del tutto. A questo si può ascrivere, almeno in parte, il successo nelle elezioni di medio periodo del Partito Repubblicano, che, notoriamente, ha una minore propensione alla spesa statale , sopratutto nei confronti dell'ambito sociale. Questo dibattito, che ha assunto anche toni drammatici, se non dovesse arrivare ad una soluzione condivisa, potrebbe portare l'intera economia ad una crisi difficilmente superabile. Le proposta di Obama riguarda il taglio di alcuni programmi sociali che prevedevano una spesa ingente, tuttavia a copertura della sforbiciata, il presidente richiede un aumento delle tasse per rilanciare, almeno in parte il proprio programma elettorale. Obama ha già fatto con questa proposta un passo per andare incontro alla controparte, ma l'argomento delle tasse costituisce un tabù per la dirigenza repubblicana, che non si mostra intenzionata ad arretrare. Il vero nodo è il debito pubblico, il solo taglio della spesa pubblica non basta a diminuirlo considerevolmente, senza nuove entrate la bilancia non si muove abbastanza. Con questa situazione di stallo il pericolo di fallimento è sempre più dietro l'angolo. Alla fine ragioni puramente elettorali interne agli Stati Uniti, possono decretare un effetto domino sconvolgente per tutto il mondo. A peggiorare le cose l'appuntamento elettorale del 2012, che rischia di irrigidire ancora di più le rispettive posizioni grazie al timore di vedere eroso il capitale di voti per ciascun schieramento, che potrebbe assotigliarsi in caso uno o entrambi i contendenti cedessero troppo terreno rispetto alle posizioni di partenza. In questa situazione pensare ad una mediazione anche esterna sarebbe una ingerenza nella politica interna di uno stato? Dato l'alto tasso di globalizzazione, di cui gli USA sono sempre stati fautori, autorizza a pensare che, anche data la grandezza della potenziale ricaduta sul sistema economico globale, un eventuale intervento esterno, che potrebbe andare dalla semplice mediazione tra le parti fino ad una messa sotto tutela della politica finanziaria statunitense, non sia poi una idea così peregrina. L'evenienza potrebbe sembrare fantapolitica, ma si prenda, con le debite differenze, il caso greco o anche, sconfinando in altri campi, l'esportazione delle democrazia e non si può non ammettere che le analogie non siano presenti. E' chiaro che questa provocazione ha delle implicazioni fondamentali perchè in un caso simile gli USA abdicherebbero al proprio ruolo di prima potenza mondiale, portato avanti, peraltro, ultimamente con grande fatica. Del resto il solo pensare a questa possibilità è già qualcosa di epocale.
L'attentato di Oslo e la xenofobia europea
Il tragico attentato di Oslo è lo specchio dei problemi europei. Un paese al di sopra della media, in buona situazione economica ma alle prese con il problema dell'integrazione e della crescita della destra xenofoba. La Norvegia conta circa quattro milioni di abitanti, con la presenza di circa 150.000 musulmani, nonostante l'ottimo sistema di welfare presente, le tensioni alimentate dalla crescita dei movimenti anti immigrati hanno provocato una spaccatura all'interno del tessuto sociale. Infatti la prima attribuzione a terrorismo di matrice islamica pare naufragata a vantaggio di dinamiche interne al paese. Nonostante la situazione permanga ancora poco chiara, i motivi che sono stati elaborati a sostegno della prima tesi sono stati frutto di una visione stereotipata dell'attacco terroristico. Non che non fosse o sia possibile, ma le ragioni addotte sono parse da subito deboli. La presenza di 400 soldati norvegesi in Afghanistan o le vignette su Maometto, ragionevolmente non sembravano sufficienti a scatenare questa tragedia. La psicosi dell'attentato integralista, si è ormai impadronita della pubblica opinione, tanto da essere immediatamente tirata in causa nel caso di accadimenti di questa portata. Nei momenti immediatamente successivi all'attentato sono fiorite analisi avventate e precipitose, che non possono avere favorito una disanima fredda e ragionata dei fatti. Pur essendo ancora nell'ambito delle ipotesi, alla fine la maggiore probabilità sembra da imputarsi, appunto a dinamiche interne del paese, nell'ambito di una dialettica deteriorata, dove i capi dei gruppi di estrema destra sono stati i cattivi maestri, senza avere neppure la scusa di una situazione economica difficile. Ecco il punto dolente per l'Europa, l'affermazione di idee xenofobe, anche in società senza apparenti problemi, costituisce ormai l'allarme, non solo sociale ma sopratutto politico, che rappresenta uno degli ostacoli maggiori per l'integrazione del vecchio continente. La visione della pubblica opinione, anche di chi non condivide la xenofobia, risulta condizionata da una dicotomia nord-sud difficilmente superabile senza azioni dell'istituzione centrale. Questo caso tragico deve rappresentare uno stimolo per sviluppare gli anticorpi alla visione, sempre più imperante, anti integrazione e costituire la base di partenza per un maggiore spirito unificatore.
venerdì 22 luglio 2011
Il punto sul conflitto libico
L'evoluzione del conflitto libico pare sempre più caotica e della conclusione non si può ancora intravedere la fine. Quello che doveva essere un conflitto veloce e di facile soluzione sta diventando sempre più una guerra di posizione ed un pasticcio diplomatico. Gli ultimi avvenimenti vedono impegnata la Russia, che cerca di portare il proprio contributo dal punto di vista diplomatico, ma che ingarbuglia ancora di più la questione. Mosca, fedele alla propria dottrina di neutralità, continua a condannare l'appoggio ed il riconoscimento ufficiale ai ribelli di Bengasi, proprio perchè nell'ambito di una guerra civile, l'occidente ed anche alcuni paesi arabi, hanno preferito una sola parte. Le ragioni di Mosca possono avere una qualche giustificazione, se si pensa che la risoluzione dell'ONU, prevedeva esclusivamente l'uso delle forza aerea per tutelare i civili. L'andamento del conflitto ha poi smentito questa direzione, con la Francia ed il Regno Unito come porta bandiera contro Gheddafi. Della difficoltà di stanare il colonnello i volenterosi erano consci, sopratutto l'Italia, che ha cercato, muovendosi sotto traccia, di trovare per il Rais di Tripoli una soluzione alternativa. Dai contatti con la Lega Africana si era anche prospettato un esilio dorato in un paese che aveva beneficiato dei contributi di Gheddafi, ad esempio era stata individuata l'Uganda. La volontà del colonnello si è sempre dimostrata contraria a questa soluzione e di fatto Tripoli non è mai caduta. La Francia, forse stanca del conflitto, ha ora tentato una via d'uscita, che smentisce tutto l'atteggiamento fino ad ora tenuto. La soluzione francese propone a Gheddafi di restare in Libia, ma al di fuori della politica. E' una evenienza impercorribile, che rivela l'affanno della diplomazia francese. Come conciliare la permanenza di Gheddafi in un paese passato, anche, magari, con elezioni, ai più ferrei oppositori del colonnello, sul quale, tra l'altro, grava anche un mandato di cattura da parte del Tribunale de L'Aja? Più soft ma sostanzialmente nella stessa direzione la posizione USA, che afferma che soltanto il popolo libico può decidere sulla permanenza di Gheddafi. Quello che appare è che dopo tanti tentativi i volenterosi si sono resi conto della difficoltà di stanare il Rais e quindi lasciano la patata bollente alla Libia stessa. Se il conflitto dovesse finire senza una soluzione definitiva, per le potenze occidentali sarebbe una figura pessima: una dimostrazione plateale delle loro incapacità militari e diplomatiche.
La crisi somala e la necesità della riforma dell'ONU
I ribelli somali, affiliati ad Al Qaeda, non gradiscono gli aiuti umanitari, ed anzi, avrebbero anche affermato che la situazione presente nel paese riguarda solo la siccità ma non la carestia. L'ONU è incolpata di dire il falso per potere giustificare il tentativo di entrare nelle zone occupate dai ribelli islamici. La reazione è dovuta alla organizzazione del ponte aereo da parte del PAM (Programma Alimentare Mondiale), agenzia specializzata dell'ONU, per rifornire Mogadiscio di generi alimentari e medici. Di fatto, alla siccità, si aggiunge il terrorismo, come causa della carestia e della denutrizione. Se gli operatori dell'ONU, venissero attaccati, mentre cercano di porre riparo alle gravi condizioni del popolo somalo, si aprirebbero le condizioni per un intervento armato, coperto sotto l'ombrello delle Nazioni Unite. In verità già la minaccia degli estremisti, noti per la loro rigidità religiosa, pone le basi per pensare ad un intervento umanitario sostenuto e protetto da forze armate. Per l'occidente sarebbe l'occasione di dimostrare le buone intenzioni anche in paesi senza giacimenti di materie prime rilevanti. Ancora una volta la centralità della questione passa attraverso la lunga burocrazie e le estenuanti trattative ONU, ed ancora una volta la mancanza di mezzi agili e procedure veloci, impediscono soluzioni efficaci. La cronaca propone sempre di più esempi che chiariscono come sia necessaria una riforma urgente delle Nazioni Unite, che comprenda una propria forza militare e propri dicasteri capaci di eleborazione ed intervento diretto. Non è l'utopia del governo mondiale ma la necessità, sempre maggiore, di operare in un teatro globale che richiede soluzioni rapide a cambiamenti veloci. Gli attori che si muovono su questo palcoscenico hanno tempi ridotti di manovra, il caso somalo e più in generale del Corno d'Africa costituiscono esempi esaustivi. La comunità internazionale non può concedere ad un gruppo terroristico la facoltà di vita o di morte su di un popolo intero, altrimenti vanifica altri interventi, che seppure possono essere inquadrati in una logica meritoria di soccorso, sono messi in dubbio da atteggiamenti successivi, che inficiano quelli precedenti. In questo quadro la coordinazione ed anche il comando dell'ONU, deve essere più fattivo e determinante senza più indugi.
