Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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mercoledì 31 ottobre 2012
Il Sudan accusa Israele di avere bombardato una sua fabbrica di armi
Un nuovo scenario, parallelo a quello principale, si apre nella contesa tra Iran ed Israele. Il bombardamento di una fabbrica di armi nello stato del Sudan, che Khartoum attribuisce all'aviazione militare dello stato israeliano, ha determinato la presenza di due navi da guerra iraniane nella città di Port Sudan, località del Mar Rosso, in segno di sostegno ed amicizia, come dichiarato da fonti del governo sudanese, al paese africano. La fabbrica di armi sarebbe stata colpita perchè costruiva armamenti per Teheran, circostanza peraltro smentita dal governo di Omar al Bashir; la stessa fonte uffciale ha, però, collegato questa ipotesi nel motivo che ha causato l'azione militare, nella quale hanno perso la vita due persone. Se Israele ufficialmente tace, forse per non incorrere nella censura internazionale per avere condotto una azione bellica su territorio straniero senza le necessarie procedure di dichiarazione di guerra previste dal diritto internazionale, l'Iran non perso l'occasione per intensificare la sua presenza in una regione che sembra sempre più attirare gli interessi della repubblica islamica. L'Iran ha, infatti, aperto quattro nuove missioni diplomatiche in Africa: in Somalia, a Gibuti, nel Sud Sudan e nel Camerun, con il chiaro scopo di rompere l'isolamento delle sanzioni occidentali ed affermarsi come paese protagonista nella regione attraverso consistenti aiuti alle popolazioni in difficoltà; notevole, in questo senso, è stato lo sforzo economico di Teheran che ha donato 43 milioni di dollari per combattere la carestia nel Corno d'Africa. Ma il sostegno non è disinteressato, un rapporto dell'ONU, già risalente a cinque anni fa, accusava Teheran di sostenere finanziariamente e militarmente le Corti Islamiche somale, da cui è nata Al Shabab, organizzazione estremista islamica, di matrice scita, colpevole di avere frenato gli aiuti delle organizzazioni umanitarie per la carestia alimentare che ha colpito la regione e protagonista di azioni anche entro i confini del Kenya. I due paesi, Iran ed Israele, insomma continuano a praticare una guerra non dichiarata che si sta allargando a regioni già martoriate, nel silenzio più assoluto delle Nazioni Unite. Se il bombardamento in Sudan fosse stato realmente effettuato da Israele, saremmo di fronte ad una azione che si può definire soltanto come terrorismo di stato, essendo un attacco praticato da forze regolari ad un paese straniero al di fuori della prassi del diritto internazionale ed andrebbe a costituire un segnale di pericolo allarmante per la pace mondiale, del resto anche l'azione iraniana non pare esente da colpe, per la politica spregiudicata portata avanti fino ad ora, entrambi i paesi meritano una censura, almeno a livello formale: che l'ONU salvi almeno la faccia.
martedì 30 ottobre 2012
La Clinton nei Balcani, con l'incognita serba.
La visita diplomatica di Hillary Clinton, che si sta svolgendo nei paesi dell'ex Jugoslavia, sta affrontando alcune questioni interne che hanno una ripercussione sui rapporti internazionali, in special modo sulle questioni inerenti all'ingresso in organizzazioni internazionali come la UE e la NATO. La dissoluzione jugoslava ha dato corso ad una guerra sanguinosa nel cuore dell'Europa, che ha lasciato pesanti strascichi, tuttora il conflitto etnico risulta essere un ostacolo sia allo sviluppo, che alle relazioni tra i vari popoli della regione, che spesso ricorrono ancora alla violenza per regolare i conflitti. L'interesse della NATO e della UE, seppure per ragioni ed angolature differenti, è che la regione balcanica trovi un assetto stabile ed un equilibrio tale che ne consenta il pieno ingresso nelle loro organizzazioni. Tuttavia la reciproca diffidenza ed i sempre vivi sentimenti nazionalisti non sono un buon viatico per favorire i processi di integrazione, che a parole, gli governi dei paesi della ex Jugoslavia richiedono. I maggiori problemi risiedono in Bosnia, a Belgrado e nel Kossovo. La questione bosniaca continua ad essere segnata da conflitti serrati tra le comunità serbe, croate e musulmane; gli accordi di Dayton, seguiti alla guerra che ha martoriato il paese dal 1992 al 1995, prevedevano un assetto composto da un'entità serba ed una croata musulmana, che, mediante un complicato meccanismo fatto di regole tese a garantire entrambe le comunità, dovevano poi condividere un governo centrale. Ma la parte serba rifiuta ripetutamente questa soluzione ed ha minacciato più volte la proclamazione dell'indipendenza. Questo stato di agitazione permanente è contrario alle intenzioni della diplomazia internazionale che non vuole deragliare dagli accordi di Dayton, faticosamente raggiunti, che rappresentano un punto fermo oltre il quale, si teme, una recrudescenza degli eventi violenti e destabilizzanti. L'unica condizione che può richiamare all'ordine i leader bosniaci, sopratutto quelli serbi, è che proprio il mancato rispetto degli accordi di Dayton impedirebbe l'ingresso nella NATO e nella UE, occasioni viste dai bosniaci per risollevare un'economia stagnante. Nella questione del Kosovo, a Belgrado verrà richiesto, nella visita di giovedì prossimo dei diplomatici USA, di riprendere i contatti con Pristina; la Serbia rifiuta di riconoscere l'indipendenza proclamata in maniera unilaterale dal paese kosovaro a maggioranza albanese, e la vittoria elettorale dello scorso maggio dei nazionalisti serbi ha aggravato le reciproche posizioni. Ufficialmente l'atteggiamento del governo di Belgrado è quella di trovare un'intesa basata su concessioni reciproche da concordare tra Serbia e Kosovo. Ma ciò contrasta con i sentimenti di una opinione pubblica sempre più condizionata da un nazionalismo esasperato ed appare, quindi, meno reale ma strumentale per convincere la UE e la NATO ad accoglierle entro i loro aderenti. Nonostante tutti i tentativi fatti la Serbia appare ancora inaffidabile per l'ingresso in organizzazioni sovranazionali che richiedono standard elevati ai loro associati, l'estremismo nazionalista, spesso accompagnato da razzismo risulta ancora troppo diffuso per concedere la libera circolazione dei cittadini serbi in Europa e così i sentimenti di anti americanismo, dovuti alla posizione della NATO durante le guerre seguite al crollo della Jugoslavia, ostacolano ancora il processo di inclusione nell'Alleanza Atlantica. Senz'altro più agevole sarà il proseguimento del tour diplomatico della Clinton in Croazia ed Albania, paese in cui si chiuderà la trasferta del Segretario di stato americano.
lunedì 29 ottobre 2012
Il modello cinese in crisi, tra fuga di capitali e delocalizzazioni
Tra i problemi che attanagliano l'economia cinese vi è quello della fuga di capitali, che sta innescando ulteriori problematiche per Pechino. Soltanto nel corso dello scorso anno ben 472.000 miliardi di dollari, somma che corrisponde all'otto virgola tre per cento del PIL cinese, ha lasciato in maniera illegale il paese. Anche per i numeri enormi della Cina, si tratta di cifre capaci di creare danni al sistema economico e di aggravare la già precaria stabilità sociale, andando ad acuire l'enorme differenza tra poveri e ricchi. Il fenomeno non è comunque nuovo, ma l'incremento registrato fin dal 2000 sta assumendo proporzioni capaci di incidere sulla politica dello stato. Questi flussi finanziari illeciti vengono deviati su conti presenti in paradisi fiscali, ma una parte considerevole viene fatta rientrare in patria sotto forma di investimento straniero, godendo così delle agevolazioni fiscali e degli aiuti di stato previsti per i finanziatori esteri. Questa prassi assomma così un doppio reato che si traduce in una doppia perdita per lo stato cinese. Si capisce chiaramente come tale sistema alimenti il malaffare, la corruzione e crei gravi scompensi sociali, che contribuiscono ad alimentare il clima difficile presente sia nei conglomerati urbani, che nelle periferie del paese. Inoltre la concentrazione di tale ricchezza in una parte piccola della società, crea uno squilibrio di potere pericoloso per lo stesso apparato. Non è un caso che le lotte intestine in seno al comitato centrale si sono svolte proprio tra membri del partito comunista cinese, che più potevano disporre di ingenti patrimoni, la cui provenienza non è mai stata del tutto chiara. Malgrado il controllo ferreo del partito, applicato, per la verità, in maniera molto rigida agli strati più bassi della popolazione, il problema della corruzione è stato implicitamente riconosciuto anche da fonti ufficiali, che hanno avvertito da tempo l'influenza negativa di forme eccessive di arricchimento, capaci di regalare quote consistente di potere, specialmente nelle zone più remote dello stato. Dietro ai numerosi casi di scioperi e rivolte provocate dal malgoverno degli apparati locali, vi è sempre una volontà di maggiore arricchimento del potente di turno, che reinveste capitali di provenienza sovente poco chiara, in imprese che vanno a ledere la dignità dei popoli locali spesso vittime di espropri di forzati, sia di terra che di tradizioni. Ma ciò è conseguenza della politica cinese intrapresa negli ultimi anni che ha creato un'etica comunista del lavoro, capace di valorizzarsi con l'arricchimento personale, inteso come misura del successo dell'impresa. Una tale visione sociale, nata e cresciuta in un contesto di assenza di regole e diritti ha finito per favorire quelle forme di accumulo di capitale capaci di sfuggire al controllo dello stato, che hanno contribuito, allo stesso tempo, sia alla fortuna, che alla deviazione del sistema. Il fatto è collegato alla crisi del lavoro cinese, che si sta concretizzando drammaticamente in una fuga dei maggiori marchi in altre nazioni dove le condizioni della vita dei lavoratori ed il minor costo del lavoro, che comprende anche i costi sostenuti dalle imprese per fare fronte alla corruzione, hanno un impatto, anche emotivo, di maggior favore per i consumatori. Del resto il fenomeno riguarda anche marchi cinesi ormai affermati, che iniziano a praticare la delocalizzazione al pari dei produttori occidentali. In questo modo interi distretti industriali si stanno svuotando, creando disoccupazione e tensioni sociali sempre più pesanti. Tutti questi fattori contribuiscono a fornire l'idea che il modello cinese, stia entrando in crisi perchè avvitato su se stesso e non in grado di aggiornare la sua struttura apparentemente granitica, ma in realtà sorpassata dai tempi e sopratutto dai fatti.