giovedì 21 luglio 2011
L'emergenza del Corno d'Africa e le reponsabilità occidentali
L'emergenza del Corno d'Africa si aggrava giorno per giorno. La catastrofe annunciata dai metereologi è stata sottovalutata dalle uniche organizzazioni che potevano dare un assetto organizzativo per prevenire la crisi: l'ONU e le altre ONG deputate al compito. Si è dato così sfogo ad una migrazione di proporzione biblica nella quasi totale indifferenza del mondo, occupato a scegliere dove mettere i propri cannoni, quale guerra era più conveniente fare. L'ONU ha più volte accampato la scusa della guerra in corso in Somalia, che effettivamente rappresenta uno scoglio di grosse proporzioni, ma l'intervento di una forza di pace, per permettere agli operatori umanitari di svolgere il loro compito non è mai stata presa in considerazione. Ancora una volta il mondo occidentale parla a vanvera di cooperazione, sviluppo e tralascia la messa in pratica di propositi che servono solo a riempire le tasche di funzionari ben pagati, che elaborano faraonici progetti che restano sulla carta. Nazioni in grossa difficoltà economica, come il Kenya, sono costretti ad ospitare campi profughi giganteschi, senza avere la forza di gestirli. Popoli interi dediti esclusivamente alla pastorizia migrano da un punto all'altro di pianure sconfinate alla ricerca di fonti d'acqua prosciugate. Il livello di denutrizione e di prostrazione non impedisce loro di dare vita a duri contrasti per il bene più prezioso: l'acqua. Ma è un circolo vizioso, senza acqua gli animali muoiono e dopo di loro gli uomini. L'aumento delle materie prime incide anche in queste società arcaiche, la difficoltà di coltivare il grano, l'alimento base, spinge anche i coltivatori a mettersi in marcia, contribuendo ad ingrossare la massa dei disperati per fame. Sembra che l'orologio della storia si muova all'indietro, nessun progresso tecnico e scientifico, per questi popoli ha cambiato il loro destino, nel terzo millennio morire ancora di fame è un interrogativo su cui gli storici avranno da scrivere montagne di libri. Ma è impossibile non vedere il colpevole che sta dietro a questa tragedia: ancora una volta la parte ricca del mondo non ha saputo razionalizzare le risorse, anche nel proprio interesse, limitandosi a trincerarsi dietro gli steccati delle frontiere dei propri confini. Tra poco non basteranno più le leggi restrittive per proteggerli dalla pressione dei disperati per fame, l'emergenza diventerà anche fatto politico perchè arriverà dentro ai confini del mondo ricco; ma per ora bisogna interrogarsi, ancora una volta, sugli scopi e la reale legittimità in vita delle ONG. Senza una riforma radicale, esse costituiscono un orpello che l'intero mondo non può più permettersi.
mercoledì 20 luglio 2011
Una donna ministro degli esteri in Pakistan
La carica di ministro degli esteri del Pakistan, vacante da febbraio, e’ stata, per la prima volta, ad una donna: Hina Khar Rabbani, che con i suoi 34 anni risulta essere anche il ministro piu’ giovane della compagine governativa. La nuova ministro succede a Shah Mehmud Qureshi ed e’ ritenuta una persona capace con profonda conoscenza delle problematiche diplomatiche inerenti al proprio paese. L’incarico governativo e’ gia’ iniziato con il viaggio in Indonesia per la partecipazione al vertice dell’Associazione del Sed Est Asiatico, dove incontrera’, tra gli altri, il ministro degli esteri cinese Yang Jechi ed anche Hillary Clinton. Sull’agenda degli appuntamenti futuri della nuova titolare del dicastero degli esteri pakistano, ci sono temi cruciali per l’interesse dell’intero panorama internazionale. Il tema piu’ scottante costituisce la normalizzazione dei rapporti con gli USA, deterioratisi dopo l’operazione avvenuta in territorio pakistano che ha portato alla morte di Bin Laden. L’episodio costituisce, comunque la punta dell’iceberg dei difficili rapporti con gli Stati Uniti, che hanno piu’ volte rilevato il doppio gioco dell’apparato pakistano, sopratutto da parte dei servizi segreti. Gli USA ritengono ancora recuperabile il rapporto con i pakistani, anche perche’ ne hanno ancora esigenza come alleati nella lotta contro i talebani di stanza al confine afghano. Un altro tema importante che il nuovo ministro dovra’ affrontare e’ costituito dalla trattativa con l’India, storico nemico pakistano per lasciare definitivamente lo stato di tensione permanente tra i due stati. I colloqui sono previsti per il 26 luglio a Nuova Delhi.
martedì 19 luglio 2011
Gli USA vogliono la pace tra Turchia ed Israele
Gli USA spingono per una pacificazione nei rapporti tra Israele e Turchia. Considerati fondamentali nello scacchiere mediorientale i due paesi, hanno rotto le relazioni diplomatiche, dopo gli incidenti creati dai militari israeliani nei confronti dei pacifisti turchi, che intendevano forzare il blocco navale della striscia di Gaza, per portare aiuti umanitari al popolo palestinese. Dopo questo episodio, giunto al rifiuto alla Turchia, da parte di Bruxelles, per entrare a far parte dell'Unione Europea, l'Ankara si è ritagliata un proprio spazio da protagonista nell'area mediorientale, sia dal punto di vista politico che economico, diventando il paese di riferimento della regione. Pur restando un fedele alleato americano, la Turchia ha allacciato accordi commerciali con l'Iran e la Siria, ed ha intrapreso iniziative di peso politico nell'area ed anche oltre, come ha dimostrato l'attivismo nell'occasione della guerra libica. Si può dire, senza ombra di dubbio, che la Turchia è sfuggita dall'ombrello americano, denunciando una crescente personalità ed iniziativa. Nello scacchiere regionale la mancata pacificazione dei rapporti, prima buoni, tra i due paesi, rappresenta un evidente ostacolo nei piani americani, sopratutto in questa fase storica. Tel Aviv è sottoposto sostanzialmente ad un accerchiamento, per ora non pericoloso, ma comunque tale da tenere sotto pressione l'apparato israeliano, già in apprensione per gli sviluppi della primavera araba. Con Hezbollah alla guida del Libano e la Siria in subbuglio, di fatto l'unica frontiera tranquilla è quella con la Giordania. Gli USA hanno tutto l'interesse a normalizzare le relazioni tra i due paesi, perchè ritengono indispensabili le basi turche, in caso di peggioramento della situazione per Israele. Il diniego all'utilizzo da parte turca causerebbe enormi problemi logistici alle truppe americane, nel peggior caso previsto: l'attacco iraniano ad Israele. L'ipotesi è certo remota, perchè una guerra del genere riguarderebbe un coinvolgimento più ampio di paesi, tuttavia è contemplata sia dagli strateghi americani che da quelli israeliani; ma per i primi è fondamentale l'appoggio turco. E' proprio per questo che i diplomatici USA, stanno cercando tutte le vie possibili per cercare la pace tra le due nazioni.