venerdì 26 ottobre 2012
Londra potrebbe negare le proprie basi agli USA per l'attacco all'Iran
Con la situazione iraniana che non pare evolversi in un senso positivo e la continua pressione di Israele per un attacco preventivo, gli Stati Uniti, pur cercando di evitare l'escalation militare, si trova a dover programmare la logistica in funzione della possibilità che l'opzione bellica si concretizzi. A questo scopo il Pentagono ha contattato diversi stati per il permesso di sorvolo e l'utilizzo di alcune basi militari, che possano permettere il rifornimento e la manutenzione dei velivoli militari. In particolare sarebbero stati avviati contatti con l'alleato principale degli Stati Uniti, il Regno Unito, per ottenerne la collaborazione, attraverso l'uso delle installazioni situate nel suo territorio. Il Ministero della difesa britannico, consultandosi con il ministero della giustizia avrebbe negato l'accesso e quindi l'utilizzo alle proprie basi militari perchè ciò andrebbe a violare il diritto internazionale. In parole povere il governo britannico o teme, in ragione degli ordinamenti internazionali, una sanzione da parte delle Nazioni Unite oppure teme le ritorsioni iraniane. In tutti i casi la negazione delle basi britanniche alle forze armate USA, costituisce una maniera per esprimere forte disaccordo con la possibilità di un attacco all'Iran. Questo elemento rappresenta una novità assoluta, sia per i rapporti molto stretti tra i due stati, che per quanto riguarda il panorama internazionale occidentale, dove grazie alla compattezza sulle sanzioni contro la Repubblica islamica, non sono mai state messe in conto possibili defezioni. Ma un attacco militare alzerebbe il livello della ritorsione, che comporterebbe una responsabilità di gran lunga maggiore se paragonata a sanzioni economiche, di fronte ad un conflitto, che rischierebbe di allargarsi oltre i confini della regione e potrebbe avere implicazioni di una portata molto vasta per il possibile uso di armamenti nucleari. Il no britannico apre quindi una spaccatura di non poco conto nell'alleanza occidentale per la contrarietà alla scelta di attaccare l'Iran. Sarà facile che all'atteggiamento di Londra si accodino le altre capitali europee, non certo favorevoli ad essere coinvolte in una guerra non certo condivisa. Recenti simulazioni hanno previsto che l'Iran potrebbe arrivare a colpire addirittura l'Italia con i suoi missili. Non pare credibile quindi, che ne l'Unione Europea, ne i singoli stati, vogliano appoggiare Israele e gli USA in una azione militare della quale non possono prevedersi gli sviluppi, neppure con la sola concessione delle basi presenti sui loro territori. Se questa sarà la tendenza che si affermerà, per Israele sarà sempre più difficile contare sull'appoggio dei paesi occidentali, neppure mettendoli di fronte al fatto compiuto. L'impressione è che la questione, per le cancellerie occidentali, se arriverà al punto di rottura, non sarà considerata affare loro. Questa situazione lascia Tel Aviv in un isolamento pressochè totale sull'argomento, che, però, potrebbe significare ancora meno cautela, perchè getterebbe il paese in preda ad un terrore ancora maggiore e ad un senso di accerchiamento capace creare i presupposti per una azione mal ponderata. Anche gli USA vengono messi in difficoltà, oltre che venire a mancare l'appoggio materiale, la negazione delle basi significa anche il venire meno dell'appoggio morale e politico ad una eventuale azione di forza. Ma nell'immediato la sensazione americana deve essere di smarrimento totale di fronte al rifiuto britannico, l'alleato da sempre più fidato. Se questa situazione fa il gioco di Obama, che può mettere sul tavolo, oltre la propria contrarietà, anche quella degli occidentali ad un attacco militare contro l'Iran, per rafforzare ancora di più l'azione delle sanzioni, preoccupa le sfere militari alle prese con una gestione molto difficoltosa di un'azione, che, comunque, non è stata ancora scongiurata; ed inoltre mette nei guai Romney, nell'eventualità di una sua elezione, che deve tenere conto dell'importanza del rifiuto britannico prima di proseguire nella sua intenzione, più volte dichiarata di bombardare l'Iran. Se l'opinone pubblica era concentrata sulla scena contraddistinta dal dualismo Iran- Israele, con gli USA dietro le quinte, la variabile inattesa della decisione britannica, rischia di portare scompiglio nel teatro della contesa: chiamandosi fuori le spalle di Washington, benchè larghe, non sembrano sufficienti per portare il peso di una responsabilità così grande.
Elezioni USA: gli uomini bianchi non votano per Obama
All'avvicinarsi della data delle elezioni presidenziali americane, nelle pieghe dei sondaggi, è uscito un dato che non è stato abbastanza messo i rilievo dagli analisti. Barack Obama non ha il sostegno degli uomini bianchi americani. Se questa situazione era già presente alla vigilia delle passate consultazioni elettorali, ora il fenomeno si è acuito, con Romney in vantaggio, su questa parte della popolazione, di ben 23 punti percentuali. Sul perchè il presidente uscente non riesca a sfondare in questo segmento di elettorato pesano considerazioni e motivazioni differenti. Prime tra tutte sono la mancata identificazione con le idee ed i provvedimenti che stanno alla base di Obama. Gli Stati Uniti non sono New York, nell'America profonda è ancora valida l'idea della supremazia sociale della figura maschile bianca, la retorica del bianco, anglosassone e protestante, in effetti non è mai tramontata, e le leggi in favore delle minoranze, sia etniche che sessuali, non hanno mai fatto breccia in quella che è la classe dominante statunitense: l'uomo bianco, che detiene la maggiore percentuale di ricchezza del paese e si identifica con la legislazione liberista propria del partito repubblicano. Scalfire le convinzioni di questa figura sociale emblematica, che incarna il sogno americano delle origini, non è ancora socialmente possibile. In questo aspetto gli Stati Uniti, si rivelano ultra conservatori ed anche non al passo con i tempi. La politica repubblicana, infatti, dal punto di vista sociale si ostina a presentare una immagine della società ancora fondata su valori familiari tradizionali, che spesso non rispecchiano l'effettiva fotografia della composizione del tessuto sociale americano. Vi è poi una questione razziale difficile da scalfire, l'icona del presidente di colore, che è stata presentata al mondo come una conquista della parità, all'interno della nazione non ha avuto un tale ritorno di immagine ed anzi, per certi versi, anche grazie a notizie false che hanno alimentato campagne denigratorie contro Obama, in vasti settori di razza bianca, l'insediamento di un uomo di colore alla massima carica statunitense, e quindi del mondo, è stato vissuto come una autentica usurpazione. La parte sociale che ha avuto questi sentimenti è stata proprio quella composta dagli uomini bianchi, che però non possono tutti essere di ceto elevato, cioè non basta fare una discriminante del reddito per individuare le ragioni dei contrari ad Obama, occorre, invece, cercare motivi ulteriori, come quello razziale, per spiegare un fenomeno che sembra avere radici che sfiorano la psicopatologia di questa parte di elettorato. La mancata accettazione di un presidente di colore appare una presa di posizione che prescinde, in molti casi, dal suo operato effettivo, è, cioè, una scelta a priori che si fonda sulla convinzione, putroppo ancora presente, della supremazia dei bianchi sui neri e ciò risulta essere ben triste nel 2012 e dimostra come quella che è dichiarata la più grande democrazia del mondo sia, in realtà, ben lontana da raggiungere tale livello. Questo dato dei sondaggi, pone quindi l'accento su di una polarizzazione estrema della società americana che è tutt'altro che amalgamata come si crede all'estero, gli stereotipi dell'America del sud, sono purtroppo non solo luoghi comuni ma tristi realtà, che si ritrovano anche ad altre latitudini del paese. Lo stesso Obama è apparso rassegnato di fronte a questa realtà, concentrando i suoi sforzi in campagna elettorale verso l'elettorato di colore e quello ispanico, dove il vantaggio attribuito, potrà risultare fondamentale per il risultato finale. In ogni caso la riflessione finale non può che vertere sulla reale natura del paese che sempre si è identificato come quello delle opportunità e della realizzazione, dati come questo dimostrano quanto quella immagine da cartolina sia lontana.
giovedì 25 ottobre 2012
Berlusconi non si ricandiderà a capo del governo italiano
Con l'annuncio del ritiro dalla candidatura alla corsa elettorale nella veste di candidato premier, Silvio Berlusconi pone la fine alla sua era politica, durata diciotto anni. Pur non trattandosi di una uscita di scena politica totale e definitiva, l'intenzione è quella di rimanere dietro le quinte del suo partito come consigliere e padre nobile, la svolta per tutto il panorama politico italiano è cruciale. Sia da destra che da sinistra, si respira un'aria di scoramento, da una parte per l'assenza futura dall'impegno in prima persona e dall'altra per la mancanza dell'avversario storico di tanti anni, bersaglio costante e fattore di unificazione delle opposizioni. Nei fatti l'uscita di scena è stata una scelta obbligata da diversi fattori e non certo, come affermato, una scelta autonoma e responsabile. Per prima cosa hanno pesato i risultati fortemente negativi dell'economia italiana, condizionati dagli ultimi anni costellati da decisioni sbagliate, che hanno obbligato il Presidente della Repubblica, ha chiamare al governo un gruppo di tecnici, per raddrizzare, almeno nei numeri complessivi, bilanci disastrosi. Ma non meno decisiva è stata l'implosione del partito creato da Berlusconi, Il Popolo delle Libertà, con presupposti non in grado di legare le varie componenti, formate dalla destra estrema assemblata agli ultra liberisti; un partito di plastica, unito solo grazie al carisma del suo fondatore, che ha esercitato il ruolo di padre padrone, ma anche quello di parafulmine. Lo scarso controllo sull'apparato periferico, lasciato libero di proliferare grazie ad arricchimenti indebiti, che hanno provocato scandali di impatto pesantissimo sull'immagine complessiva della forza politica, ha, alla fine, determinato una sorta di tutti contro tutti, dove la vittima designata è stata proprio il partito stesso. Sceso nei sondaggi addirittura al terzo posto, superato anche da un movimento creato da un comico, il Partito della Libertà si stava dissolvendo nelle liti interne, condannato a scissioni che avrebbero ridimensionato drasticamente il peso politico degli autodefiniti moderati. La mossa di Berlusconi, per quanto obbligata, segnala una sensibilità politica ed una capacità operativa, che rappresentano le uniche possibilità di salvezza per il partito. Facendosi da parte da candidato premier, Berlusconi, può riacchiappare quei voti che la destra avrebbe consegnato all'astensionismo piuttosto che optare per il vecchio premier. Ma questa è solo la metà dell'opera, Berlusconi ha lanciato la sua successione con le primarie, il partito deve ora camminare da solo e l'interrogativo più difficile è vedere se resisterà unito senza il suo maggior fattore di amalgama. Il movimento appare tutt'altro che coeso e le candidature esprimono posizioni politiche molto distanti, la scadenza della consultazione per la successione è brevissima, le primarie sono previste per dicembre, e non è esclusa la fuoriuscita dal partito, come già accaduto con Tremonti, di pezzi del movimento per la formazione di nuovi schieramenti. Il quadro è quindi a tinte fosche, tuttavia dall'altro lato dello schieramento le cose non appaiono differenti. Il principale partito di opposizione dato vincente fino ad ora dai sondaggi, più per mancanza di concorrenza che per reali capacità, è altrettanto lacerato da un conflitto interno che, in apparenza pare contrapporre la nuova alla vecchia guardia, in realtà mette di fronte visioni diametralmente opposte del concetto di sinistra. Qui si è ancora più vicino alle consultazioni primarie per designare il candidato premier e le due correnti che possono ambire alla vittoria, la terza quella che si rifà a posizioni vicine all'ultra sinistra non ha alcuna possibilità di affermazione, rappresentano una la copia di un liberismo attenuato simile alle politiche di Blair, l'altra un confusionario compromesso tra il lavoro ed il capitale difficile da comprendere. Se con Berlusconi in campo anche una opposizione così sgangherata avrebbe vinto di sicuro, senza, la certezza viene meno, andando così a rendere determinante il tanto odiato avversario, che cancellandosi dalla competizione da un colpo non decisivo ma pesante, alle aspirazioni della sinistra di andare al governo. Ma l'unica certezza è che ancora una volta Berlusconi gioca un ruolo da protagonista, sebbene questa volta indiretto, della politica italiana. Le prossime tappe di avvicinamento alle elezioni di Aprile riserveranno ancora sorprese, rendendo sempre più incerto l'esito della competizione, da ora tutto è riaperto
mercoledì 24 ottobre 2012
Per Grecia, Portogallo e Spagna sciopero contemporaneo contro l'austerità