Cina: il problema del separatismo etnico
Duri scontri nella regione autonoma dello Xinjiang, nell' estremo ovest cinese, tra le forze dell'ordine e gli indipendentisti Uiguri. Sono stati assaltati edifici governativi e la repressione della polizia è stata pesante, si contano diversi morti tra i dimostranti. Il problema delle minoranze etniche nell'impero cinese, torna così alla ribalta, nella gestione dei fenomeni di opposizione all'interno dell'impero cinese. Gli Uiguri, etnia turcofona di religione islamica, patiscono la politica che Pechino usa applicare alle minoranze etniche, quando queste sono maggioranza nella regione di appartenenza. Per la Cina, la massiccia coesione etnica rappresenta una impermeabilità alla penetrazione dell'apparato statale e di conseguenza costituisce un fattore di minore controllo. La strategia cinese, per affrontare questi problemi non è la valorizzazione delle specificità all'interno dell'ambito statale, ma la diluizione della concentrazione etnica, mediante robuste iniezioni di immigrazione di popolazione cinese di etnia differente. L'applicazione di questo schema prosegue con l'indebolimento della cultura etnica, la restrizione della libertà religiosa e sopratutto, l'impoverimento della regione, con lo sfruttamento delle risorse spostato verso l'immigrazione cinese. Questo modo di combattere le minoranze provoca sempre più sollevazioni contro l'autorità centrale, rappresentata dagli uffici periferici presenti sul territorio. Nel caso specifico siamo di fronte non ad una nuova sollevazione, causata anche dagli effetti di quella del 2009, conclusa con la sparizione di diverse persone, di cui i parenti non hanno più avuto notizie. Per Pechino la versione riguarda invece atti terroristici da addebitare agli indipendentisti uiguri, che cercano di staccare il territorio della Repubblica Popolare Cinese per formare lo stato indipendente del Turkmenistan orientale. Il separatismo uiguro costituisce un pericolo per l'integrità dello stato e rischia di provocare sollevazioni a catena, per emulazione, in altre zone del paese con problemi analoghi. Questo provoca l'inasprimento della repressione cinese con continua violazione dei diritti umani, difficilmente dimostrabile perchè le zone vengono interdette alla stampa libera. La questione rappresenta comunque una ulteriore spia del disagio presente in Cina, sempre più schiacciata tra industrializzazione estrema e mancanza dei diritti sociali, sperequazione economica spinta e tensioni localistiche.
lunedì 18 luglio 2011
Il confine marino nuovo fronte tra Libano ed Israele
Un nuovo motivo di potenziale conflitto grava su Libano ed Israele. La possibile presenza di giacimenti di idrocarburi sul confine delle acque territoriali dei due stati rischia di trasformarsi in ulteriore motivo di attrito. La differenza, in definitiva è minima, si tratta di circa 17 chilometri, su cui si gioca il confine della zona economica esclusiva che corre tra le due nazioni, quella zona, cioè, il cui sfruttamento è appannaggio dello stato titolare, come avviene per le miniere sulla terra ferma. Tutto parte dall'armistizio del 1949, che fissava un limite tripartito delle acque tra gli stati di Cipro, Israele e Libano. Successivamente Israele ha concordato un nuovo accordo con Cipro, ratificato dal parlamento israeliano nel 2010, che sposta il punto del confine delle acque dei due stati, spostato proprio dei 17 chilometri in questione. Il Libano, da parte sua, non ha mai ratificato il confine fissato nel 1949, a causa delle pressioni turche, dovute all'annosa guerra con Nicosia. L'errore libanese ha indotto Israele a superare i confini marini fissati, appunto, nel 1949. Il Libano, firmatario della convenzione dei diritti del mare, al contrario di Israele, ha cercato di appellarsi alle Nazioni Unite e quindi al Tribunale dei conflitti del mare, ma tecnicamente la soluzione è impossibile, perchè non è permesso dirimere una controversia tra due stati che non si riconoscono reciprocamente. A questa fase di stallo hanno fatto seguito le minacce: Hezbollah, al governo in Libano, ha promesso da subito di difendere con le armi l'integrità dello stato libanese, per contro, Israele ha accusato il gruppo estremista al governo ed il suo principale alleato, l'Iran, di utilizzare queste ragioni con scopi del tutto secondari, per fomentare, cioè, l'ostilità anti israeliana. Dietro tutto questo, la fame di energia di entrambi gli stati, che ha scoperto questo nuovo fronte, su di un tratto di mare finora ignorato.
L'Iran invade l'Iraq per combattere i curdi
Reparti dei Pasdaran, i militari più orientati all'estremismo radicale islamico della repubblica teocratica iraniana, hanno passato il confine con l'Iraq per reprimere le azioni del PJAK partito curdo in lotta per la liberazione del Kurdistan. Il PJAK fa partire le sue azioni, terroristiche per l'Iran, contro Teheran da basi situate in territorio iraqeno al confine con la regione del Sardasht, situata nel nord ovest iraniano. Gli scontri hanno portato il controllo delle basi curde sotto la tutela dei Pasdaran, che hanno attaccato in forze. L'azione militare iraniana è una palese violazione del diritto internazionale, essendo compiuta sul territorio di un altro stato sovrano, e costituisce un pericoloso precedente nelle relazioni tra i due stati, da quando l'Iraq non è più preda della dittatura di Saddam Hussein. La presenza di militari americani sul suolo iraqeno, come alleati del governo in carica, rende la situazione ancora più esplosiva. I rapporti tra forze USA e curdi, pur non essendoci ufficialità, sono buoni dalla guerra contro Saddam, quando l'appoggio dato dai guerriglieri curdi, per la conoscenza del territorio, ai militari statunitensi, fu decisivo per la vittoria di molte battaglie. L'azione repressiva iraniana non è chiaramente diretta contro le forze USA, ma è stata dettata dalla volontà di interrompere le incursioni sul proprio territorio, sempre più numerose, da parte dei curdi. Tuttavia la possibilità che si crei un incidente tra forze americane ed iraniane deve essere stata valutata dai Pasdaran, che non hanno esitato ad attaccare fuori dai loro confini. Se i militari iraniani manterranno la loro presenza nella regione, non sono esclusi atti di ritorsione da parte delle forze iraqene.
Dove va la politica estera cinese?
Quale è il programma della politica estera cinese? Le recenti mosse di Pechino, che pure mantiene come proprio cardine quello di non volere ingerire nella politica interna dei singoli stati, vedono una tessitura a trama fitta, fatta di una realtà di accordi commerciali sempre più stringenti, con paesi in difficili rapporti con l'occidente. Non può essere un caso che l'azione cinese vada ad insinuarsi in zone lasciate scoperte da embarghi e sospettate di vicinanza, se non di collusione con il terrorismo. Quello che sembra, a prima vista, è che l'azione cinese sia esclusivamente commerciale, sempre alla ricerca di nuovi mercati con ampie potenzialità; questo è certamente il primo passo con cui si muove il gigante di Pechino, tuttavia è impossibile non leggere un programma studiato con cura, per contendere agli Stati Uniti la supremazia mondiale. Certo la Cina attua una politica meno eclatante, si tiene fuori dai conflitti mondiali e non agisce da gendarme del mondo, ma la sua azione non vieta di immaginare, che in futuro, non possa e sopratutto voglia, ritagliarsi un ruolo alternativo a Washington. Le ampie potenzialità economiche e finanziarie conferiscono alla Cina una ampiezza di manovra molto rilevante nel panorama internazionale, per Pechino il salto di qualità nell'arena diplomatica deve diventare una mossa obbligata se intende assurgere al titolo di potenza mondiale globale, non solo economica. Dal punto di vista militare la Repubblica Popolare Cinese sta attuando una grande modernizzazione dei propri armamenti, dotandosi, tra l'altro di portaerei, per dare maggiore mobilità alle proprie truppe, realizzando così strumenti essenziali per agire su teatri al di fuori dei propri confini ed avendo quindi la potenzialità di agire ed interpretare un ruolo decisivo nei conflitti internazionali. Qualche dubbio è sollevato dal fatto delle sempre più stringenti relazioni con regimi di dubbia reputazione, ma d'altro canto, la Cina stessa non è un sistema democratico e non pare in difficoltà nelle relazioni con altre dittature. E' pur vero che nelle relazioni commerciali della Cina ci sono anche democrazie e non solo occidentali, ma quello che Pechino sta facendo è di rompere l'isolamento creato come sanzione per stati ritenuti pericolosi per la pace mondiale. La visione cinese appare non sintonizzata, non solo su quella occidentale, ma anche di organizzazioni sovranazionali come l'ONU. Quella che si può aprire è una nuova stagione delle relazioni internazionali, con il sovvertimento dei rapporti fin qui cristallizzati.
domenica 17 luglio 2011
Cina ed Iran partner commerciali
L'embargo all'Iran crea nuove alleanze commerciali. La Cina, infatti, ha stretto un accordo, che riguarda più materie e che alla fine riguarderà una somma di circa quattro miliardi di dollari. Di fatto, Pechino diventa il primo partner commerciale di Teheran. L'accordo firmato riguarda forniture per l'energia, le acque, l'ambiente (con la fornitura di inceneritori), le miniere e le materie prime energetiche. L'interscambio previsto dovrebbe ammontare a circa 40 miliardi di dollari alla fine del 2011, con una previsione di arrivare fino 100 miliardi di dollari nei prossimi anni. La Cina ha saputo sfruttare gli spazi creati dell'embargo internazionale a cui e' stato sottoposto l'Iran per la ricerca nucleare, di cui si sospetta voglia fare un uso militare. Ma la valenza degli accordi supera di gran lunga il rapporto commerciale, perche' rappresentano il chiaro superamento della visione che prevedeva la centralita' dell'occidente come fonte decisionale del processo politico internazionale. L'Iran dimostra chiaramente che essere messi al bando dall'ovest del mondo non preclude piu' altre strade di sviluppo e sopratutto non determina un isolamento politico ed economico. Dal canto suo la Cina, ormai immersa nel suo ruolo di grande potenza alternativa agli USA, dimostra di essere un soggetto ormai autonomo in politica internazionale, capace di prendere decisioni autonome, anche al di fuori di quella che e' la visione dominante. Per l'Iran gli accordi commerciali con la Cina, rappresentano una vittoria diplomatica, dato che rompono l'embargo e conferiscono a Teheran la forza di proseguire sulla sua strada della sperimentazione nucleare. Sara' interessante vedere come la Cina si porra' negli inevitabili sviluppi della guerra diplomatica che, inevitabilmente si andra' a sviluppare. Resta il fatto che Pechino e' consapevole di prendersi una grossa responsabilita' andando a violare l'embergo occidentale, se verra' presa una direzione pericolosa per gli sviluppi dell'atomica iraniana, la regione mediorientale rischia di diventare una polveriera per la pace e la stabilita' del mondo intero, difficilmente disinnescabile.
Cina ed Iran partner commerciali
L'embargo all'Iran crea nuove alleanze commerciali. La Cina, infatti, ha stretto un accordo, che riguarda più materie e che alla fine riguarderà una somma di circa quattro miliardi di dollari. Di fatto, Pechino diventa il primo partner commerciale di Teheran. L'accordo firmato riguarda forniture per l'energia, le acque, l'ambiente (con la fornitura di inceneritori), le miniere e le materie prime energetiche. L'interscambio previsto dovrebbe ammontare a circa 40 miliardi di dollari alla fine del 2011, con una previsione di arrivare fino 100 miliardi di dollari nei prossimi anni. La Cina ha saputo sfruttare gli spazi creati dell'embargo internazionale a cui e' stato sottoposto l'Iran per la ricerca nucleare, di cui si sospetta voglia fare un uso militare. Ma la valenza degli accordi supera di gran lunga il rapporto commerciale, perche' rappresentano il chiaro superamento della visione che prevedeva la centralita' dell'occidente come fonte decisionale del processo politico internazionale. L'Iran dimostra chiaramente che essere messi al bando dall'ovest del mondo non preclude piu' altre strade di sviluppo e sopratutto non determina un isolamento politico ed economico. Dal canto suo la Cina, ormai immersa nel suo ruolo di grande potenza alternativa agli USA, dimostra di essere un soggetto ormai autonomo in politica internazionale, capace di prendere decisioni autonome, anche al di fuori di quella che e' la visione dominante. Per l'Iran gli accordi commerciali con la Cina, rappresentano una vittoria diplomatica, dato che rompono l'embargo e conferiscono a Teheran la forza di proseguire sulla sua strada della sperimentazione nucleare. Sara' interessante vedere come la Cina si porra' negli inevitabili sviluppi della guerra diplomatica che, inevitabilmente si andra' a sviluppare. Resta il fatto che Pechino e' consapevole di prendersi una grossa responsabilita' andando a violare l'embergo occidentale, se verra' presa una direzione pericolosa per gli sviluppi dell'atomica iraniana, la regione mediorientale rischia di diventare una polveriera per la pace e la stabilita' del mondo intero, difficilmente disinnescabile.
venerdì 15 luglio 2011
Tra India e Pakistan rapporti più distesi
Il recente attentato a Bombay ha chiarito la natura dei rapporti tra India e Pakistan. Tradizionalmente nemici i due paesi stanno attraversando un momento di distensione, sopratutto dopo l'attentato avvenuto sempre a Bombay nel 2008, quando Nuova Delhi accusò esplicitamente Islamabad di esserne il mandante. Questa volta la reazione indiana è stata differente, infatti il governo ha evitato accuratamente di incolpare chicchesia senza alcuna prova. Nonostante le dichiarazioni del ministro degli interni che ha affermato che Afghanistan e Pakistan sono il centro del terrorismo internazionale, nessun organo ufficiale ha azzardato ipotesi contro lo stato vicino. Questo perchè si è entrati in una fase nuova del rapporto tra i due stati, che non hanno timore a confrontarsi sul Kashmir, eterna fonte di contrato, ma che anzi, almeno in parte, hanno superato, concentrandosi sull'espansione del commercio bilaterale. Grazie a questo obiettivo comune, l'India è arrivata ad affermare che l'atteggiamento nei confronti indiani e del terrorismo, da parte del Pakistan, è cambiato andando sulla giusta via. Una delle ragioni del mutato atteggiamento indiano è l'inserimento nell'area della Cina, che ha stretto accordi con Islamabad. Per l'India, Pechino è uno dei principali avversari economici e se per contrastarlo serve la distensione con il Pakistan è opportuno attuarla. Questo pragmatismo ha comunque degli effetti positivi sul piano politico tanto da far rilevare, che attualmente, Islamabad ha rapporti migliori con Nuova Delhi che con Washington, il che è molto singolare data l'alleanza, presente sulla carta, tra USA e Pakistan.
Il Sud Sudan è il 193° membro dell'ONU
Il Sud Sudan è il 193° membro delle Nazioni Unite. L'Assemblea ha approvato il nuovo membro per acclamazione, era dal 2006, con l'ammissione dello stato del Montenegro, che non vi erano nuovi ingressi. Il nuovo stato ha proclamato la sua indipendenza dal Sudan lo scorso Gennaio con un referendum, che Kartoum ha accettato in modo tutto sommato pacifico. La creazione del Sud Sudan ha avuto, però, una genesi più complicata a causa di diversi anni di guerra, conclusi con gli accordi di pace del 2005, tra le due parti del paese: il nord a maggioranza musulmana ed il sud cristiano ed animista. Il ministro sudsudanese della giustizia, Jeff Radebe, ha sottolineato come il suo paese è una eccezione nell'uso africano di mantenere le frontiere imposte dal colonialismo. In effetti questa particolarità può indicare una nuova via nella creazione di nuove entità statali da aggregati sovrani artificiali, che spesso hanno portato a diversi conflitti interni, creando e talvolta aumentando la povertà nel continente africano. Il processo di costituzione del Sud Sudan, specialmente nella sua parte conclusiva può ispirare, una nuova redistribuzione territoriale su base di appartenenza sociale (etnica e/o religiosa), senza così alimentare quello che è stata la ragione dei tanti conflitti esplosi in Africa negli scorsi anni.
giovedì 14 luglio 2011
La Lega Araba chiederà all'ONU il riconoscimento per la Palestina
La Lega Araba porterà alle Nazioni Unite la domanda di adesione della Palestina. Nabil al-Arabi il capo dell'organizzazione pan-araba, ha dato l'annuncio ufficiale alla presenza del presidente palestinese Mahmoud Abbas. Le linee guida della domanda verteranno sulla ricerca del sostegno internazionale per il riconoscimento dello stato di Palestina con capitale a Gerusalemme Est e che rientri nei confini del 1967. I palestinesi, attraverso il loro negoziatore Saeb Erekat, hanno affermato di cercare di estendere il riconoscimento del proprio stato, già accordato da 117 nazioni, con o senza il veto degli USA.
Tecnicamente la questione è importante perchè il veto degli USA, il maggiore alleato di Israele, componente del Consiglio di sicurezza dell'ONU, non può permettere l'ingresso della Palestina nel consesso delle Nazioni Unite, l'unica alternativa è l'ammissione con lo status di osservatore come Stato non membro. Questa eventualità riuscirebbe comunque ad andare contro le speranze israeliane di non arrivare neppure alla presentazione della domanda all'ONU, per non dare rilevanza internazionale al caso palestinese. L'ammissione, anche soltanto come stato non membro osservatore, darebbe comunque alla Palestina una dignità statale che fino ad ora è mancata, per contro Israele, pur non riconoscendo la Palestina come stato sovrano, si dovrà porre in maniera differente di fronte all'opinione pubblica internazionale, ogni qualvolta intendesse agire nei confronti della Palestina stessa. Dal punto di vista delle relazioni internazionali si innescherebbe un meccanismo di difficile gestione per Tel Aviv, che non avrebbe più la libertà attuale. La mossa palestinese di fatto obbligherà Israele a cercare una strategia alternativa, non più soltanto dal punto di vista militare, ma sopratutto diplomatico, evenienza, questa, che, allo stato attuale dell'arte, non pare di agevole percorribilità per le attitudini di questo governo israeliano, schiacciato tra la pressione politica dell'amministrazione Obama, che spinge per una soluzione definitiva della questione palestinese, e la paura di dove andranno a finire le primavere arabe.
Tecnicamente la questione è importante perchè il veto degli USA, il maggiore alleato di Israele, componente del Consiglio di sicurezza dell'ONU, non può permettere l'ingresso della Palestina nel consesso delle Nazioni Unite, l'unica alternativa è l'ammissione con lo status di osservatore come Stato non membro. Questa eventualità riuscirebbe comunque ad andare contro le speranze israeliane di non arrivare neppure alla presentazione della domanda all'ONU, per non dare rilevanza internazionale al caso palestinese. L'ammissione, anche soltanto come stato non membro osservatore, darebbe comunque alla Palestina una dignità statale che fino ad ora è mancata, per contro Israele, pur non riconoscendo la Palestina come stato sovrano, si dovrà porre in maniera differente di fronte all'opinione pubblica internazionale, ogni qualvolta intendesse agire nei confronti della Palestina stessa. Dal punto di vista delle relazioni internazionali si innescherebbe un meccanismo di difficile gestione per Tel Aviv, che non avrebbe più la libertà attuale. La mossa palestinese di fatto obbligherà Israele a cercare una strategia alternativa, non più soltanto dal punto di vista militare, ma sopratutto diplomatico, evenienza, questa, che, allo stato attuale dell'arte, non pare di agevole percorribilità per le attitudini di questo governo israeliano, schiacciato tra la pressione politica dell'amministrazione Obama, che spinge per una soluzione definitiva della questione palestinese, e la paura di dove andranno a finire le primavere arabe.