L'Europa comincia ad unirsi anche dal basso. Se finora a rendere sempre più vicini e collaborativi tra di loro i governi della UE erano i problemi economici, la cui soluzione è finora andata, in modo univoco, nella direzione di soddisfare i grandi capitali e le istituzioni bancarie e della finanza, il giorno 14 novembre andrà, per la prima volta in scena, uno sciopero generale contemporaneamente in tre paesi. Saranno infatti Grecia, Spagna e Portogallo, guarda caso le tre nazioni i cui popoli sono stati maggiormente colpiti dalle misure dei rispettivi governi, a manifestare contro il ricorso esagerato a politiche di austerità, che hanno compromesso il funzionamento dello stato sociale, peggiorando sensibilmente la qualità della vita dei ceti meno ricchi e più poveri e portato l'economia ad uno stato di sofferenza per la contrazione dei consumi. Protagonista di questa manifestazione è la Confederazione europea dei sindacati, organizzazione che riunisce 85 sindacati di 36 paesi, che inaugura con questa giornata di sciopero una strategia a più ampio raggio per ottenere una maggiore visibilità per cercare di contrastare le politiche recessive dei governi europei. Già in altre occasioni si erano ospitate delegazioni di paesi stranieri durante gli scioperi dichiarati in altre nazioni, fenomeno che ha posto l'accento sul bisogno di una strategia sindacale capace di riunire i sentimenti che sempre più accomunano i popoli europei, ma mai si era riuscito a proclamare una giornata di protesta lo stesso giorno in tre nazioni differenti. Il tema dello smantellamento del modello sociale europeo in favore dello spostamento di potere verso chi detiene la gran parte del capitale, per permettere alle aziende, con la scusa della crisi, l'attenuazione dei diritti dei lavoratori, è ormai un argomento che tocca la sensibilità di platee sempre più vaste. Il ricorso agli scioperi è ormai sempre più frequente ed in alcuni paesi la tensione sociale sta toccando picchi di difficile gestione, sia da parte delle forze politiche, che da quelle sindacali. I dati circa la disoccupazione in Europa dicono che più di 18 milioni di persone sono senza lavoro, di cui almeno un quarto nelle fasce giovanili e questo aumenta il fenomeno del precariato, spesso praticato con diritti sempre meno garantiti. I governi hanno scelto la strada di salvare le banche, addebitando il conto ai salariati ed ai pensionati, che oltre vedere ridotto il proprio potere d'acquisto hanno dovuto subire anche il taglio delle prestazioni sociali, misura che si aggrava ad ogni manovra finanziaria. Nella UE quello che viene individuato come vincente è il modello tedesco, tanto decantato per la sua capacità di esportare. Tuttavia le esportazioni della Germania sono dirette per il 60% della sua produzione all'interno del mercato dell'Unione Europea, quindi se la compressione della capacità di spesa delle altre nazioni europee andrà avanti, ad entrare in crisi sarà anche Berlino, che con i suoi prodotti non ha mai sfondato oltre i confini del vecchio continente. Questo dato deve fare riflettere i governanti europei, che si sono sottomessi alle misure volute essenzialmente dalla Germania, per la sua necessità di fare cassa subito. La locomotiva tedesca, infatti, appare forte con deboli ed il suo bisogno dell'euro è essenziale, una Germania con la propria valuta vedrebbe subito abbassarsi il proprio livello di esportazioni entrando in recessione. Se Berlino ha delle ragioni per pretendere bilanci rigorosi, ha ancora di più l'interesse ad ostacolare le imprese europee sue concorrenti, strangolandole dal lato finanziario, creando così la disoccupazione che attanaglia la maggior parte delle nazioni europee. Questo meccanismo sta diventando ben chiaro alle popolazioni europee dove l'avversione per la nazione tedesca si sta incrementando notevolemente, meno chiaro è come i governi accettino i diktat di Berlino praticamente senza obiettare alcunchè. Ma come vi è necessità di una unione politica paritaria per la sopravvivenza dell'Unione Europea, vi è altrettanta necessità di una unione sindacale, che sappia unire le diverse componenti nazionali e sappia creare una linea di difesa comune del lavoro e dello stato sociale con strategie in grado di rappresentare in modo globale le esigenze, sempre più frustrate, dei popoli europei. Questo passo dello sciopero comune in tre paesi è quindi un punto di partenza per dare una risposta alla continua violazione dei diritti e contro politiche economiche che offendono i ceti meno abbienti, ancora più importante perchè contiene in se il seme dell'unità dei lavoratori europei.
Israele sempre meno tollerante con gli arabi
La notizia che mette in risalto i risultati di un sondaggio in Israele, dove la popolazione ebraica si è espressa in maggioranza a favore della concessione di maggiori diritti ai cittadini di etnia ebrea rispetto ai cittadini israeliani di origine araba, che rappresentano il 20% della popolazione del paese, pone inquietanti interrogativi sulla tendenza del comune sentire dalla maggioranza della nazione e sulle possibili conseguenze sul tessuto sociale e della impronta politica futura del paese, alla vigilia delle elezioni. Anche perchè, tra le pieghe del sondaggio, è emersa anche l'opinione favorevole ad una annessione della Cisgiordania; se questa è una ipotesi remota, tale approvazione esprime però, in maniera chiara, l'appoggio alla politica del governo sulla espansione dei territori, provando che non vi è alcuna volontà di raggiungere un accordo con la controparte palestinese. La polarizzazione, sempre più spinta, della popolazione israeliana, con l'assenza di integrazione con la parte araba, rappresenta una società che tende sempre più ad isolarsi dal contesto mondiale fino a rinchiudersi in se stessa. Questa forma di auto isolamento, una quasi autosufficienza sociale, pone per il paese delle difficoltà pratiche ad un confronto sereno, sia sul piano internazionale in generale, sia su quello particolare della risoluzione del problema con i palestinesi; anzi per quest'ultimo caso, il risultato del sondaggio, rappresenta un chiaro rifiuto ad una soluzione condivisa, ma soltanto ad una risoluzione favorevole alla matrice ebraica del paese, che va, però, contro ogni buon senso. Se il 59% del sondaggio è a favore di privilegiare gli ebrei sugli arabi relativamente al lavoro nell'amministrazione dello stato, il 42%, è favorevole ad una sorta di apartheid, che separi materialmente le due etnie sia nelle scuole che nelle civili abitazioni ed esiste addirittura un 74% favorevole alla costruzione di strade separate, mentreil 69% sarebbe favorevole alla negazione dell'esercizio del diritto di voto alla minoranza araba, questi dati significano che il lavoro della maggioranza politica di destra ha trovato una coltura favorevole per potere imprimere in modo deciso le proprie idee. In effetti l'operato del governo in carica ha promosso una politica di forte discriminazione della minoranza araba tramite provvedimenti come quello che nega la cittadinanza israeliana al coniuge nato nei territori palestinesi o quello che favorisce l'acquisto di terreno per gli ebrei rispetto agli arabi. Sebbene a questo atteggiamento non corrisponda la totalità della popolazione ebrea, vi è stata indubbiamente una crescita dell'avversione ai concittadini arabi, che riflette la paura della società israeliana, una società che vede nemici ovunque e si sente accerchiata anche per le simpatie verso i palestinesi della maggior parte della opinione pubblica mondiale. In un contesto del genere è facile così pronosticare la vittoria, ancora più marcata, del governo in carica alle prossime elezioni. Un risultato elettorale che si quantifichi in una dote di voti consistente, permetterà, come è nelle intenzioni di Netanyahu, una ulteriore accelerata verso uno stato che tenderà ad una emarginazione ancora maggiore della minoranza araba, non cogliendo, invece, le opportunità e le potenzialità che una maggiore integrazione poteva fornire come contributo alla pacificazione dei due popoli ed alla risoluzione del problema annoso della mancanza di una patria per il popolo palestinese. Ma questa soluzione di buon senso, che toglierebbe, tra l'altro, uno degli alibi fondamentali per l'esistenza dell'estremismo islamico, non pare essere nei programmi di chi gestisce il potere a Tel Aviv, che, al contrario, pare perseguire l'intento di aumentare il più possibile la quota di territorio da annettersi e negare con scuse sempre nuove la possibilità della creazione di uno stato palestinese. In quest'ottica i risultati del sondaggio trovano la giusta collocazione, come espressione di un popolo che vuole concedere poco o niente ai suoi più prossimi vicini, con tutte le conseguenze del caso.
martedì 23 ottobre 2012
Le sfide del nuovo esecutivo cinese
L'esecutivo che uscirà dal congresso del Partito Comunista Cinese non riserverà sorprese: da marzo, come previsto la carica di segretario del partito e di Presidente del paese sarà ricoperta dall'attuale vice presidente Xi Jinping. Ben diverse, invece, saranno le problematiche che il nuovo esecutivo sarà chiamato a risolvere, in special modo sul lungo periodo. Se la diseguaglianza sociale, il pesante tasso di corruzione, la richiesta pressante di riforme politiche e le crescenti proteste tra la popolazione, rappresentano già sfide complicate, la possibilità della fine del modello cinese di sviluppo, incentrato sulle esportazioni e gli investimenti statali, rappresenterà il nodo cruciale dell'azione di governo per Pechino. Si tratta in realtà di argomenti legati l'un l'altro a filo doppio, tuttavia senza una strategia globale azzeccata che investa tutti i settori, principalmente quello economico e sociale, il rischio di implosione del paese è molto concreto. Tralasciando gli ovvii effetti e ricadute sul computo dell'economia globale del pianeta, per la Cina diventa fondamentale risolvere alcune questioni cruciali che stanno al proprio interno e che le soluzioni intraprese possono indirizzare il paese verso il fallimento, una sopravvivenza sotto gli attuali standard o un successo contraddistinto, però, da nuove condizioni interne. Resta difficile infatti, preconizzare un mantenimento degli attuali standard di crescita senza il supporto della soluzione delle contraddizioni del paese, fino ad ora mascherate da una crescita molto elevata. Il punto nodale della questione è proprio questo, la crisi mondiale ha compresso i valori a doppia cifra di crescita economica della Cina, necessari per mantenere ed incrementare lo sviluppo di un tessuto sociale enorme per quantità, a questa diminuzione Pechino si è opposto con interventi sempre più massicci dello stato, che è il vero motore economico, tuttavia, tali interventi sono diventati eccessivi ed hanno acuito gli effetti negativi di tali politiche. La diffusione sempre maggiore della corruzione, attraverso una organizzazione vetusta del partito, che nelle periferie dello stato ha ancora connotati feudali, ha generato la dispersione delle risorse, creando forti tensioni sociali a causa della grande disparità, sia tra centro e periferia, sia tra le stesse classi sociali di medesime zone. Tali fenomeni hanno mostrato tutti i limiti delle politiche sociali del partito, incentrate sulla negazione dei diritti sindacali e sul lavoro, favoriti per permettere una industrializzazione sempre più spinta; ma se tale politica dal punto di vista economico, non certo da quello sociale e legale, poteva essere giustificata nella prima fase di insediamento delle industrie e forse anche nel periodo immediatamente successivo, ora mostra tutta la sua anti economicità. La presa d'atto della necessità di migliori condizioni lavorative è sempre più spesso alla base delle tante proteste che attraversano la nazione. Sarà questo il primo problema da risolvere per potere risolvere gli altri: elaborare una politica che tuteli i diritti del lavoro che possa conciliarsi con l'assolutismo politico al quale il Partito Comunista Cinese non vuole rinunciare. Una delle strade per mantenere un tasso di sviluppo alto è sviluppare il mercato interno in maniera massiccia, si tratta di una mercato con ancora potenzialità enormi, ma che non decolla per la scarsa redistribuzione del reddito, ancora troppo concentrato in pochi settori di popolazione e zone geografiche particolari. Risulta paradossale come un paese che si dice comunista, soffra di problemi analoghi se non identici a quelli delle economie più capitaliste del pianeta. Secondo i sostenitori delle riforme i tassi di crescita previsti entro la fine del decennio saranno intorno al 5%, tale valore non può assicurare il miglioramento degli standard di vita che la gran parte della popolazione richiede a gran voce. L'unica strada per alzare il tasso di crescita è una riforma politica radicale che comprenda l'eliminazione dei privilegi delle aziende di stato, preveda di limitare i poteri dello stato nell'economia e sappia contenere l'influenza dei gruppi monopolistici attenuandone i privilegi fino alla loro completa eliminazione per consentire di aprire mercati concorrenziali in questi settori. Si tratta di esigenze ormai ben note, che richiedono, però, riforme radicali ed anche epocali in una organizzazione statale che da sempre ha usato la prudenza, entro la propria ottica, come termine di riferimento, ma senza le quali la transizione cinese non potrà compiersi.