La nuova strategia talebana e l'importanza del Pakistan
Il recente attentato in cui hanno perso la vita militari francesi ed un civile afghano, presenta, secondo i comandi transalpini, anomalie indicative del cambiamento della strategia militare dei talebani. Il sospetto è che siano stati usati kamikaze non afghani, ma terroristi arabi provenienti dal Pakistan. Innanzitutto appare chiaro che le azioni terroristiche si stiano concentrando sulle truppe di quelle nazioni in cui è presente un dibattito, talvolta acceso, sulla opportunità di portare avanti la missione afghana. Non è un caso che sia Francia che Italia, in questo contesto, siano state oggetto di attentati sanguinosi. Si mira a fare terra bruciata attorno agli Stati Uniti, premendo sull'opinione pubblica e sui governi di paesi alleati in difficoltà al proprio interno e sull'orlo di elezioni. Il possibile ritiro di questi paesi trasferirebbe il quasi totale monopolio della forza ai militari afghani, non ancora del tutto pronti ad assumere in toto l'impegno, questo è senz'altro uno degli obiettivi che i talebani cercano di conseguire, per affrontare un avversario meno forte e preparato. Tuttavia la nuova modalità praticata dai terroristi, se accertata, denuncia una carenza nelle forze talebane, ormai consapevoli di non essere in grado di affrontare in campo aperto truppe regolari, ma rileva anche il pericoloso coinvolgimento di kamikaze stranieri, che, in qualche modo, internazionalizza il conflitto anche da parte degli insorti. L'aspetto non è da sottovalutare, perchè confermerebbe, ancora una volta e se ce ne fosse ancora bisogno, della pericolosa ambiguità da parte pakistana, come base logistica del terrorismo islamico. Questo fattore costituisce un nodo cruciale per la soluzione del conflitto, perchè senza la soluzione di questo punto non si può parlare di sconfitta del terrorismo islamico, vanificando gli ingenti sforzi compiuti sia in vite umane che in capitale finanziario. Non è azzardato affermare che senza l'appoggio pakistano, con o senza una complicità dell'apparato statale di Islamabad, l'andamento del conflitto e le stesse prospettive dello stato afghano sarebbero da inquadrare in tutt'altra ottica. Se il ritiro delle truppe è una via ormai irrinunciabile, non resta che l'offensiva diplomatica per convincere il Pakistan a collaborare fattivamente, attraverso accordi e collaborazioni e sopratutto cercando di sottrarlo alla sfera cinese, come sta avvenendo. La Cina non è, per ora interessata, alla lotta al terrorismo islamico, perchè la sua struttura di stato è impermeabile alle influenze esterne e punta ad una espansione di tipo economico, dove la politica costituisce solo il metodo per raggiungere gli obiettivi commerciali e produttivi. La politica estera cinese non si intromette nella politica degli stati esteri per intima convinzione e ciò permetterebbe la crescita ulteriore di quei movimenti che sono la base per il reclutamento dei terroristi. Diventa allora necessario riportare o portare a tutti gli effetti, nell'orbita occidentale, il Pakistan per tagliare i rifornimenti ai gruppi talebani.
mercoledì 13 luglio 2011
La Cina frena la propria economia per fermare l'inflazione
La Cina è alle prese con l'inflazione, la crescita del fenomeno si è attestata al 6,4% a giugno, il dato più alto registrato da tre anni a questa parte. La tendenza è in contrasto con gli obiettivi, sia economici che sociali, che il governo cinese ha legato al contenimento del fenomeno inflattivo. Come valore massimo che il governo cinese considera accettabile è stato scelto il 4%, ma il premier Wen Jiabao ha già praticamente ammesso l'impossibilità del contenimento dell'inflazione a tale livello. Le statistiche denunciano la crescita dei prodotti alimentari con valori intorno al 14%, con picchi del 57% per il costo della carne di maiale. La maggiore preoccupazione per Pechino sono gli effetti del fenomeno sulla stabilità sociale, già provata dalle sperequazioni sociali, dalla corruzione e dal malfunzionamento della cosa pubblica. L'alto livello di allerta da parte dell'apparato cinese teme una recrudescenza delle manifestazioni contro il regime, che possono trovare un volano nel malcontento popolare generato dalla crescita dei prezzi. L'azione della Banca centrale cinese si è incentrata sull'aumento del tasso di interesse ed aumentando la percentuale di riserva obbligatoria delle banche. Tali provvedimenti potrebbero dare i loro risultati più avanti, anche se secondo alcuni economisti queste misure non sono sufficienti e dovranno essere integrate da metodi ancora più severi. Questa tendenza è nettamente in contrasto con la politica finanziaria seguita fino ad ora dal governo di Pechino, che ha usato la liquidità bancaria per continuare a stimolare la crescita, anche durante la crisi del 2008. Ora, con la politica di innalzamento dei tassi si procede nella direzione contraria: stretta del credito per le imprese e sacrificio di qualche punto di crescita, nella speranza di ottenere, in cambio, un calo drastico dell'inflazione. Tuttavia questa prospettiva rischia di innescare una frenata della locomotiva cinese andando ad impattare sulla crescita globale del pianeta, tra l'altro quando le stime per gli USA sono state riviste al ribasso; ciò ha provocato diversi dubbi da parte degli analisti sulla tenuta dell'economia cinese tanto che Standard&Poor’s potrebbe rivedere il proprio rating sulla Cina.
La nuova fase della guerra afghana
La recrudescenza degli attentati in Afghanistan segna una nuova fase all'interno del conflitto. L'offensiva diplomatica messa in campo dagli USA, in accordo non ufficializzato con Karzai, che vede come interlocutore la parte moderata dei Talebani, incontrati a più riprese in terreno neutrale con l'assistenza del Qatar, ha suscitato l'ira della parte più integralista del movimento. L'exit strategy elaborata dall'amministrazione Obama prevede un accordo di massima con alcune parti del movimento integralista, in modo da preservare la fragile impalcatura dello stato afghano. Questa mossa ha però creato una serie di ripercussioni destinate a variare i delicati equilibri interni allo stato di Kabul, in primis, ed alla frontiera pakistana di conseguenza. La galassia talebana non è un monolite che si muove in modo univoco e senza sbandamenti ma è il frutto di una visione massimalistica tenuta insieme dall'avversione al nemico invasore, oltre questo, la composizione è formata da posizioni diverse, sopratutto in relazione allo stato afghano, con una divisione spesso composta su base tribale che da vita a differenze anche profonde, in special modo sui temi di politica interna. Per contrastare le trattative, la parte più estrema, contraria alla soluzione diplomatica e timorosa di essere lasciata fuori dal processo della ricostruzione dello stato, che inevitabilmente partirà da basi nuove (cioè con la partecipazione dei talebani che partecipano alle trattative con gli USA), lancia una offensiva con l'unico mezzo di cui conosce gli effetti e che può padroneggiare, cioè la violenza. L'uccisione del fratellastro di Karzai, uomo compromesso con il traffico dell'oppio, ma anche con la CIA, quindi strumento americano per la penetrazione sul territorio, è un chiaro segnale in tal senso: fare terra bruciata intorno agli USA, di coloro che si prestano alle trattative. Ora per gli Stati Uniti è essenziale accelerare mettendo sul tavolo risultati tangibili in modo da costringere anche la parte integralista a sedersi a trattare. Ciò è ancora più essenziale perchè il Pakistan, non ha preso bene l'intenzione di ritirare le truppe USA e minaccia, anch'esso di ridurre le truppe alla frontiera afghana. E' un fattore da non sottovalutare, perchè renderebbe la zona al confine tra i due stati uno stato negli stati, una nazione talebana di tipo integralista ancora meno controllabile di adesso. Una tale entità costituirebbe un nemico praticamente invincibile per lo stato afghano, sguarnito dalla protezione americana; mentre per il Pakistan sarebbe la naturale conseguenza di un territorio già da ora non controllabile, con cui però tenere contatti non ufficiali: in poche parole senza grosse differenze da ora. Per gli USA, si capisce, il momento è cruciale, la necessità di comprimere la propria forza si scontra con l'ovvia lentezza dell'azione diplomatica, ma nel contempo la necessità del risultato può portare a mosse avventate, starà alla bravura di Hillary Clinton trovare la giusta quadratura del cerchio.