lunedì 22 ottobre 2012
E se vince Romney? Il possibile cambiamento delle relazioni internazionali con gli USA
Secondo gli ultimi sondaggi sulle elezioni presidenziali USA, i due candidati sarebbero sostanzialmente alla pari, con un valore per entrambi di circa il 47% di gradimento. Se Obama pare favorito tra i grandi elettori, Romney dovrebbe, invece, godere, di un maggiore consenso popolare, questo fattore segnala che il comune sentire dell'elettorato americano si sta spostando verso quei valori fondanti dell'ideologia repubblicana, che mettono al centro, oltre al liberismo nel campo economico, la volontà di affermare la supremazia americana nel mondo. Questa incertezza profonda, che ha ribaltato l'andamento delle previsioni, rappresenta un problema per il mondo intero. La percezione nel resto del pianeta, infatti, è ancora per una vittoria di Obama, che resta favorito come lo era effettivamente qualche mese fa. Su questo dato si è fermata, sia la popolazione mondiale, che praticamente la totalità dei governi. Questo vuole dire che il mondo non è preparato ad una vittoria di Romney e che tutti i rapporti diplomatici con gli Stati Uniti sono ancora impostati con Obama presidente. La politica estera di Obama, pur mantenendo alcuni tratti distintivi della politica estera di Washington, ha subito un cambiamento considerevole nell'impostazione dei rapporti tra gli stati, tramite una azione contraddistinta da una azione maggiormente improntata al dialogo e spesso di secondo piano, sopratutto in quelle crisi regionali che riguardavano paesi dove la bandiera a stelle e strisce non era del tutto ben accettata. Questo non ha voluto dire smarcarsi da un impegno sul campo anche considerevole ed oneroso (si pensi alla Libia), ma lasciando la prima fila ad alleati sicuri, gli Stati Uniti di Obama hanno evitato di alimentare polemiche che potessero avere ripercussioni dirette sull'operato di Washington. Si è trattato, insomma, di un approccio totalmente nuovo, dove la maggiore propensione al dialogo, come nel caso iraniano, anche aspro, ha preso il posto dell'interventismo che ha caratterizzato le presidenze repubblicane precedenti. L'uso di strumenti alternativi all'opzione militare, come la pressione delle sanzioni, ma anche un maggiore uso delle missioni diplomatiche, hanno creato una inversione di tendenza nella politica estera americana, che si è materializzata anche su questioni meno strettamente geopolitiche, ma di uguale importanza come la materia economica, dove con la Cina, non si è mai arrivati a manovre protezionistiche in grado di complicare il movimento delle merci, sebbene inquadrate in una dialettica forte sopratutto riguardo al reale valore della moneta cinese. Anche con la Russia, antico nemico di stagioni passate, pur un interlocutore non certo democratico, il rapporto, anche se spesso contrastato non è mai trasceso fino a sfiorare crisi internazionali. La politica estera e diplomatica dell'amministrazione che sta per scadere e potrebbe non essere rinnovata, lascia un sistema di relazioni incanalate su binari ben determinati, con le strutture statali atte ad interloquire con il sistema centrale di Washington, che sono impostate su di una base di fondo che prevede un confronto delimitato da confini certi e sicuri. Ma se vincesse Romney questa costruzione diplomatica faticosamente elaborata da quattro anni di governo Obama, sarebbe completamente stravolta. Anche se il candidato repubblicano ha superato, perchè abilmente guidato, le gaffes iniziali e si dimostra maggiormente, ma non ancora sufficientemente, preparato in politica estera, i suoi intendimenti sono chiari. Le dichiarazioni, che devono comunque essere adeguatamente soppesate, vanno nella direzione opposta da quanto fatto fin qui da Obama. La volontà più volte ribadita di bombardare l'Iran e di assecondare la politica espansionistica americana, le provocazioni più volte dirette contro la Russia e l'atteggiamento minaccioso contro l'economia cinese, rivelano che la stagione del dialogo avrebbe la sua fine con l'elezione di Romney, il quale, anche se limitato dai diplomatici professionisti, che non gradiscono senz'altro questo tipo di approccio, pare indirizzare la sua politica estera verso una ripresa del protagonismo assoluto degli USA. Il ragionamento si basa sulla volontà di affermare la potenza, anche militare, americana, ma non tiene conto che negli ultimi quattro anni il mondo è profondamente cambiato ed Obama, che è meno progressista di quello che vuole fare credere, si è soltanto adattato al nuovo scenario. Se Romney non comprende, come pare, questo cambiamento si dovrà assistere ad una serie continua di tensioni diplomatiche, che potranno mettere a dura prova le relazioni degli Stati Uniti, indirizzando sforzi verso obiettivi anacronistici e di difficile realizzazione. Tuttavia, ciò che preoccupa è se le cancellerie mondiali saranno attrezzate a sufficienza per ammortizzare questa nuova possibile tendenza. L'impreparazione potrebbe generare reazioni di conseguente difficile gestione, che potrebbero andare a paralizzare diverse relazioni bilaterali con gli USA, creando ricadute sopratutto nell'economia e nella finanza che potrebbero ripercuotersi sul bilancio generale di un mondo sempre più globalizzato, dove gli effeti di un atto compiuto ad una latitudine si propagano alle altre con una velocità imbarazzante. Mancano soltanto poco più di due settimane alle elezioni ed è augurabile che tutti, ma proprio tutti gli stati, elaborino strategie alternative al rapporto con gli USA.
giovedì 18 ottobre 2012
Per una lotta alla fame senza gli OGM
Il problema della fame nel mondo sta andando di pari passo con lo sforzo dei produttori di OGM di determinare il successo dei loro prodotti e della loro tecnologia. Sul dibattito della diffusione degli OGM vi sono tendenze contrarie e favorevoli, che da un lato sono fortemente negative a tale scelta per l'impatto sull'ecosistema, mentre dall'altro lato gli assertori di tali tecniche crecano di promuoverle in nome di una maggiore sicurezza e diffusione dei prodotti agricoli, che verrebbero più facilmente coltivati. Il gran numero di persone ancora alle prese con problemi di nutrizione offre a chi è favorevole agli OGM un appiglio non di poco conto, sopratutto se messo in relazione con la scarsità delle risorse alimentari. Tuttavia non è questa l'ottica corretta da cui guardare il problema, perchè un'analisi globale indica che più che la quantità di cibo disponile, il vero ostacolo per una maggiore nutrizione è l'accesso alle risorse alimentari. Certamente se ci si vuole limitare a prendere in esame i singoli territori dove il problema della fame è più pressante, si ha anche a che fare con gli scarsi quantitativi di produzione, legati, peraltro, ad una serie di fattori che si possono slegare dal mancato impiego degli OGM e che vanno dalle condizioni climatiche, alle scarse conoscenze tecniche, fino all'arretratezza dei mezzi di produzione. Su questi aspetti l'impegno dei governi dei paesi in questione deve essere stimolato attraverso aiuti internazionali, che possano permettere di raggiungere l'autosufficienza alimentare; ma ciò è possibile senza impiegare gli OGM, che, se in un primo momento potrebbero facilitare la produzione in quantitativi maggiori, successivamente porterebbero squilibri agli ecosistemi, tali da ripresentare la situazione di partenza. Nella fase di immediata urgenza sarebbe preferibile, invece, spostare le derrate alimentari in modo da favorirne l'accesso; ciò avrebbe ricadute positive, dal punto di vista dell'ambiente anche nelle regioni ricche. Le statistiche dicono, infatti, che la quantità globale di cibo prodotta è già sufficiente ad eliminare il problema della denutrizione. Attualmente vi sono l'equivalente di 4.972 calorie al giorno a testa prodotte nel mondo sotto forma di colture, ma soltanto 2.468 sono utilizzate per l'alimentazione, la parte restante è impiegata per l'allevamento intensivo del bestiame, che tra l'altro produce grossi quantitativi di anidride carbonica, per la produzione di idrocarburi, che dopo alcuni cicli di coltura rendono i terreni praticamente sterili, ed infine vi è lo spreco dei prodotti invenduti e quindi trasformati in rifiuti a causa delle errate politiche di acquisto delle grandi catene alimentari. Queste considerazioni portano direttamente alla necessità di una razionalizzazione dei sistemi di produzione e di distribuzione, che possano favorire nei paesi ricchi, attraverso un consumo più consapevole e possibilmente a chilometri zero, un miglioramento dell'ambiente e nei paesi poveri un indirizzamento della produzione in eccesso a prezzi calmierati, capace di portare alla risoluzione definitiva il problema della denutrizione, in attesa dell'indipendenza alimentare, che deve essere perseguita di pari passo. Ma il problema OGM non è soltanto in relazione alla denutrizione, come i produttori di queste tecnologie vogliono fare credere: la spinta della ricerca del maggior guadagno possibile non ha lasciato immune il settore agricolo, che, a seguito dell'industrializzazione sempre maggiore del settore, sta ricercando in maniera spasmodica rese sempre più alte dalle coltivazioni impiantate. Ma il punto debole è proprio nell'eccessiva industrializzazione del settore, non tanto nella componente meccanica, quanto nell'uso ormai sfrenato della chimica, che ha determinato l'abbandono di quegli usi consuetudinari dei contadini, che però assicuravano la bontà del raccolto. Preferire l'uso dei pesticidi e dei concimi chimici, anzichè optare per l'impiego di fertilizzanti biologici e praticare la successione delle colture, che permettono di mantenere inalterate le proprietà del suolo, si sono rivelate, nel lungo periodo scelte dissennate, dopo che nel breve periodo avevano permesso guadagni più elevati. Queste considerazioni vanno ad innestarsi direttamente sulle politiche di sviluppo delle zone povere, dove l'agricoltura deve essere il primo settore per importanza nel raggiungimento dell'autosufficienza alimentare. Tali tecniche, quelle tradizionali, necessitano di maggiore investimento e sopratutto di una maggiore attesa in termini di tempo in relazione al risultato, perciò è importante sviluppare un accesso al credito che preveda forme agevolate e facilitate, capaci di creare un'autonomia finanziaria che abbia il requisito della solidità per le aziende agricole dei paesi in via di sviluppo. Pur essendo diverse le caratteristiche necessarie a sviluppare una agricoltura senza OGM, i vantaggi per le collettività coinvolte sono senza dubbio maggiori: una maggiore sostenibilità per l'ambiente, nel lungo periodo produzioni agrarie assicurate e prodotti non modificati. Risulta ovvio che questi concetti devono essere condivisi, sia a livello statale che sovrastatale, i soggetti coinvolti sono molteplici, ma i risultati potenzialmente ottenibili sono di gran lunga un obiettivo sempre più essenziale da iscrivere al bilancio socio economico del pianeta.
mercoledì 17 ottobre 2012
Netanyahu vuole legalizzare gli insediamenti in Cisgiordania
Nonostante il parere contrario del ministro della difesa Ehud Barak, Netanyahu, con l'approssimarsi della fine della legislatura, cerca di regolarizzare gli insediamenti dei coloni costruiti in Cisgiordania. La manovra ha un senso politico, il primo ministro uscente e capo del Likud, che ha deciso di anticipare le elezioni, forte di sondaggi favorevoli, non vuole correre alcun rischio e punta con il provvedimento che ha intenzione di approvare, ad avere il pieno appoggio dell'estrema destra nazionalista. Secondo Netanyahu, il provvedimento avrebbe basi legali, grazie alla favorevole relazione redatta da una commissione di giuristi, guidati dall'ex giudice della Corte Suprema Edmond Levy, che respinge l'illegalità delle colonie. La manovra di avvicinamento per portare a termine il contrastato obiettivo, parte dalla necessità di migliorare la vita degli abitanti delle colonie, ma contiene gli strumenti per rendere maggiormente flessibili i requisiti amministrativi e legali, che possano facilitare la costruzione di altri insediamenti grazie ad un iter burocratico più veloce. Il timore di ripercussioni sui già difficili, proprio per questi argomenti, rapporti con la comunità internazionale, hanno determinato le dichiarazioni del Ministro dei Trasporti e leader del Likud, Israel Katz, che ha affermato, che la misura non è una dichiarazione di sovranità su queste porzioni di territorio e neppure una annessione della popolazione palestinese; tuttavia ciò appare in chiaro contrasto con quella che sembra la volontà, sopratutto politica, del provvedimento. Il dato più evidente è però la mancanza di una linea comune anche all'interno dello stesso governo di Tel Aviv: se da una parte il ministro della difesa, per cercare di riavviare il dialogo con i palestinesi, si sbilancia con il capo dell'ANP su di un possibile ritiro dalla Cisgiordania, il provvedimento caldeggiato da Netanyahu va nella direzione opposta. Questi segnali di contrasto erano già emersi in più occasioni relativamente alla necessità di attaccare l'Iran, ma parevano divergenze su ragioni di opportunità più che di merito, in questo caso, invece, le linee di condotta dei rispettivi membri del governo paiono divergere completamente. Se Netanyahu agisce in nome di esigenze contingenti, come le elezioni sempre più prossime, Barak pare avere una visuale più ampia, che tiene conto, cioè, dell'impatto di un tale provvedimento sulle relazioni diplomatiche di Israele, destinate a deteriorarsi ulteriormente ed ha rendere il paese ancora più isolato. Una condizione non proprio ottimale per una nazione che potrebbe scatenare una guerra con conseguenze sicuramente nefaste, ma anche imprevedibili, data la posta in gioco. L'opposizione israeliana si attesta su questa linea e ritiene dannoso per il paese regolarizzare le enclaves illegali. Vi è poi la questione della giustificazione legale adotta su cui si vuole basare il provvedimento e che praticamente invalida gli accordi del 1967. La tesi è che prima di quell'anno l'unica nazione riconosciuta ad avere sovranità su quei territori era Israele, dopo quella data nessuna nazione ha esercitato la sovranità sulla Cisgiordania e quindi la continuità temporale dell'esercizio della sovranità giustifica l'esistenza delle colonie. Questo argomento contorto e privo di sussistenza giuridica rischia di diventare un valido argomento per gli estremisti di entrambe le parti, ed il suo uso indiscriminato ed irragionevole non può essere accolto dalla comunità internazionale. Israele ancora una volta, conta sul silenzio colpevole delle Nazioni Unite, che dovrebbero reagire immediatemente con tutti gli strumenti legali a loro disposizione contro Tel Aviv, per impedire una tale violazione, che può portare a sviluppi molto pericolosi ed anche gli Stati Uniti, principale alleato degli israeliani, dovrebbe adoperarsi per scongiurare l'applicazione di una tale volontà. La reazione dei palestinesi è stata scontata quanto, fino ad ora, composta. L'ANP ha ribadito l'inesistenza di alcun fondamento delle pretese israeliane sui territori della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, definendo ridicolo il provvedimento promosso da Netanyahu.
L'Iran potrebbe inquinare lo stretto di Hormuz
L'Iran potrebbe usare il terrorismo ecologico per cercare di attenuare le sanzioni di cui è oggetto da parte dei paesi occidentali, per la questione della bomba atomica. Il piano, che sarebbe stato messo a punto dal capo della Guardia rivoluzionaria dell'Iran, Ali Jafari Mohammed, prevederebbe di inquinare lo stretto di Hormuz mediante una immissione di greggio, che dovrebbe portare alla chiusura della navigazione. L'attuazione del piano si dovrebbe concretizzare con lo schianto di una nave cisterna contro una determinata zona rocciosa dello stretto, accessibile soltanto alle autorità iraniane. La messa in pratica di tale piano costituirebbe una sanzione diretta dell'Iran all'economia mondiale, in quanto il blocco del transito delle cisterne dei paesi arabi affacciati sul Golfo Persico, andrebbe a costituire un ostacolo molto rilevante all'economia globale con ovvie ricadute sui prezzi del greggio. Ma, insieme a questo obiettivo, l'Iran ne può conseguire contemporaneamente anche altri. Il primo è proprio quello di danneggiare le economie petrolifere dei paesi arabi ostili all'Iran, per prima l'Arabia Saudita, il secondo è quello di costringere l'occidente ad attenuare le sanzioni per potere materialmente operare, anche insieme ad organizzazioni iraniane, alla ripulitura dei tratti di mare inquinati.
La strategia iraniana gioca, insomma, su più fronti per cercare di attenuare gli effetti delle sanzioni, che malgrado alcune eccezioni, stanno incominciando a mettere in seria difficoltà il regime. Questo piano, per la verità non è nuovo, ed è stato minacciato più volte nel caso si verificasse l'ipotesi dell'attacco da parte di Israele ed USA, ma l'intenzione di metterlo in atto a prescindere dalla messa in pratica delle minacce di Tel Aviv, può soltanto significare che Teheran potrebbe tentare una mossa della disperazione per attenuare gli effetti economici delle sanzioni sul paese. Tuttavia un tale azzardo esporrebbe l'Iran a misure ancora più pesanti ed aggiungerebbe nuove motivazioni per una azione militare, su cui potrebbero convergere anche altre potenze. Sono, probabilmente, queste valutazioni, che hanno impedito, al leader supremo iraniano, l'ayatollah Ali Khamenei, di dare il via, per ora, all'operazione di ecoterrorismo.
martedì 16 ottobre 2012
Autorità Palestinese e Israele tornano ad incontrarsi
Una riunione riservata, avvenuta in Giordania, tra il Presidente dell'Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, ed il ministro della difesa israeliano, Ehud Barak, avrebbe riguardato la possibilità di riallacciare i contatti tra le due parti, in vista di una possibile ripresa dei colloqui di Pace. E' dal settembre 2010, che i colloqui ufficiali sono sospesi a causa del rifiuto di Tel Aviv di bloccare gli insediamenti dei coloni israeliani sui territori della Cisgiordania. Ai colloqui avrebbe assistito il Re di Giordania, che avrebbe anche ricoperto il ruolo di mediatore. La Giordania è ormai l'unico paese arabo ad avere contatti formali con Israele ed è ritenuto da questi praticamente un alleato, tanto da pensare al coinvolgimento della nazione giordana nella strategia di un possibile attacco all'Iran, che dovrebbe comprendere il benestare per il sorvolo dello spazio aereo giordano all'aviazione militare di Tel Aviv, diretta a colpire gli obiettivi sensibili iraniani. Ma la Giordania è anche un alleato americano, ritenuto di fondamentale importanza strategica per la sua posizione. Queste due certezze potrebbero delineare che dietro l'incontro tra ANP ed Israele, non ci sia soltanto la volontà di pacificare l'area da parte del monarca giordano, ma qualcosa di più. La necessità di chiudere o perlomeno di sistemare in modo sostanziale la questione palestinese, almeno per la parte inerente alla Cisgiordania, potrebbe essere una necessità di natura politica ormai improcrastinabile per Israele, se l'attacco all'Iran fosse ormai imminente. Quella proposta ad Abbas è una soluzione che prevede il ritiro unilaterale dalla Cisgiordania da parte di Israele, tuttavia senza la definizione chiara e certa dei confini tra i due stati. E' proprio questo che non convince il Presidente dell'Autorità palestinese, che punta al riconoscimento del proprio stato con una delimitazione fissata e riconosciuta da Tel Aviv. In effetti la proposta israeliana, sebbene contenga elementi di novità, che segnerebbero, se attuati, passi avanti di indubbio valore nel processo di pace, proprio per la sua non completa certezza sulla definizione dei confini, lascia adito a sostanziosi dubbi sulla reale intenzione di definire la questione, quanto piuttosto sia tesa a soddisfare una volontà contingente dello stato israeliano, derivante dalla necessità di dimostrare ai governi arabi, una intenzione di dare una soluzione al problema palestinese. La ragione politica che sta dietro a questa mossa è quella di fornire ai vari governi di matrice sunnita, ma pur sempre arabi, una argomentazione che possa attenuare le reazioni popolari ad un attacco contro Teheran. Se pubblicamente, infatti, stati come l'Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo Persico, non possono appoggiare un'azione militare contro l'Iran, stato pur sempre musulmano, da parte israeliana, la possibilità di danneggiare il maggiore regime teocratico scita è una eventualità che giocherebbe tutta a loro favore.
Anche il Portogallo colpito dalle misure anticrisi
Anche il Portogallo entra nella fase acuta della difficoltà per la crisi finanziaria. Il pesante passivo di bilancio del paese lusitano obbliga l'esecutivo in carica, di orientamento conservatore, ad agire nei modi consueti con i quali i governi dei paesi del sud europa hanno affrontato la questione e cioè un aumento generalizzato delle tasse che va a colpire i redditi bassi e medi, accompagnato da un drastico taglio del sistema del welfare. Questo schema è, ad oggi, il tratto comune che distingue più di tutti, l'appartenenza all'Unione Europea dei paesi colpiti dalla crisi economica. Si tratta di un insieme di riforme finanziarie che hanno come scopo la riduzione del debito dello stato, andando a colpire la parte del tessuto sociale che vive di salari e pensioni, che vedono ridotto il loro potere d'acquisto e contemporaneamente diminuite le prestazioni socio assistenziali, per le quali pagherebbero le tasse. L'esecutivo di Lisbona, oltre al problema materiale del debito pubblico, ha un problema di scarso gradimento nei sondaggi, che spera di risollevare tramite il recupero del gradimento all'estero ed in special modo negli apparati comunitari, dove, per essere apprezzato, deve mantenere una linea di profondo rigore, tralasciando le ovvie conseguenze sociali. Passos Coelho, il capo del governo portoghese, ha affermato che non devierà dalla linea intrapresa per sanare il bilancio dello stato, restando indifferente alle critiche di chi, come l'ex Presidente della Repubblica Jorge Sampaio, ha intravisto nelle misure decise, un pericolo per l'ordinamento democratico, messo a dura prova da una austerità senza speranza. Dello stesso avviso anche il Presidente in carica, Aníbal Cavaco Silva, che non ritiene giusto perseguire a tutti i costi l'obiettivo della copertura del disavanzo. L'opposizione di sinistra, pur concordando sulla necessità dell'abbattimento del debito, non è d'accordo sui modi e sui tempi, in quest'ottica si inquadra la proposta di rinegoziare i termini del debito sovrano o, in alternativa, cambiare la durata degli interventi, per potere dilazionare i sacrifici imposti alla popolazione. Tuttavia anche l'esecutivo lusitano non vede il pericolo derivante dalla compressione del potere di acquisto, che va ad incidere, inevitabilmente, sia sulla circolazione di denaro e quindi sulla vendita delle merci, sia sul conseguente minore introito derivante dalla tassazione indiretta. Anche il Portogallo dovrà affrontare, come già Grecia, Spagna ed Italia, una diminuzione dei consumi che contrasta con i propositi di crescita che la riduzione del debito dovrebbe innescare. Risulta stupefacente come si continui ad applicare medesime ricette che portano ad eguali riscontri, senza apportare alcuna variazione capace di cambiare i risultati. Anche se non si vuole tenere conto della profonda ingiustizia sociale consistente nel fare pagare soltanto ad una determinata parte del tessuto della società, che è anche la meno colpevole, la responsabilità del debito accumulato, questa strategia, è ormai provato che non paga, perchè provoca una enorme contrazione della spesa, che provoca una decrescita economica, fenomeno che va nella direzione opposta di quello attraverso il quale si vorrebbe risollevare l'economia. I provvedimenti intrapresi dal governo del Portogallo hanno già scatenato manifestazioni e scioperi ed altri ne sono attesi e sono in preparazione, tutto il paese è attraversato da sentimenti contrari alle disposizioni decise, Lisbona si affianca quindi ad Atene, Madrid e Roma nel deterioramento della pace e della coesione sociale, facendo percepire l'Unione Europea e la Germania come i nuovi nemici delle popolazioni degli stati dell'Europa del sud: un sentimento sempre più diffuso e pericoloso.
mercoledì 10 ottobre 2012
L'attacco all'Iran è più vicino?