martedì 12 luglio 2011
La zona euro e le crisi finaziarie
Dopo i problemi islandesi,irlandesi, portoghesi e greci, la speculazione pare avere preso di mira l'Italia. I forti ribassi della borsa di Milano mettono a fuoco quella che potrebbe essere la prossima vittima europea. Certo le situazioni politica ed economica italiana, possono spiegare gran parte del problema, ma ciò è solo complementare al vero nocciolo della questione, ne costituisce, cioè un aggravante. Intanto una considerazione, mettendo sotto tiro l'Italia, il movimento speculativo cerca di fare un salto di qualità nella propria strategia di guadagno: l'economia italiana è di gran lunga superiore a quelle già entrate nell'occhio del ciclone, un crollo strutturale dovuto alla speculazione rischierebbe di tirarsi dietro l'intero sistema dell'euro con conseguenze disastrose per l'Unione Europea. In questo momento l'Italia ed anche la Spagna, patisce, sostanzialmente, la debolezza costitutiva dell'impalcatura costruita intorno alla moneta unica europea. La creazione dell'area dell'Euro è stata fatta sommando tra di loro economie non omogenee, con diverse problematiche da affrontare e diverse scale di sviluppo e di crescita. Avere stabilito un valore nominale delle singole monete europee ha costituito la scelta di un metodo, tra i tanti possibili, ma non certo il migliore, che potesse garantire una qualche uniformità dei vari sistemi economici che formavano il puzzle della moneta unica. Peraltro pensare che soltanto l'adozione di una unica moneta permettesse, senza aggiustamenti, di mettere sullo stesso piano economie come quella tedesca e ad esempio, quella portoghese, costituisce il peccato originale della creazione dell'Euro. Quello che è mancato è stato un indirizzo, se non unico, almeno unitario nella conduzione della finanza e dell'economia europea, non si è fatto, cioè, sistema, ma si è creata la somma vettoriale di economie molto diverse e nella somma dei vettori vince il più forte. Nel caso specifico il vettore più forte, ma che fa anche da traino, è la Germania, la cui economia ha garantito la disponibilità finanziaria per emettere prestiti ai paesi in difficoltà (la Grecia è il classico esempio). La mancanza di un bilanciamento tra le sproporzioni e le differenze economiche ha materialmente favorito gli speculatori, che bene si sono insinuati nei buchi del sistema. I recenti provvedimenti della UE, come la creazione di un fondo speciale di salvataggio per il debito degli stati, dicono che gli eurocrati si sono accorti delle deficienze del sistema, tuttavia si tratta di provvedimenti tampone, che non colmano le mancanze a livello politico. Vi è ancora troppa gelosia da parte dei governi della loro autonomia di azione, che spesso ha obiettivi di breve periodo, a scapito di una azione portata avanti a livello centrale con una vista che va oltre il risultato elettorale locale. Senza questo convincimento e la successiva riforma del sistema economico e finanziario in senso europeista, tutte le misure correttive avranno il solo significato di espedienti estemporanei incapaci di colmare lacune sistemiche.
giovedì 7 luglio 2011
ONU: diminuisce la povertà nel mondo
La crescita dei paesi in via di sviluppo, in special modo dell'area asiatica, permetterà di raggiungere l'obiettivo di dimezzare la povertà nel mondo entro il 2015. E' quanto sostenuto da un recente rapporto delle Nazioni Unite. Il criterio che fu individuato nel 2000, consisteva nel dimezzare il numero delle persone che vivono con meno di un dollaro al giorno, rispetto al 1990. Disaggregando il dato totale, appaiono delle grosse differenze, infatti in Asia orientale, il tasso di povertà dovrebbe discendere sotto al 5% entro il 2015, in India dal 51% del 1990 si attende il 22% nel 2015, ,mentre è più complessa la situazione dell'Africa sub-sahariana, sia per la difficoltà del reperimento dei dati, sia per le oggettive carenze strutturali, che non permettono uno sviluppo paragonabile a quello delle tigri asiatiche, il dato dovrebbe, comunque, attestarsi intorno al 36% per il 2015, che confrontato al 58% del 1990, rappresenta un miglioramento sostanziale. Le stime tengono conto dei rallentamenti alla crescita imposti dalle crisi economico finanziarie e permettono, nonstante queste, di affermare che il ritmo della discesa del tasso di povertà non dovrebbe subire rallentamenti. Malgrado i progressi e le affermazioni dell'ONU, la povertà resta ancora lontana da sconfiggere, il dato su cui si basa l'obiettivo delle Nazioni Unite costituisce, invero, un traguardo non più adatto ai tempi in cui viviamo. Aldila dello scopo umanitario, la fetta di popolazione tagliata fuori dai processi economici, proprio a causa della mancanza di risorse proprie, costituisce un ostacolo al propagarsi dello sviluppo, che non va inteso come mero consumismo, ma come occasione di crescita e di usabilità di bisogni considerati primari nell'occidente: come l'istruzione e la formazione, l'accesso alle cure mediche ed anche una maggiore diffusione del benessere, con tutte le conseguenze del caso. Se l'ONU può parlare con soddisfazione per avere praticamente raggiunto l'obiettivo prefisso alla lottà alla libertà, su cui però sarà necessario dotarsi di obiettivi sempre nuovi, innalzando la somma di un dollaro al giorno, non così per quanto riguarda la lotta alla fame. Su questo punto resta ancora il 16% di popolazione che soffre di carenze alimentari endemiche, dovute a carestie, condizioni climatiche avverse, eventi atmosferici e guerre. La lotta alla denutrizione deve essere combattuta affrontando più nemici ed è necessaria la massima coordinazione e la massima razionalizzazione delle risorse, che, purtroppo, i paesi ricchi stentano ad elargire. Per questo è fondamentale la crescita di importanza politica dell'ONU, come ente sovranazionale capace di intervenire oltre che materialmente, sopratutto politicamente, fornendo pianificazione ed indirizzo necessarie per sconfiggere definitivamente la mancanza di cibo.
L'offensiva serba per entrare nella UE
L'azione della Serbia per superare gli effetti seguiti al conflitto derivato alla disgregazione della Yugoslavia, continua incessante, anche in ragione della richiesta di ammissione alla UE. Catturato ed estradato Radic e chiuso un accordo per la libera circolazione delle persone con il Kosovo, il premier serbo Tadic ha effettuato una visita ufficiale a Serajevo, la prima dal 2006. Oggetto della visita è l'approfondimento delle relazioni amichevoli tra i due paesi e, sopratutto, il riconoscimento del rispetto serbo all'integrità territoriale della Bosnia-Erzegovina. L'importanza politica di questo passaggio risulta fondamentale nel quadro delle relazioni bilaterali tra i due paesi, in quanto sottolinea il mancato appoggio dello stato di Belgrado ai movimenti indipendentisti serbi presenti in Bosnia. Tadic punta molto sulla normalizzazione dei rapporti con gli stati ex jugoslavi, l'atto formale firmato con Pristina per la circolazione delle persone, è un chiaro segnale che Belgrado riconosce come validi i documenti rilasciati dal Kosovo ed è un chiaro passo verso il riconoscimento dell'indipendenza della ex provincia serba. I negoziati sono stati vivamente caldeggiati dalla UE, che segue con attenzione i movimenti di Belgrado, in quanto candidata all'entrata nell'unione. Già nel 2010 il premier Tadic aveva compiuto una visita a Vukovar, in Croazia, dove si era pubblicamente scusato per il massacro serbo avvenuto nel 1991. Occorre considerare che i movimenti di Tadic non sono così agevoli come potrebbero risultare dall'esterno, essendo atti che paiono quasi scontati. In Serbia è molto vivo ed attivo, il movimento nazionalista, che porta avanti l'idea, ormai anti storica, di grande Serbia e che raccoglie diversi gruppi estremisti, capaci di aggregare la protesta contro il governo. Inoltre è diffuso un sentimento anti occidentale che non vede di buon occhio le aperture del paese verso l'esterno e non comprende le esigenze, sia politiche che economiche della nazione. E' pur vero che questi fronti interni costituiscono la minoranza in un paese, che avverte la necessità di entrare in Europa come medicina necessaria ad uscire da un isolamento nocivo per la stessa storia della Serbia, ma che tuttavia posseggono forti motivazioni per contrastare l'azione del governo ed hanno un forte peso specifico politico. L'innalzamento dell'azione politica di Tadic, oltre alla pacificazione della ex jugoslavia, punta ad ottenere ulteriori punti per accreditare il paese per l'ingresso nella UE, considerato fondamentale dall'amministrazione di Belgrado. Proprio per questa ragione si è obiettato sulla genuinità di questi interventi, visti, appunto, come viatico per il passaporto UE, tuttavia queste mosse sono stati atti reali e tangibili, che hanno avuto ricadute sia sulla politica interna che su quella estera di Belgrado.
mercoledì 6 luglio 2011
Emergenza Somalia
Gli effetti della guerra in Somalia hanno, ormai la portata di tragedia umanitaria. Gran parte del popolo somalo è costretto a fuggire dalla guerra in corso nella propria nazione e la fuga ha raggiunto dimensioni bibliche. L'ACNUR, la commissione delle Nazioni Unite per i rifugiati, calcola che circa un quarto dell'intera popolazione somala, stimata in circa 7,5 milioni di persone, siano sfollati internamente al paese (1,46 milioni) o sia espatriata. In Kenia vivono 405.000 somali, che si sommano a 187.000 in Yemen e 110.000 in Etiopia. Il principale problema è la carestia alimentare che attanaglia questa popolazione in fuga, specialmente i bambini, che soffrono maggiormente la mancanza di alimentazione. Più del 50% dei bambini in Etiopia patiscono una malnutrizione acuta, mentre quelli in Kenya ne sono colpiti circa tra il 30 ed il 40 %.