Due fatti, apparentemente scollegati, possono indicare che la strada verso un probabile attacco all'Iran si sta avvicinando. Nel primo caso il premier israeliano Netanyahu, ha annunciato l'intenzione di indire le elezioni anticipate, da effettuarsi nei primi mesi del 2013, quindi in un lasso di tempo ristretto, anzichè ad ottobre scadenza naturale della legislatura, ufficialmente per approvare un bilancio fortemente restrittivo, basato su misure di forte austerità, che sarebbe impossibile ottenesse il voto favorevole necessario con l'attuale composizione del parlamento. Tuttavia, sebbene la situazione economica israeliana risenta della crisi, come peraltro il resto del mondo, il guadagno di nove o dieci mesi, pare più funzionale ad impedire all'Iran di costruire la bomba, che mettere riparo ai problemi economici. Quella contro l'Iran è una lotta contro il tempo, ma l'assetto democratico di Israele non ha i margini di manovra così ampi come quelli del governo iraniano; nel tessuto sociale e politico israeliano il dibattito sull'opportunità di scatenare un attacco preventivo sta lacerando il paese ed il premier in carica vuole imprimere una svolta decisa, che legittimi la sua posizione. Quello che appare è però un paese in preda alla paura, dove i favorevoli all'attacco preventivo stanno crescendo, facendo crescere simultaneamente i consensi verso Netanyahu, come testimoniato dai sondaggi. A questo punto la strategia del governo in carica appare chiara: legittimare con un risultato elettorale che pare scontato, la volontà di attaccare l'Iran. Se ciò si verificherà, a prescindere dal candidato vincente nella competizione USA, sarà impossibile per il nuovo presidente USA, in special modo se sarà Obama, non tenere conto della volontà del popolo israeliano. La possibilità è ritenuta fortemente verificabile dagli USA, e qui si verifica il secondo fatto che diventa un indizio, che hanno infatti inviato, in forma segreta, ma non troppo, un contingente di 100 unità in Giordania per aiutare il paese medio orientale a fronteggiare il grande afflusso di profughi siriani in fuga dalla guerra civile. Secondo le indiscrezioni si tratterebbe di personale militare altamente specializzato, che sembra fuori ruolo nel compito ufficialmente affidatogli. La Giordania, nella regione, è l'unico alleato su cui può contare veramente Israele, sopratutto per il passaggio dei propri aerei da bombardamento, che potrebbero essere impiegati contro l'Iran. Quella americana, insomma pare una missione esplorativa, se non organizzativa di un qualcosa che potrebbe avvenire in tempi relativamente brevi. Il collegamento dei due fatti a questo punto è impossibile da non vedere, l'eventualità di un attacco all'Iran, nonostante le sincere intenzioni di Obama di scongiurarlo, è ormai ritenuta fortemente probabile. Politicamente, del resto, se si verificheranno le condizioni previste da Netanyahu, sopratutto in coincidenza dell'avvicinarsi dello scadere del tempo stimato affinchè l'Iran possa avere a disposizione l'ordigno nucleare, sarà ben difficile uno scenario differente da quello fortemente voluto dall'attuale governo israeliano. Anche per gli USA non pare esserci più grande margine di operatività, nonostante l'esito delle elezioni sia sembre più incerto, anzi una vittoria di Romney, che si è più volte dichiarato favorevole all'attacco all'Iran, probabilmente consentirebbe a Netanyahu una accelerata, che potrebbe permettergli di anticipare l'operazione militare ancora prima della consultazione elettorale, pensata in funzione di una vittoria di Obama.
martedì 9 ottobre 2012
L'Iran può avere l'atomica entro 14 mesi
Secondo le stime dell'Istituto per la Scienza e la Sicurezza Internazionale, un organismo indipendente statunitense, l'Iran potrebbe arrivare ad avere la bomba atomica in un periodo massimo di 14 mesi, così suddivisi: dai due ai quattro mesi per l'arricchimento della quantità necessaria alla costruzione dell'ordigno, stimata in circa venticinque chilogrammi di uranio altamente trattato, e dagli otto ai dieci mesi per la costruzione materiale della bomba. Il tempo stimato coincide praticamente con quanto affermato dal Segretario della Difesa USA, Leon Panetta, che ha valutato in circa dodici mesi il tempo necessario a Teheran per diventare una potenza nucleare, qualora la decisione presa dal governo dell'Iran andasse in quella direzione. Una volta in possesso della quantità necessaria di uranio arricchito, si ritiene che per i tecnici dell'AIEA, sarà impossibile rilevare i progressi e gli avanzamenti nella costruzione della bomba atomica del paese iraniano. A questo punto l'unica via per evitare una guerra preventiva, come più volte caldeggiato da Israele, e nello stesso tempo impedire la produzione dell'arma nucleare, è impedire a Teheran i rifornimenti di uranio. Tale soluzione, l'unica che può effettivamente scongiurare un conflitto, le cui conseguenze non sono immaginabili, pare però non facilmente praticabile: nonostante le restrizioni a cui è sottoposto il paese iraniano, da gran parte, ma non da tutta, la comunità internazionale, l'isolamento non è completo e Teheran può percorrere diverse vie che possono assicurargli le forniture della materia prima necessaria alla costruzione dell'ordigno. Verosimilmente, quindi, quella che si svilupperà, almeno nel breve periodo, sarà la guerra sotterranea e non dichiarata già in atto tra Israele ed Iran, che ha portato, attraverso numerosi attentati, all'eliminazione di diversi studiosi, da una parte, e l'esecuzione di atti terroristici dall'altra, in una continua rincorsa di ritorsioni. D'altra parte l'atteggiamento ufficiale iraniano è quello di sviluppare l'energia nucleare esclusivamente per scopi pacifici, anche se gli ostacoli frapposti alle ispezioni degli inviati dell'AIEA sono sempre stati di livello tale da impedire gli esami richiesti, comportamento che ha alimentato sospetti che hanno sconfinato nella certezza sulle reali intenzioni del paese scita. Se Mahmoud Ahmadinejad continua, comunque a mantenere la sua posizione che non prevede interruzione alcuna del programma nucleare iraniano, malgrado il grave crollo della moneta nazionale, principalmente dovuto agli effetti delle sanzioni economiche, resta però difficile capire il suo calcolo, che pone il paese in grave difficoltà economica, per la costruzione di un ordigno che può portare soltanto l'avversione delle potenze mondiali. Se il progetto è quello di diventare, attraverso il possesso dell'arma atomica, una potenza in grado di guidare quei paesi e gruppi contrari principalmente ad Israele ed all'occidente, tale schema pare sovradimensionato alle reali potenzialità del paese, sopratutto in relazione alle possibilità di riuscita; e se anche l'obiettivo fosse quello di tenere sotto pressione continua l'intera regione mettendone in pericolo l'equilibrio, in una prolungata guerra di nervi, anche questa opzione pare difficilmente percorribile per i timori di Tel Aviv, che difficilmente saranno ancora tenuti a bada a lungo dagli USA. Sicuramente questo rapporto non farà che confermare quanto già in mano al governo israeliano con il risultato di accelerare i preparativi del tanto annunciato attacco.
Nel Mondo ancora 870 milioni di persone soffrono la fame
La FAO, l'organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura, ha quantificato in circa 870 milioni, le persone che nel mondo soffrono la fame e denutrizione. Tale cifra è ritenuta ancora, giustamente, inaccettabile, seppure diminuita dal dato rilevato nel 2010, che era di 925 milioni. Il processo di diminuzione, in avanzamento costante fino al 2008, dopo tale data ha subito un rallentamento dovuto principalmente agli effetti della crisi economica globale, che è andata ad influire sull'aumento dei prezzi dei generi alimentari, la speculazione oltremodo spinta verificatasi sulle materie prime, l'incremento della produzione dei bio combustibili ottenuti a spese della produzione dei generi alimentari e non ultimo il cambiamento climatico, che ha provocato ingenti periodi di siccità, che hanno compromesso i raccolti. La distribuzione degli 868 milioni di persone che soffrono la fame si concentra per 852 milioni nei paesi in via di sviluppo ed ammonta al 15% della popolazione totale, mentre la cifra restante, 16 milioni, si trovano nei paesi sviluppati. Geograficamente sono tre le zone dove si concentra la maggior parte delle persone denutrite: 304 milioni in Asia meridionale, 234 milioni nell'Africa sub sahariana e 167 milioni in Asia orientale, per un totale di 705 milioni di persone. Compiendo delle valutazioni relative al numero complessivo di popolazione, in Africa si rilevano le condizioni più critiche. Da non sottovalutare anche l'impatto dei conflitti sulla situazione della fame: sia guerre che si trascinano da tempo, che nuove emergenze che si sono verificate a causa dell'espansione del fondamentalismo, hanno spesso portato, tra le varie conseguenze anche la difficoltà all'approvigionamento alimentare per le popolazioni coinvolte. La FAO, nelle sue considerazioni per risolvere almeno in parte il problema, pone l'accento sulla necessità di una crescita selettiva, che, cioè, non sia prerogativa principale dei paesi ricchi, ma che interessi principalmente le nazioni dove è maggiore la concentrazione dei poveri, per essere tradotta in un miglioramento tangibile della qualità e della quantità dell'alimentazione. Per favorire questo aspetto è necessario agire per favorire la crescita agricola intesa come strumento principale nella lotta alla fame, non in maniera generica ma rendendola sempre più sofisticata per ottenere, oltre ad una maggiore qualità del cibo, anche una differenziazione degli alimenti, sia in chiave di arricchimento della dieta, che in chiave di diversificazione delle scorte, per fronteggiare aspetti quali le calamità naturali.
lunedì 8 ottobre 2012
Il pericoloso destino dell'Afghanistan
Secondo un recente rapporto dell'istituto di studi dell'organizzazione International Crisi Groupe il destino cui si sta dirigendo l'Afghanistan, dopo la partenza definitiva delle truppe NATO, prevista per il 2014, sarebbe di una acuta crisi politica, con la concreta possibilità di un ritorno dei talebani al potere. I gruppi radicali islamici hanno già governato il paese dal 1996 al 2001 e non sono mai stati del tutto sconfitti, nonostante lo spiegamento delle truppe dell'Alleanza Atlantica. Il governo afghano non è riuscito ancora ad esercitare completamente la sua autorità sull'intero territorio nazionale, dove sfuggono intere zone al suo controllo, grazie al profondo radicamento delle milizie islamiche. Lo stato di precaria stabilità dello stato è dovuto alla fragilità delle sue istituzioni, che sono spesso frutto di elezioni contraddistinte da un elevato numero di brogli; inoltre la preparazione dell'esercito e della polizia locali viene ritenuta insufficiente per il mantenimento dell'ordine pubblico e della minaccia del terrorismo, senza la protezione delle truppe della NATO. Nei ceti dirigenti e nelle istituzioni preposte, malgrado ci sia la consapevolezza delle tante difficoltà, non si ravvisano decisioni atte a risolvere i problemi connessi con l'organizzazione dello stato in modo da elaborare una strategia adeguata al momento della conclusione della missione internazionale. Anche il presidente Karzai, pare più propenso ad assicurare il potere al suo clan che ad aumentare la credibilità del sistema politico. Con queste premesse pare francamente impossibile scongiurare il ritorno dei Talebani al potere, ma per il panorama internazionale tale esito riaprirebbe scenari non auspicabili. A parte una situazione interna, seppure già molto difficile, destinata a peggiorare notevolmente, l'Afghanistan potrebbe diventare una centrale del terrorismo internazionale di matrice islamica capace di ridare slancio alla guerra santa contro l'occidente. Se pare ormai impossibile mantenere l'ingente quantitativo di truppe presenti, sia per ragioni politiche che economiche, abbandonare del tutto il governo afghano, sebbene in un tale contesto di corruzione e forse anche di incapacità politica, potrebbe rivelarsi letale, non solo per l'occidente ma anche per Russia e Cina. Certo molto dipenderà dal destino dell'Iran, ma se l'assetto politico attuale di Teheran non dovesse variare, potrebbe andarsi a costituire un blocco di territorio formato da Iran, Afghanistan e Pakistan, dove, senza soluzione di continuità, la presenza del fondamentalismo islamico sarebbe preponderante. Resta da vedere se sarà sufficiente la presenza degli istruttori militari e dei droni, destinati a combattere dal cielo le formazioni talebane. Questa soluzione di ripiego non pare sufficiente a riempire il vuoto, non solo militare, che si verrà a creare con la partenza della NATO. Forse il lato ancora peggiore sarà la partenza delle tante organizzazioni umanitarie, che senza l'adeguata protezione, non potranno più operare dando sollievo a contesti sociali di estrema difficoltà e la cui opera contribuiva non poco a cambiare la cultura delle popolazioni, permettendogli una maggiore apertura e contrasto verso pratiche di sottomissione vecchie di millenni. E' infatti impensabile che possa continuare quell'opera intrapresa a fianco delle attività militari, che mirava ad allargare l'istruzione e le cure mediche a quelle parti di tessuto sociale fortemente condizionate dalla miseria e dalla repressione religiosa, con la sola protezione delle forze armate locali e dei droni di Washington. La questione non è di poco conto e se è giusto che non siano solo gli USA, attraverso la NATO, a farsi carico del problema, è altrettanto corretto che la questione venga presa in carico dalla comunità internazionale, con l'ONU in primo piano, per scongiurare ed evitare l'abbandono di una nazione tanto martoriata, che ha fatto qualche progresso con costi altissimi e che rischia che tutto questo venga vanificato dal ritorno di forze oscurantiste.
Romney torna sulla politica estera
Mitt Romney cerca di recuperare sul terreno in cui è più debole: la politica estera. Nonostante la risalita nei sondaggi, dovuta alla buona prestazione nel confronto diretto con il presidente uscente, il 46% degli elettori statunitensi pensa che Obama sarebbe più competente sulla materia internazionale, rispetto al 40% che da maggiore credito a Romney. Rispetto al dato di luglio, che vedeva un vantaggio per il presidente in carica del 47% rispetto al 39% dello sfidante, vi è stata una notevole crescita, che, però non è stata ancora sufficiente a colmare il considerevole svantaggio. Romney paga questa considerazione inferiore, per dichiarazioni estemporanee, che ne hanno fatto comprendere la scarsa preparazione sui fatti internazionali e diplomatici. Tuttavia il lavoro dello staff e gli ultimi accadimenti legati agli attacchi alle sedi diplomatiche americane, seguite al film su Maometto, hanno rilanciato lo sfidante alla presidenza USA, anche in questo campo. Romney ha così sferrato un attacco frontale contro la politica improntata alla prudenza di Obama, accusandolo di passività di fronte agli atti anti americani che sono avvenuti. Lo sfidante repubblicano ha proposto una ricetta che preveda un maggiore interventismo militare come risposta agli atti ostili verso gli Stati Uniti, frutto di una sottovalutazione del peso sempre più crescente del terrorismo islamico. Il punto debole della politica di Obama, secondo Romney, è l'eccessivo attendismo di una stabilizzazione, che senza un consistente aiuto americano non può verificarsi. E' chiaro che è una concezione dei rapporti con gli stati che sono usciti dalle primavere arabe diametralmente opposta a quella fin qui praticata da Obama, il quale ha preferito un profilo più basso proprio per non incorrere nel luogo comune che di solito vede l'azione americana come imperialista. Certamente i fatti seguiti alla diffusione del film su Maometto hanno favorito una presa di posizione che può fare breccia in certi ambienti della destra americana, fornendo gli indecisi a recarsi alle urne un argomento sempre convincente. Del resto, un'altra proposta di Romney tornata attuale è l'aumento del budget destinato alle spese militari e la questione israeliana con l'Iran, dove le soluzione dello sfidante collima con quella del presidente Netanyahu e cioè attaccare Teheran. Questi segnali non possono che essere letti come preoccupanti, in questo momento, pur con tutti i distinguo del caso, è senz'altro preferibile un presidente come Obama capace di gestire in modo più pacato anche altre situazione come il rapporto con la Russia e quello con la Cina, per ora tenuti sotto controllo grazie ad una intensa attività di mediazione, che non pare nelle capacità e nelle intenzioni di Romney. L'attuale fase storica non ha certo bisogno di persone al potere come il candidato repubblicano, che nonostante abbia migliorato nell'esposizione, resta un convinto assertore dell'affermazione degli USA come prima potenza mondiale in maniera dichiarata, cosa che Obama, pur continuando a perseguire nei fatti, evita accuratamente di ostentare.
venerdì 5 ottobre 2012
La Francia rilancia la collaborazione tra i paesi del Mediterraneo
Una delle soluzioni proposte durante la primavera araba, per affiancare le nascenti democrazie della sponda sud del Mediterraneo, dall'allora in carica presidente francese, Sarkozy, era quella di rilanciare l'idea di una organizzazione sovranazionale dei paesi del Mediterraneo, che potesse avviare progetti di collaborazione tra gli stati, sia in campo politico, che economico, che militare, che di aiuti alla formazione, per instaurare un rapporto che assicurasse la stabilità dei paesi affacciati sulle rispettive sponde del bacino. L'idea era poi decaduta per lo sviluppo, anche tragico, che le rivoluzioni dei paesi arabi avevano preso, sopratutto a seguito dell'intervento della coalizione dei volenterosi in Libia. Ma la creazione di una forma di unione tra i paesi del Mediterraneo deve essere una costante trasversale nel mondo politico francese se anche l'attuale presidente della repubblica, Hollande, la rilancia con grande convinzione. Nel prossimo vertice che si terrà a La Valletta, la Francia punta molto ad intensificare la collaborazione tra i cinque paesi della UE (Francia, Spagna, Italia, Malta, Portogallo) ed i cinque Maghreb (Algeria, Libia, Mauritania, Marocco, Tunisia), che saranno presenti. Questa formula, definita dei 5+5, ricalca lo schema in voga negli anni ottanta del secolo scorso, che prevedeva riunioni periodiche, sebbene informali, che permettevano uno scambi di idee ed un rapporto continuo tra paesi culturalmente molto distanti. L'evoluzione della situazione politica internazionale aveva fermato questi incontri al 2003, interrompendo una consuetudine che aveva instaurato un canale di comunicazione, che talvolta aveva rappresentato l'unico strumento semi ufficiale di confronto, troncando quindi una via sempre disponibile ed aperta. La variazione degli assetti politici seguiti alle primavere arabe ha determinato la necessità di ripristinare quei canali privilegiati, sopratutto diplomatici, che possono permettere una collaborazione comune alla definizione ed alla possibile risoluzione di quelle problematiche che possono riguardare le nazioni che si affacciano e si dividono il mare Mediterraneo. Non sappiamo se l'idea, prima di Sarkozy, ed ora di Hollande, parta da una reale presa di coscienza dell'importanza dello strumento o se costituisca una volontà di riaffermazione della politica francese, ultimamente un poco in ribasso, sul panorama internazionale, resta però il fatto che l'idea è senz'altro positiva e l'enfasi e la pubblicità che ne da l'Eliseo, a differenza di altre cancellerie pure coinvolte, testimonia che Parigi vuole essere il motore trainante di questa soluzione. Certo le condizioni in cui questa collaborazione dovrà svilupparsi non sono delle migliori: la crisi economica mondiale e quella dell'euro in particolare, non favoriscono certo l'assunzione di progetti troppo ambiziosi da parte dei paesi della UE, tuttavia, e non a torto, la presenza dei paesi del Maghreb, è ritenuta un punto di partenza incoraggiante. La politica di collaborazione dovrà partire da obiettivi minimi che, se funzionanti, permettano poi una collaborazione sempre maggiore. Non per niente si punta molto sulla formazione, tra cui è molto rilevante una sorta di progetto Erasmus del Mediterraneo, che punti ad uno scambio continuo tra gli studenti delle rispettive sponde, in una sorta di contaminazione culturale che favorisca il dialogo senza interruzioni. Ma il Progetto Mediterraneo ha ben altre ambizioni, dettate dalla necessità di regolare fenomeni non più sostenibili dai paesi delle due rive per motivi che sono complementari. Il controllo dell'immigrazione è uno degli aspetti comuni più rilevanti, perchè va ad innestarsi sulla necessità dello sviluppo dei paesi costieri della sponda meridionale, a questo proposito si è pensato all'intensificazione di progetti riguardanti le energie alternative per arrivare alla difesa ed alla sicurezza, dove è necessaria una stretta e continua collaborazione, sopratutto in relazione alla sempre crescente minaccia rappresentata del terrorismo islamico. Inutile dire che esistono obiettivi ancora più ambiziosi come il coinvolgimento della questione israelo palestinese, dove la diplomazia europea, se appoggiata da quella dei paesi arabi può giocare un ruolo importante, anche in ottica di possibile risoluzione dell'annoso problema. Uno dei fini ultimi di questo progetto potrebbe essere la costituzione della regione mediterranea, come organismo indipendente capace di sviluppare forme continue di collaborazione, all'interno di un proprio perimetro definito anche da leggi e regolamenti condivise, che potrebbe essere una anticamera ad un allargamento dell'Unione Europea anche a paesi tradizionalmente considerati fuori dal vecchio continente. Un processo certamente pieno di incognite e di ostacoli e magari inattuabile, che, tuttavia, potrebbe essere avviato con forme di integrazione studiate in maniera specifica, ma sempre con l'intento di favorire una maggiore integrazione, intesa come antidoto all'isolamento vera causa di contrasti tra le nazioni.
giovedì 4 ottobre 2012
La Turchia coinvolge la NATO sulla Siria
L'attacco siriano contro il territorio turco, che ha causato la morte di cinque civili, ha provocato la decisione della NATO di esprimere formalmente il proprio sostegno alla Turchia, che come paese membro dell'Alleanza Atlantica in situazione di pericolo può avvalersi dell'appoggio militare dell'organizzazione con sede a Bruxelles.