Gli aiuti delle ONG non riescono a soddisfare la domanda alimentare e la stessa azione delle Nazioni Unite è ormai insufficiente, non solo dal punto di vista operativo, ma, ancora peggio, da quello politico. La mancata risoluzione della guerra somala è una ulteriore dimostrazione dell'inadeguatezza dell'ONU, che non riesce ad imporsi come soggetto capace di riuscire a gestire le crisi, in special modo, le più lunghe. Non si capisce come mai non si ripensi daccapo alla risoluzione del problema, senza trovare nuove soluzioni. Mentre su altri scenari vi è uno spiegamento militare ingente, la Somalia appare abbandonata a se stessa. Stessa cosa per la gestione del problema dei rifugiati, che hanno trovato asilo in nazioni molto povere e tormentate, non in grado di fornire la necessaria assistenza e letteralmente lasciate sole di fronte all'emergenza. Quella che manca è anche la solidarietà pratica dei paesi ricchi, che si accapigliano per numeri esigui di immigrati (si veda la questione tra Italia e Francia, in occasione della guerra libica), mentre nazioni povere e con difficoltà interne di stabilità, sono costrette a ricevere ondate migratorie di dimensioni molto più grandi. I due fenomeni associati insieme compiono una rappresentazione dell'occidente terribile, che non può non determinare una condanna senza appello per i paesi ricchi. Anche questi elementi fanno comprendere la decadenza cui sono soggetti.
Gli aiuti delle ONG non riescono a soddisfare la domanda alimentare e la stessa azione delle Nazioni Unite è ormai insufficiente, non solo dal punto di vista operativo, ma, ancora peggio, da quello politico. La mancata risoluzione della guerra somala è una ulteriore dimostrazione dell'inadeguatezza dell'ONU, che non riesce ad imporsi come soggetto capace di riuscire a gestire le crisi, in special modo, le più lunghe. Non si capisce come mai non si ripensi daccapo alla risoluzione del problema, senza trovare nuove soluzioni. Mentre su altri scenari vi è uno spiegamento militare ingente, la Somalia appare abbandonata a se stessa. Stessa cosa per la gestione del problema dei rifugiati, che hanno trovato asilo in nazioni molto povere e tormentate, non in grado di fornire la necessaria assistenza e letteralmente lasciate sole di fronte all'emergenza. Quella che manca è anche la solidarietà pratica dei paesi ricchi, che si accapigliano per numeri esigui di immigrati (si veda la questione tra Italia e Francia, in occasione della guerra libica), mentre nazioni povere e con difficoltà interne di stabilità, sono costrette a ricevere ondate migratorie di dimensioni molto più grandi. I due fenomeni associati insieme compiono una rappresentazione dell'occidente terribile, che non può non determinare una condanna senza appello per i paesi ricchi. Anche questi elementi fanno comprendere la decadenza cui sono soggetti.
Cina e Vaticano: rapporti in peggioramento
I rapporti tra Cina e Vaticano segnano un ulteriore peggioramento. La nomina di un vescovo nella chiesa patriottica cinese, viene vissuta dal Vaticano come l'ennesima ingerenza nella propria sfera d'azione. Per oltre Tevere l'investitura vescovile, avvenuta alla presenza di altri sette vescovi, viola palesemente l'ordinamento canonico vigente, perchè emessa senza alcuna autorità, fatto che prevede espressamente sanzioni da parte dell'autorità ecclesiastica. L'azione di Pechino pare rientrare nella strategia, sempre più insistita ed avvolgente, di contenere e soffocare ogni forma di opposizione possibile, che possa andare ad incrinare il sistema di potere, basato sul monolitismo del Partito comunista. Spesso il diritto di esercitare la propria religione è stato osteggiato ma negli ultimi tempi l'amministrazione cinese ha preferito incanalare il sentimento religioso, tra cui il culto cattolico, in una organizzazione strettamente controllata, che costituisce la chiesa patriottica cinese. L'invasione nelle prerogative della chiesa cattolica ufficiale non ha fatto altro che incrinare ulteriormente i rapporti tra i due stati, già gravati da anni di persecuzioni ai danni dei cattolici cinesi, organizzati in forma clandestina e sotterranea, ed oggetto di forti persecuzioni, che hanno causato torture e prigionia. L'irritazione del Vaticano è indirizzata anche verso il proprio clero, che non esita a passare con la chiesa patriottica, non sfuggendo alle concrete possibilità di carriera assicurate. Le relazioni tra i due stati sono formalmente interrotte dal 1951 e dopo un periodo di sostanziale riavvicinamento, attualmente la situazione è di nuovo molto compromessa e per il futuro non pare si possa nutrire speranze positive, giacchè Pechino ha affermato che presto ci saranno altre 40 ordinazioni di vescovi nella chiesa patriottica cinese.
USA: in alcuni stati inasprite le leggi contro l'immigrazione
All'interno degli USA vanno affermandosi leggi sempre più restrittive verso gli immigrati irregolari. Dopo l'inasprimento dell'Arizona sulla legislazione sulla materia, anche Alabama, Carolina del Sud e Georgia, hanno inasprito la legislazione nazionale senza alcuna censura del governo federale. L'atteggiamento dell'amministrazione Obama, in questo momento è fortemente attendista a causa dell'incombere dell'appuntamento elettorale e del pressing effettuato dai movimenti di destra, sopratutto quelli emergenti come il tea party. Certo è che quello che appare è un distacco del Presidente USA dai temi fondamentali portati avanti in campagna elettorale per trovare una mediazione con le necessità del mercato dei voti. Nei mesi scorsi lo stesso Obama aveva confermato la necessità della forza lavoro degli emigrati, anche quelli irregolari, come essenziale per l'economia USA e prospettando una legislazione che regolasse la materia in maniera di rispettare i diritti fondamentali degli individui, ancorchè senza documenti. Ma ai discorsi non sono seguiti i fatti, cioè la promulgazione di una legislazione federale che andasse a coprire il buco normativo sulla materia. Questo ha permesso agli stati con concezioni non favorevoli verso i migranti, di legiferare con disposizioni di forte contrasto all'immigrazione. L'inattività dell'amministrazione Obama, contro questa tendenza, è dimostrata dalla scarsità dell'azione di contrasto contro le legislazioni statali, infatti il Dipartimento di giustizia federale ha presentato una sola azione legale contro lo stato dell'Arizona, tralasciando, però provvedimenti analoghi verso le altre entità statali della federazione americana.
martedì 5 luglio 2011
Sentenza innovativa dal Tribunale internazionale de L'Aja
La Corte Internazionale de L'Aja potrebbe aprire una via nuova nella giurisprudenza del diritto internazionale. Infatti il Tribunale penale internazionale ha stabilito la responsabilità di tre, degli ottomila morti della strage di Srebrenica, per l'esercito olandese, che doveva proteggere la città come caschi blu dell'ONU. Il ricorso presentato da due cittadini bosniaci per la morte di tre loro congiunti, proprio contro l'esercito olandese è stato accolto e potrebbe determinare una pioggia di ricorsi in tal senso, sia nell'ambito del processo in corso, che in altri procedimenti analoghi. La determinazione della Corte ha lasciato spiazzato anche l'avvocato dello stato olandese, che ha affermato di dovere studiare le carte per la presentazione dell'appello. Il governo olandese ha sempre affermato che la colpa dell'abbandono di Srebrenica da parte del proprio esercito, fu dovuta alla mancata protezione aerea e quindi imputabile alla stessa ONU, per difetto di organizzazione. Ciò indica la via che potrebbe seguire il ricorso, generando una battaglia legale tra lo stato olandese e le Nazioni Unite, che saranno sicuramente citate in giudizio. Al di fuori del procedimento in oggetto, che sarà comunque occasione di studio per i tecnici della materia, la determinazione della responsabilità penale sia per mancata esecuzione della missione, sia per omesso soccorso, sia nei confronti dell'entità statale, che sovrastatale, rischia di essere messa a fuoco in una diversa ottica, che rischia di capovolgere i rapporti con l'autorità giudiziaria internazionale. Quello che può accadere è l'instaurazione di una responsabilità effettiva e materiale, che possa richiamare ai suoi doveri anche strutture formalmente non avezze a rapporti del genere. Se questa strada sarà tracciata, costituirà un passo avanti fondamentale nella gestione della giustizia nel villaggio mondiale in senso compiuto e concreto.
La Francia spinge per il riconoscimento di Bengasi
La Francia non ritiene più indispensabile il lancio delle armi per rifornire i ribelli libici. La ragione è che è materialmente nato un nuovo soggetto politico, capace di contendere con Tripoli e lottare per la propria autonomia. Questo implica la capacità di instaurare relazioni diplomatiche e contrattare in maniera ufficiale gli aiuti, senza ricorrere a rifornimenti di fortuna, ma passare per gli appositi canali previsti dalle relazioni internazionali. Questo non vuole dire uno sganciamento di Parigi dall'impegno assunto in prima persona per sostenere gli insorti, ma invece vuole essere un tentativo di appoggiare l'accredito sulla scena internazionale degli insorti, per aggirare i dubbi e le questioni, anche di diritto internazionale, che la situazione ha generato. Di fatto, attualmente in Libia, esistono due governi, che combattono una sanguinosa guerra civile e dal punto di vista del riconoscimento internazionale, la situazione appare molto fluida. I rivoltosi, che fanno capo al governo autocostituito di Bengasi, sono stati riconosciuti da diversi stati come interlocutori legittimi, scavalcando l'apparato di Gheddafi, ma non hanno ancora dignità di entità statale sovrana. D'altro canto Gheddafi è formalmente disconosciuto dalla comunità internazionale, dove, in più, risulta gravato di un mandato di cattura da parte della Corte dell'Aja. Conferire dignità internazionale, non solo a parole, ma con gesti concreti, ai ribelli, risulta una mossa per costringere nell'angolo dell'agone internazionale Tripoli, incrementandone ulteriormente l'isolamento.
NATO e Russia: disputa sullo scudo
Tra NATO e Russia ritorna la questione dello scudo spaziale che l'alleanza atlantica vuole disporre al confine con Mosca. La ragione ufficiale è dotare l'europa orientale di uno scudo missilistico per difenderla da eventuali attacchi provenienti dall'Iran, tuttavia i generali russi sono infastiditi dall'estrema vicinanza di questi dispositivi dal proprio confine. Dal punto di vista militare l'operatività strategica dello scudo, praticamente sul confine di Mosca, può sotto intendere una flessibilità di uso notevole, che può prevederne l'impiego anche in casi di frizioni con la Russia ed i suoi paesi satelliti. Il ventaglio delle possibilità è infinito, lo scudo ad esempio può agire come strumento di pressione nel caso si verifichino crisi nella regione caucasica, nodo cruciale per lo smistamento dell'energia. Risulta lampante che la Russia si ritrova uno strumento che può fortemente limitarne la libertà d'azione, sopratutto in quelle regioni che essa ritiene ancora facenti parte della propria sfera d'interesse. La questione, quindi assume particolare risalto dal punto di vista politico, i recenti rapporti tra NATO e Russia potrebbero ritornare di nuovo tesi, aprendo un fronte internazionale che andrebbe ad impattare sulle difficili problematiche in atto sul panorama diplomatico. L'azione in Libia, cui la Russia ha dato l'astensione nel Consiglio di sicurezza, seppure controvoglia, aveva già raffreddato i rapporti con la NATO, ed ora la questione dello scudo nell'Europa orientale fa scendere ulteriormente il termometro della relazione bilaterale. Proprio per questo il segretario NATO Rasmussen ha incontrato il presidente russo Medvedev, per smussare i motivi di attrito in corso. Per la NATO è importante convincere la Russia della bontà delle proprie scelte, reputate strategicamente fondamentali, senza incorrere in complicazioni diplomatiche.
domenica 3 luglio 2011
La Grecia blocca la flottiglia ed Israele resta preda dei propri steccati
La decisione delle autorita' greche di bloccare le unita' navali destinate a cercare di forzare il blocco navale delle autorita' israeliane alla striscia di Gaza, va inquadrata nella politica estera di Atene, ora alleata con Tel Aviv, contro la Turchia. Dopo gli ultimi incidenti occorsi alla nave turca, che cercava di forzare il blocco davanti a Gaza, per portare aiuti umanitari nella striscia, i rapporti tra Israele e Turchia si sono deteriorati, malgrado fino a quel punto fossero stati buoni. Nell'incidente diplomatico seguito alla vicenda si inseri' la Grecia, storica avversaria della Turchia nell'area, sostituendo Ankara nella strategia politica regionale di Israele. La Grecia con quella decisione mise a dura prova gli ottimi rapporti che aveva con gli stati arabi, ma divento' un alleato di primo piano diTel Aviv, che si impegno' ad investire nel paese ellenico, con finanziamenti e scambi militari. Ora l'alleanza non pare subire scossoni ed Israele riscuote in moneta politica i suoi crediti. La flotta di aiuti umanitari conta dodici imbarcazioni con tremila tonnellate di carico destinate alla striscia, la partenza prevista era tra il 30 giugno ed il primo luglio, ma una serie di impedimenti burocratici e di perquisizioni da parte della polizia greca, ne ha impedito l'inizio della traversata. Soltanto due navi sarebbero riuscite a salpare, ma l'impatto con la marina israeliana sarebbe molto difficoltoso senza l'intero effettivo della flotta. Appare chiaro che Israele cerchi di giocare d'anticipo, non potendo permettersi, in questo momento, il fuoco di fila mediatico, che la ripetizione degli incidenti avvenuti con la nave turca, la sottoporrebbe. L'appuntamento di Settembre all'ONU si avvicina sempre di piu' ed i tentativi del governo israeliano per, se non evitarlo, almeno rimandarlo peccano sempre piu' di mancanza di fantasia e di appigli. Dall'altro lato, proprio per la rigida politica fin qui attuata, non vogliono cedere al blocco della striscia nemmeno per fare passare aiuti umanitari, non capendo che il gesto avrebbe un valore enorme sul piano internazionale e potrebbe fare guadagnare simpatie alla causa israeliana. Ma temono fortemente le simpatie che un atto di forza militare, contro attivisti pacifici, si riverserebbero sulla causa palestinese. Il risultato e' un cul de sac politico, un cane che si morde la coda, che denuncia l'inadeguatezza e l'incapacita' del governo israeliano in carica, di sapere gestire la situazione, non essendo capace di uscire da quelli steccati da esso stesso creati.
venerdì 1 luglio 2011
L'Arabia Saudita alza la voce contro l'Iran
L'Arabia Saudita mostra nervosismo per l'azione iraniana di ingerenza nei paesi di Siria, Iraq, Libano e Bahrein e per il sospetto del possesso della bomba atomica. L'annosa inimicizia tra i due stati, entrambi alfieri dell'islamismo, seppure da sponde opposte, vive un nuovo momento di tensione a causa dei rivolgimenti presenti nella regione. L'Arabia Saudita, anch'essa regime fortemente illiberale, ma alleato USA, soffre la crescente attività che l'Iran, sta operando sotto traccia e che attualmente costituisce la base della propria politica estera. Per Teheran la centralità dell'area, sulla cui azione reclama l'Arabia Saudita, fa parte di una strategia che mira a farne la nazione capofila contro il sionismo e l'ingerenza occidentale; ma l'azione tocca anche i potentati vicini a Riyad, di cui l'Arabia è nazione leader. Le rivolte nello Yemen, nel Qatar e nel Bahrein sono state viste come pericolose occasioni di cambiamento dello status quo, basato sulle rigide norme islamiche, e sono state vissute con timore di un'allargamento fin dentro i confini arabi. Non a caso le forze armate saudite sono state direttamente impegnate a sostegno di alcuni governi del'area per sedare le manifestazioni di piazza; il tutto accompagnato dal silenzio degli USA, che, per non urtare il prezioso alleato, non si è mosso con il favore che ha accompagnato la primavera araba. Per i sauditi dietro a tutte queste minacce per il proprio primato nella regione c'è Teheran, che, in modo più o meno velato si è mosso dietro le linee con aiuti materiali e finanziari. Ma vi è un altro motivo di attrito tra i due paesi che rischia di portare ad una proliferazione di armamenti nucleari nella regione: la qestione dell'atomica iraniana. Senza prove certe che Teheran non disponga dell'arsenale militare nucleare, l'Arabia Saudita potrebbe presto cercare di dotarsi, anch'essa, di ordigni equivalenti. Non è una cosa da ritenere impossibile, da un lato le grandi disponibilità finanziarie del paese consentirebbero di colmare velocemente il gap tecnologico, dall'altro lato l'alleanza stretta con gli USA aprirebbe una corsia preferenziale per il dispiegamento strategico di armi atomiche. Occorre però valutare se per gli USA la scelta può costituire una via azzeccata: un conto è portare una propria arma atomica in un paese alleato ed un altro è se favorirne la tecnologia incrementando i paesi possessori dell'arma nucleare. In ogni caso è possibile una decisione unilaterale dei sauditi, che soffrono anche il fatto di essere inferiori, in questo contesto, agli iraniani, non è questo un fattore da sottovalutare, in quanto nel corso della storia è stato più volte determinante. Esiste comunque una alternativa, anche se obiettivamente difficile da percorrere, che viene caldeggiata dagli stessi sauditi: la creazione di una zona comprendente il vicino oriente fino all'Iran, libera da armamenti nucleari sotto la supervisione dell'ONU. In questa area vi è anche Israele, che difficilmente sottoporrà ad un esame, anche super partes, i propri armamenti.
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