La decisione potrebbe costituire la giustificazione dell'intervento sul territorio siriano, tanto invocata dai ribelli, da parte di forze straniere, eludendo il veto del Consiglio di sicurezza dell'ONU, esercitato rigidamente da Cina e Russia. Gli ambasciatori dei 28 paesi che aderiscono alla NATO, in riunione di emergenza, hanno affermato in maniera univoca, che Damasco sta esercitando chiare violazioni del diritto internazionale nei confronti di un loro alleato. Tale dichiarazione potrebbe costituire il preludio a forme di intervento attive nei confronti della Siria. I piani militari delle armate di Assad, nei confronti del vicino turco, rientrano nella volontà di fermare il flusso dei profughi che fuggono oltre frontiera ed al contempo contrastare le basi dei ribelli presenti sul territorio turco. Gli episodi conflittuali tra i due stati, da quando è cominciata la guerra civile siriana, non sono infrequenti, prima dell'ultimo episodio, il caso più rilevante era stato l'abbattimento di un aereo militare turco da parte della contraerea di Damasco. Ma questa volta la risposta all'atto ostile siriano non è stata soltanto diplomatica, infatti l'esercito turco ha bombardato il territorio della Siria, in risposta al razzo caduto entro i propri confini. Appellandosi all'articolo numero cinque del Trattato Nord Atlantico, che prevede la difesa collettiva contro un attacco a uno dei suoi membri, la Turchia costringe la NATO, finora in una posizione di secondo piano nella vicenda siriana, ad esporsi in maniera definita. Per gli USA questo fatto potrebbe essere l'opportunità per intervenire per porre fine ai massacri, azione che sarebbe da tempo nelle intenzioni di Washington, da percorrere però, non come una iniziativa singola degli Stati Uniti, ma di concerto con altre potenze e meglio se con l'approvazione delle Nazioni Unite. Tuttavia, stante il perdurare dei veti di Mosca e Pechino nella sede del Consiglio di sicurezza, anche un copertura di ripiego, ma sempre importante e sopratutto sovranazionale, come quella della NATO potrebbe giustificare l'intervento militare. Occorre però considerare come si vorrà intendere, sempre nel caso si decida per una azione armata, l'applicazione dell'articolo cinque del patto atlantico. Se verrà optato per una azione limitata alla difesa del suolo turco senza l'invasione di quello siriano, questa si concretizzerà con azioni di contenimento delle forze fedeli ad Assad, l'intervento, cioè, non sarà di una portata tale da alterare l'equilibrio delle forze, lasciando al governo in carica a Damasco notevoli opportunità di potere continuare la sua lotta da un punto di forza maggiore delle forze ribelli. Se si sceglierà questa strada sarà ritenuto politicamente più conveniente non complicare le relazioni con Cina e Russia, per non alterare situazioni diplomatiche già difficili, che potrebbero creare complicazioni di politica internazionale ad Obama nella occasione delle imminenti elezioni presidenziali USA. Viceversa, se si vorrà applicare una lettura ed una applicazione estensiva del già citato articolo cinque, si dovrà fornire una lettura della situazione che ritenga la permanenza al potere di Assad come un pericolo per lo stato turco in modo da giustificare un più massiccio impiego della forza. Questo avrebbe come obiettivo, oltre alla fine della guerra civile, il favorire l'insediamento al potere di quei gruppi con una maggiore inclinazione di simpatia verso il mondo occidentale, anche tenendo conto delle evoluzioni politiche con derive verso forze confessionali islamiche, che si sono verificate nelle precedenti primavere arabe. Questo aspetto è uno dei motivi di maggiore analisi e titubanza da parte degli Stati Uniti, che se da un lato devono impedire la vittoria di Assad, per scongiurare un paese al confine con Israele praticamente sotto il controllo iraniano, non hanno ancora chiaro come sia l'assetto delle forze ribelli, che costituiscono un coacervo di tendenze, che in caso di vittoria, si ritiene difficile mettere d'accordo, con potenziali ulteriori sviluppi di conflitto. Tuttavia pare poco credibile che la Turchia voglia avere ancora al proprio confine una tale situazione di instabilità; l'esercito turco è sufficientemente forte da battere quello siriano, che seppure bene armato, si trova a fronteggiare una guerra civile. Se Ankara dovesse decidere anche in modo unilaterale di dare il via alle operazioni, per la NATO sarebbe impossibile chiamarsi fuori, ma per gli USA ed in generale per l'occidente si potrebbero aprire una serie di difficoltà diplomatiche di non poco conto.
martedì 2 ottobre 2012
L'ONU in difficoltà finanziaria per gli aiuti ai rifugiati
L'ONU è in difficoltà per i costi sostenuti per gli aiuti ai rifugiati nel mondo. Una serie di combinazioni tragiche ed una congiuntura economica sfavorevole, che fa sentire la sua ricaduta anche sugli aiuti umanitari, obbligano le Nazioni Unite ad affrontare le varie crisi mondiali con mezzi finanziari sempre più scarsi. Occorre dire che l'avanzata del fondamentalismo islamico, che genera esodi di massa nel continente africano, rappresenta il fattore politico strategico preponderante, insieme alle guerre spesso scaturite dalle primavere arabe, all'origine del grande incremento del fenomeno dei rifugiati. Dal lato economico vi è l'aumento dei prezzi delle derrate alimentari, determinato dalla combinazione delle avverse condizioni climatiche unito alla crisi economica che sta colpendo l'intero pianeta, ad aggravare la voce di bilancio che il Palazzo di vetro destina agli aiuti umanitari. Ma insieme a questi fattori vi è anche lo scarso finanziamento che l'ONU riceve dai paesi membri, spesso costretti a tagliare i fondi destinati agli aiuti umanitari, per mancanza di risorse interne. Del resto il fabbisogno economico che deve materialmente sopperire agli aiuti di circa 42 milioni di persone è affare di complicata gestione finanziaria. Già nel 2011 il numero dei nuovi rifugiati è stato di 800.000 persone, mentre nel 2012, con l'apertura dei fronti siriano, sudanese, del Congo e del Mali, il tragico conto di chi è stato costretto a fuggire dalla propria terra ammonta già a 700.000 persone. Per cercare di limitare questo triste fenomeno, già caratterizzato dalle difficili condizioni di vita dei profughi ed ora aggravato dalle scarse risorse finanziarie che non potranno che peggiorare il livello della qualità degli aiuti, occorre elaborare una strategia preventiva che ne sappia ridurre sensibilmente il dato numerico. Tale strategia deve vertere su due strumenti essenziali: quello diplomatico e quello militare. Se situazioni contingenti come quella siriana, sono obiettivamente difficili da controllare, come il fallimento della missione di Kofy Annan ha dimostrato, sulle situazioni africane, che rappresentano la consistenza maggiore di profughi, occorre un intervento deciso volto ad eliminare la fonte del problema. Il caso del Kenya, che con i propri militari, sta respingendo le milizie islamiche, costituisce un valido esempio di come possa essere impiegata una forza internazionale, e quindi ben più potente dell'esercito di Nairobi, per liberare interi territori da cui sono fuggite masse ingenti di persone a causa dell'instaurazione di estremisti religiosi. E' chiaro che per fare questo occorre una volontà politica che sappia coinvolgere nazioni di diverso orientamento, ma questo non può che essere un investimento per una maggiore stabilità delle regioni dove il fenomeno dei profughi ha assunto livelli tali da ripercuotersi anche nei paesi più ricchi. Un'altra causa dell'incremento degli esodi sono le sempre più frequenti carestie, che colpiscono determinate zone del pianeta. La mancanza di investimenti volti a procurare l'autosufficienza alimentare è una macchia, che sia l'ONU, che le potenze mondiali e le nazioni industrializzate, devono cancellare. Il ruolo delle Nazioni Unite deve essere di maggiore coordinamento ed impulso a tali forme di aiuto, che possono permettere anche una crescita economica di paesi poveri, fuori dai mercati mondiali. L'attuale situazione dimostra come il solo aiuto inteso come intervento di emergenza è ormai insufficiente, perchè si basa su presupposti economici che non vanno aldilà della situazione di emergenza; la necessità di una programmazione che abbracci piani diversi di intervento è un aspetto non che non ammette rinvii e che, purtroppo, dimostra ancora una volta l'inadeguatezza dell'ONU attuale, con un sistema di gestione non più adatto alla fase storica attuale.
lunedì 1 ottobre 2012
L'Europa meridionale attraversata dalla crisi
Le tante manifestazioni che attraversano, sopratutto il sud dell'Unione Europea, dimostrano che il disagio sociale è sempre più intenso. Alle politiche economiche di austerità varate dai governi di Grecia, Portogallo, Spagna ed Italia sta per aggiungersi la Francia; il fine dichiarato è quello di abbassare i deficit degli stati per raggiungere un pareggio di bilancio, che però, così formato è destinato ad abbassare ulteriormente la già difficile situazione delle famiglie in special modo dei salariati e dei pensionati. L'accoppiata mortale formata dall'aumento delle tasse con la riduzione dei servizi ed anche delle entrate, ha portato la maggior parte dei nuclei familiari dei paesi dell'europa meridionale verso una compressione dei consumi che ha generato una recessione ormai impossibile da contenere. L'impressione è che questo fenomeno non sia stato previsto in modo così profondo da chi ha eleborato le strategie di contenimento economico, infatti, oltre alle tensioni sociali destinate a crescere, questo risultato ha anche provocato il minore gettito fiscale che ha in parte invalidato i duri provvedimenti presi. Questo fatto, aldilà delle promesse di ripresa, blocca la ripartenza dell'economia condannando la situazione ad un avvitamento senza uscita. Le grandi manifestazioni di piazza, sfociate purtroppo in scontri anche violenti, testimoniano che il livello di guardia è ormai oltrepassato e che le conseguenze che si prevedono sull'ordine pubblico sono delle peggiori. Siamo di fronte a governi, eletti e no, che sovvertono in maniera clamorosa programmi elettorali, in alcuni casi annunciati soltanto pochi mesi prima; il corpo elettorale, specialmente quella parte che ha dato il proprio sostegno in sede di voto, si trova spiazzato e tradito da politiche che vanno completamente nella direzione opposta a quella concordata con chi ha concesso la fiducia. Se questo stato di cose si unisce alla prostrazione economica della maggior parte della popolazione, si ottiene una miscela altamente esplosiva; gli stessi sindacati si sono dichiarati più volte incapaci di potere controllare la rabbia dei lavoratori, non avendo più argomenti per calmarli. Una situazione così diffusa di malcontento, che si sta sempre più allargando anche a ceti sociali più abbienti, diventando così un fenomeno trasversale della società, rappresenta una situazione di novità all'interno della UE, proprio per la sua larga diffusione in diversi stati membri, assumendo proporzioni talmente vaste da provocare la domanda se lo stesso concetto di esercizio della democrazia in Europa non abbia assunto una distorsione tale da decretarne una revisione. Se, infatti, alla base dell'azione dei governi deve esserci la maggiore diffusione del benessere della società, da raggiungere con modalità differenti a seconda dell'orientamento politico che detiene la maggioranza, quello a cui stiamo assistendo è un capovolgimento delle finalità che sembra vengano percorse. Le decisioni di salvare istituti finanziari e bancari, spesso colpevoli della crisi per le loro gestioni dissennate, attraverso il taglio di servizi e l'aumento delle tasse a chi ha già spesso patito in prima persona le conseguenze di queste politiche scellerate, penalizzandoli, quindi, in maniera doppia, non può che scatenare il malcontento e l'astio contro i centri di potere che si muovono in direzione univoca. L'assenza di politiche alternative, che pure in un quadro di rigore, permettano il mantenimento dei già bassi livelli occupazionali e trovino soluzioni per l'ingresso nel mondo del lavoro delle fasce di età più basse, rischiano di ingrossare quei movimenti, talvolta estremisti, che puntano alla dissoluzione europea, che nella loro visione rappresenta l'unica via di uscita da una organizzazione sovranazionale identificata, purtroppo talvolta a ragione, con i potentati finanziari responsabili della situazione. Questo pericolo è ancora più grande quando si assiste alla pochezza di Bruxelles nel governare la situazione, che lascia di fatto il comando a mercati e borse; questi, attraverso loro emanazioni, come gli istituti di valutazione, che esercitano metodi anche illeciti, influenzano i governi, con dati anche artificiosamente costruiti e dettano la linea da seguire alle cancellerie. L'assenza della politica da tanti invocata, sebbene con ragioni comprensibili, provoca così un vuoto di potere subito riempito dalle istituzioni finanziarie che non possono non governare a loro favore, facendo pagare il costo della crisi a chi già la subisce. Quello che occorre è una appropiazione della politica dal basso che si esplichi con controlli severi contro quelle distorsioni che hanno favorito questo stato di cose: vi è un bisogno disperato di maggiore legalità, una condizione che dovrebbe essere scontata ma che attualmente è merce sempre più rara. Putroppo senza dare motivi di una inversione di tendenza alle masse che scendono in piazza la situazione è destinata ad aggravarsi, dopo avere richiesto tanti sacrifici occorre dare in cambio qualcosa capace di riportare fiducia nei tessuti sociali di quei paesi che hanno sottoposto i loro cittadini a sacrifici per certi versi poco comprensibili. In questo senso strumenti come la tobin tax e l'introduzione di forme di tassazione del patrimonio, capaci di alimentare fondi in grado di abbassare l'imposizione fiscale sul lavoro ed in grado di creare sostegno all'occupazione potrebbero essere un inizio in grado di calmierare le diverse situazioni difficili, ma questi provvedimenti dovrebbe essere adottati a grande raggio, cioè su basi territoriali sovranazionali e parti di azioni coordinate per avere un maggiore impatto; certo senza una unione politica che sostenga tale volontà la situazione frammentaria non può che favorire il potere economico già esistente.
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